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I libri di IGNIS 

 

I MALVAGI COMANDANO 

 

Scrive Plotino nel capitolo ottavo della III Enneade intitolata: I malvagi comandano per la viltà dei loro sudditi:

“In ogni essere vivente le parti superiori, il viso e la testa, sono le più belle, ma non sono tali le parti mediane e inferiori. Gli uomini sono nella regione media e inferiore <del mondo>, in alto sono il cielo e gli dei che esso contiene; gli dei e il cielo che circonda il mondo formano la maggior parte del mondo, la terra sta al centro e non è che un astro qualunque. Ci stupiamo che negli uomini ci sia l’ingiustizia poiché giudichiamo che l’uomo sia la cosa più preziosa dell’universo e l’essere più saggio di tutti.

Invece egli sta in mezzo tra gli dei e le bestie e inclina verso gli uni e verso le altre: alcuni assomigliano agli dei, altri alle bestie, la maggioranza sta nel mezzo.

Coloro, che per la loro corruzione son vicini agli animali senza ragione e alle fiere, trascinano e maltrattano gli uomini che sono nel mezzo: e questi, che pur sono superiori a coloro che li maltrattano, si lasciano dominare dagli inferiori poiché sono in certo modo inferiori ad essi, perché non sono ancora virtuosi e non sono preparati a non soffrire <quei mali>. Se fanciulli fisicamente esercitati, ma moralmente inferiori per mancanza di educazione, vincessero nella lotta altri fanciulli non educati né fisicamente né moralmente e rubassero loro i cibi e portassero via i loro begli abiti, non sarebbe una cosa da ridere?

E come non agirebbe bene quel legislatore che permettesse che essi soffrissero quei danni a castigo della loro ignavia ed inerzia?

Sono stati insegnati loro degli esercizi, ma essi per la loro ignavia e per la loro vita molle ed incurante sono rimasti là inattivi, diventando così agnelli grassi preda dei lupi. Per quelli poi che fanno il male, il primo castigo consiste nell’essere lupi e uomini malvagi; esistono inoltre per loro delle pene convenienti che essi devono subire, perché per coloro che sono stati cattivi quaggiù tutto non finisce, ma alle loro azioni antecedenti seguono sempre le conseguenze, secondo ragione e natura, il male per quelle cattive, il bene per le buone.

Questa <vita> certo non è una palestra, ove si fanno dei giochi. Quando i fanciulli sono cresciuti nell’ignoranza, bisognerebbe che essi, d’ambo le parti, cingessero le spade e prendessero le armi il loro spettacolo sarebbe superiore a un esercizio ginnastico; invece alcuni sono disarmati, altri sono armati e li vincono.

Non tocca a Dio. combattere per i pacifici: la legge vuole che alla guerra si salvi colui che è valoroso, non colui che prega, perché raccolgono frutti non quelli che pregano, ma quelli che coltivano la terra, né sono sani coloro che non si prendono cura della loro salute; e non bisogna brontolare se i cattivi hanno un raccolto più abbondante, o se a loro riesca meglio la coltivazione. E poi sarebbe ridicolo compiere a proprio capriccio tutto ciò che riguarda la vita e, benché queste azioni non siano come piace agli dei; esigere la salvezza propria dagli dei senza fare quanto gli dei comandano per la nostra salvezza. La morte è migliore della vita per coloro che vivono contro il volere delle leggi dell’universo; sicché - quando, i nemici sopravvengono, se la pace fosse loro conservata malgrado le loro follie e i loro vizi, la provvidenza sarebbe troppo negligente a lasciar dominare i più deboli I cattivi comandano per la viltà dei loro sudditi: ed è giusto così, non il contrario”. (Plotino, Enneade III, 8)

Nello scritto sono opportunamente sottolineati la malvagità e la viltà degli uomini, due disvalori che nei sistemi politici del mondo moderno si trasformano nella grande colpa e responsabilità dei cosiddetti rappresentanti del popolo.

Esempi di mostri, tiranni e feroci tirapiedi, dai più grandi ai più piccoli, (piccoli di importanza non di ferocia e servilismo) nella storia antica come nella moderna non mancano.

E quando mascherano il loro ghigno beffardo col sorrisetto dell’ipocrisia le situazioni si complicano e peggiorano e le conseguenze ricadono sui popoli sottomessi.

I tiranni meno potenti normalmente sono i meno eruditi e quindi provocano nella società danni di tipo grossolano proporzionali alla loro maldestra capacità di agire.

La comunità della nazione dove i tiranni operano e che si dichiara impotente, si mostra complice e sottomessa per cui indirettamente merita di essere così violentata.

La storia insegna che alla violenza non si risponde con il ramoscello d’ulivo, ma con proporzionali atti di coraggio nei quali si riconosce il destino di un popolo: i popoli codardi sono stati sempre sottomessi e dominati dai più forti.

Il potere e la politica in genere hanno due sole regole: dominare o essere dominati, le vie di mezzo appartengono ai molluschi che adorano vivere nascosti nei fori delle caverne sottomarine. (Cicerone)

Uscire allo scoperto, afferrare il tridente di Nettuno e spaziare lo sguardo sull’orizzonte, affrontare ed abbattere gli ostacoli, qualunque essi siano, godendo della libertà di movimento e della brezza marina, è virtù dei forti.

Onore ai popoli del mare che hanno sempre creduto nella libertà degli alcioni e con ali di bronzo ha sempre volato alto e incitato con un grido di onore e di vittoria i più deboli e gli indifesi.(r.s.)


 

LA PURIFICAZIONE

 

 

   Il modo migliore per capire come un'anima possa ascendere all’immortalità è esaminare il metodo della purificazione etica, che riguarda tutte le anime. Le anime secondo Plotino hanno una presenza permanente nell'intelligibile, la cosiddetta anima non discesa. Ciò significa che, a differenza delle anime che secondo Platone, scendono interamente nel mondo sensibile, le anime in Plotino rimangono nell'intelligibile attraverso l'intelletto. Lo scopo della purificazione è quindi quello di staccarsi dal corpo per poter attuare col proprio intelletto. (V. Plotino, Della purificazione e della contemplazione)

   Ma ciò che sembra semplice in teoria è più complesso in pratica, soprattutto perché l'uomo è composto da diverse anime, che sono interessate in modo diverso alla purificazione. L'anima che scende dall'intelligibile al sensibile è chiamata anima superiore o anima individuale. Per incorporarsi, proietta un'immagine di sé. Questa immagine è chiamata anima inferiore, anima irrazionale o anima passiva. Essa corrisponde alle facoltà proiettate dall'anima superiore quando inclina verso il sensibile. Laddove l'anima superiore possiede la ragione discorsiva, l'anima inferiore utilizza la sensazione. Soprattutto, l'anima inferiore è quella più vicina al corpo e quella che fa più fatica a staccarsene. La difficoltà, quindi, sta nel permettere alle due anime di purificarsi al meglio delle loro possibilità:

   Ebbene, la purificazione [katabasis] consisterebbe in tre cose: isolare l'anima, cioè impedirle in   primo luogo di stare con altre realtà, o in secondo luogo di dirigere lo sguardo verso qualcosa di diverso da sé, di avere opinioni estranee (qualunque sia la natura di queste opinioni o affetti, nel senso in cui se ne è parlato), o in terzo luogo di considerare immagini [idoli] e di produrre affetti [pathos] da queste immagini.

    Qui c'è una gradazione nella purificazione. Non vengono date tre definizioni di purificazione, ma tre gradi, che vanno dal più alto, la meta assoluta a cui ogni anima deve tendere, al più basso, quando l'anima è già profondamente invischiata col corpo. Il primo grado corrisponde all'isolamento dell'anima, che Plotino definisce come il fatto di non associarsi ad altre realtà, queste ultime costituite dal corpo e, più in generale, dalla materia che permette a questo corpo di prodursi. Il verbo è talvolta utilizzato per indicare il rifiuto del corpo da parte dell'anima. L'anima si allontana dal corpo quando è ancora nel sensibile, il che potrebbe farci dedurre che il primo grado di isolamento consiste nel rivolgere l'attenzione dell'anima all'intelligibile. A nostro avviso, però, il termine più rivelatore è la parola che Plotino usa relativamente spesso per parlare dell'anima quando è fuori dal corpo e allo stato intelligibile. Per questo motivo, tendiamo a pensare che il primo grado non consista nella separazione dal corpo durante la vita sensibile, ma nella liberazione dell'anima da ogni incorporazione. Il trattato 15 (III, 4), Sul demone che ci ha accolto in sorte, evoca questa possibilità: alcune anime raggiungono l'esterno, cioè si liberano dal corpo. L'anima del saggio può riuscire a rimanere nell'intelligibile, anche se non sappiamo se questa stazione sia definitiva o limitata nel tempo. Questa ipotesi è rafforzata dal fatto che Plotino, nella continuazione del trattato 26 (III, 6), Sull'impassibilità dell'incorporeo, usa dire che l'anima si associa alla materia per produrre un corpo. Il grado ultimo di purificazione riguarda quindi la possibilità stessa dell'incorporazione e non solo la vita incorporata. L'anima veramente purificata può liberarsi dal ciclo delle rinascite. 

    Ma per fare questo è necessario che siano già garantiti gli altri due stadi, che questa volta riguardano l'anima nel corpo. Lo stadio più alto della purificazione consiste nel ripiegamento su sé stessi e nella concentrazione totale dell'attenzione dell'anima sul suo contenuto intelligibile. Non tutto ciò che proviene dal corpo penetra nel campo della coscienza. È questo che si intende per opinione estranea, tenendo presente che ogni opinione, nel Trattato 26 (III, 6), è intimamente legata alla produzione di una rappresentazione. L'anima deve conservare solo le opinioni legate all'intelligibile e rifiutare quelle provocate dalle affezioni, cioè dal corpo. Nel trattato 53 (I, 1), Che cos'è la vita, Plotino descrive l'opinione come un giudizio su qualcosa. Ciò significa che ogni opinione implica l'assenso o il rifiuto dell'anima razionale. È per questo motivo che l'anima può rifiutare opinioni che producono affetti e viceversa. Per esempio, la paura di un male futuro provoca paura e alcuni disturbi fisici, come il tremore o il pallore del viso. Al contrario, il dolore nel corpo può provocare la paura di un possibile pericolo, e quindi un'opinione. Sono questi affetti e opinioni che vengono respinti dall'anima che cerca di purificarsi. Tutto ciò che può distrarla da sé stessa, cioè dall'intelligibile, deve essere escluso dal suo campo d’azione.

    Ma questo ripiegamento su sé stessi presuppone innanzitutto che si sia raggiunto il grado ultimo di purificazione. Questo ci è familiare: si tratta di lavorare sulle rappresentazioni. Ciò che è al di là della bellezza è detto la natura del Bene e la Bellezza le sta innanzi tutt’intorno. Così con una formula sintetica diremo che la Bellezza è l’essere primo; ma chi voglia distinguere gli intelligibili, chiamerà il Bello intelligibile luogo delle Idee, e il Bene che è al di là lo dirà sorgente e principio del Bello. Altrimenti, si dovrebbe identificare anzitutto bello e bene: comunque, il Bello è lassù <nell’intelligibile>. Le rappresentazioni che nascono dal corpo sono le più pericolose, perché sono la causa degli affetti. Abbiamo appena fatto l'esempio della paura, ma in generale il…. designa tutto ciò che turba l'anima e la rende passiva, nel senso che non è più in grado di usare la ragione per allontanarsi dal corpo e acquisire autonomia. Gli affetti riguardano solo il corpo e il suo benessere, ma se l'anima si identifica troppo con esso, prende la paura, la rabbia o il piacere come messaggi rivolti a lei.

     Il trattato 26 (III, 6) riassume infatti quanto già esposto nel trattato 19 (I, 2), Sulle virtù. Plotino descrive tre tipi di virtù: le virtù del cittadino, le virtù elevate e le virtù che potrebbero essere chiamate intellettive, quando l'anima si comporta come l'intelletto. Secondo Plotino, lo scopo dell'acquisizione della virtù è quello di assimilarsi al dio, cioè all'intelletto. Le virtù civiche hanno un ruolo molto secondario nel raggiungimento di questo obiettivo. Per Platone sono virtù che mirano a migliorare l'anima e la città, ma per Plotino non sono vere virtù, a causa di questa dimensione politica. Il rapporto che abbiamo con gli altri non gioca alcun ruolo rilevante nell'ascesa. L'anima scende e sale da sola.

     D'altra parte, le virtù superiori sono necessarie per l'ascesa e costituiscono il primo stadio della purificazione: Non si potrebbe dire che è buona e possiede la virtù se invece di formare le sue opinioni a partire dal corpo, agisce da sola - che è appunto intelligere e riflettere -, se cessa di condividere le sue passioni - cioè di dominare sé stessa, se non teme di essere separata dal corpo - cioè di essere coraggiosa -, e se sono la ragione e l'intelletto a dirigerla senza che questi affetti si intromettano - e in questo consiste la giustizia. Certamente, una tale disposizione dell'anima, secondo la quale essa intellige e quindi è impassibile, se si volesse chiamare somiglianza con il dio, non si sbaglierebbe.

    Queste quattro definizioni sono un'opportunità per Plotino di distinguersi da Platone adattando i suoi concetti alla sua argomentazione etica. Lo dimostra, ad esempio, il legame tra intellezione e riflessione. È infatti l'intelletto la causa della riflessione nell'anima. Ecco perché solo le virtù che implicano sono vere virtù. Se l'anima non ha più un'opinione in comune con il corpo, non subisce più gli affetti che devono seguire. Non c'è quindi più passività dell'anima, non c'è più rabbia, non c'è più sofferenza, non c'è più appetito, in ogni caso, nulla di superficiale. Ne consegue logicamente che il corpo diventa accessorio per l'anima e che questa non teme più la morte e la separazione. La separazione è usata da Plotino soprattutto per designare l'anima fuori dal corpo, nella misura in cui non è più presente, cioè nella misura in cui è finalmente liberata dalla morte del corpo. Poiché l'anima ha imparato a vivere rivolta verso sé stessa e ha preso coscienza della sua natura intelligibile, sa che non ha bisogno del corpo per esistere e vivere. L'incorporazione è solo un momento fugace, non l'intera vita. Questo atteggiamento è il più adatto alla natura dell'anima, perché implica il dominio della ragione e dell'intelletto, le due facoltà che permettono all'anima di tornare al suo posto originario, sia durante che dopo l'incorporazione.

    Ma queste virtù, che sono già alte, non sono le più alte. Il grado più alto di virtù è quello con cui l'uomo diventa divino, nel senso che diventa intellettivo: Non si dovrebbe forse dire che la saggezza e la riflessione consistono nella contemplazione delle realtà possedute dall'intelletto? [...] La giustizia nella sua forma più elevata consiste nell'essere in atto verso l'intelletto; l'autocontrollo nel volgersi interiormente verso l'intelletto; e il coraggio è l'impassibilità dovuta all'assimilazione con la realtà verso cui l'anima volge lo sguardo, realtà che per sua natura è impassibile mentre l'anima, da parte sua, è impassibile per effetto della virtù, quando si prefigge il fine di non condividere le passioni del suo compagno inferiore.

     Le virtù precedenti sono il modo in cui l'anima si allontana dal corpo per prendere sé stessa come oggetto di attenzione. Queste virtù illustrano la fase successiva, quando l'anima giunge alla contemplazione del suo intelletto individuale. Lo scopo non è, ovviamente, che l'anima guardi sé stessa: questo sguardo è solo un'apertura su qualcosa di più elevato. La riflessione passa così dal rifiuto delle opinioni formate dal corpo alla contemplazione delle forme intelligibili. La giustizia passa dalla direzione dell'anima da parte della ragione all'attualizzazione dell'intelletto da parte dell'anima. L'anima non si limita più a obbedire all'intelletto, ma lo vive attivamente, lo diventa. La (…) comporta il rivolgersi all'interno dell'intelletto. Nel capitolo 4 del trattato 19, Plotino spiega che questo rivolgimento dopo la purificazione è definitivo. La padronanza di sé in questa fase non è quindi una semplice inclinazione dell'anima verso l'intelletto, ma un'inclinazione definitiva. Per quanto riguarda il coraggio, esso risiede ora nel fatto che l'anima diventa impassibile come l'intelletto, nel senso che, come l'intelletto, non è influenzata da una realtà inferiore. L'anima acquisisce le qualità della sua origine intelligibile. Dal momento in cui attualizza definitivamente l'intelletto, diventa, per quanto possibile, come esso.

    In altre parole, tutte le anime hanno la capacità di purificarsi attraverso la virtù, anche se non sono naturalmente filosofi. Ma se è così, perché non tutte ascendono? Perché alcune non fanno lo sforzo che dovrebbero? In realtà, ciò non può essere spiegato dalla natura dell'anima, dalle sue inclinazioni spontanee verso l'intelligibile e il sensibile, ma da un evento altrimenti del tutto contingente, quello dell'insegnamento filosofico e, più in particolare, dell'insegnamento dell'immortalità dell'anima: Ecco perché bisogna rivolgere due discorsi a coloro che si trovano in questa situazione [che non sanno di avere un'anima immortale], se si vuole farli volgere nella direzione opposta, verso le cose che sono prime, e ricondurli a ciò che è più alto, uno e primo. - Quali sono dunque questi due discorsi? Il primo è quello che mostra come ciò che l'anima ritiene stimabile non lo sia [...]; il secondo è quello che istruisce l'anima e le fa ricordare la sua origine e il suo valore.

   Mentre l'anima del filosofo ha una capacità naturale di staccarsi dal corpo, non è così per la maggior parte delle anime, che hanno bisogno, come vediamo qui, di un intervento esterno che porti a ciascuna di esse la verità e le guidi durante l'ascesa. La conversione dell'anima verso il suo principio intelligibile è innanzitutto avviata dalla persona che terrà i due discorsi. C'è una sovrapposizione tra il ritorno all'intelletto e all'Uno e il ritorno dell'anima a sé stessa, il problema è che l'incorporazione provoca la dimenticanza e l'inversione dei valori. Da qui la necessità di iniziare, per quanto sorprendente, con il secondo discorso. L'anima può deprezzare il corpo solo se riesce a ricordare la sua origine e la sua vera natura. È ricordando che è intelligibile che può arrivare a capire che il corpo non è sé stesso, ed è soprattutto solo una tappa della sua esistenza eterna. Non c'è quindi nulla di spontaneo nella contemplazione; essa richiede innanzitutto la conoscenza di sé. Il termine (…)  è interessante, perché dà un'indicazione importante sulla forma del discorso che verrà rivolto all'anima smemorata. È usato per persuadere. Plotino difende una dimensione psicagogica del discorso, nel senso che, tornando al sensibile, l'anima ha una tendenza immediata a rispondere maggiormente alla persuasione. Qualsiasi anima può essere persuasa dal discorso di essere più degna del corpo. Lo scopo è quello di invertire la scala dei valori: non è l'anima che trae il suo valore dal corpo, ma il contrario, perché senza l'anima il corpo "non era, prima, che un cadavere, terra e acqua, o meglio, una materia oscura, un non-essere, ‘un oggetto di odio per gli dei', come dice il poeta". Una volta che l'anima è convinta di produrre corpi e vita in tutte le sue forme, può iniziare il processo di purificazione. Non c'è motivo di pensare che alcune anime siano escluse da questo processo. Se possono fermarsi al primo grado di virtù, è più perché non hanno avuto buone guide che perché sono vittime di un'impossibilità naturale

    Di conseguenza le anime possono ascendere attraverso la purificazione etica. In altre parole, non esiste alcuna impossibilità naturale che impedisca a un'anima di ascendere. Anche le anime che sono già cattive nell'intelligibile sono in grado di comprendere l'insegnamento filosofico, poiché hanno un legame permanente con l'intelligibile grazie al loro intelletto. Ma se la purificazione etica è così efficace e universale, che ruolo dovrebbe avere la dialettica nell'ascesa?

 

IL SERVIZIO DIVINO ANTICO

 

di Marco Maculotti

L’antica religione ellenica «viveva dell’armonico e reciproco rispondere della realtà e della volontà divina. La fede dell’uomo greco è nel cosmo, nel ritmo ordinato delle stelle; e all’intreccio dei loro moti non può che sovrintendere il dio». La concezione ellenica del Sacro si fonda infatti su una fitta rete di corrispondenze mitico-storico-astrologiche, che consente allo storico delle religioni di considerarla sotto vari aspetti fra loro concatenati: Teogonia, storia esoterica del cosmo e delle stirpi umane, escatologia dei Misteri, sciamanesimo iperboreo.

Non v’è mai stato un servizio divino pari a quello greco: per bellezza, sfarzo, varietà e unità esso è unico al mondo e rappresenta uno dei prodotti più alti dello spirito umano. Nell’antico Egeo, millenni di riti e di credenze sacre in una prima fase preistorica pre-indoeuropea (o forse, piuttosto, proto-indoeuropea) e in una seconda fase storica indoeuropea, si sono stratificati e armonizzati sorprendentemente, al punto che spesso risulta difficile comprendere con esattezza a quale delle due fasi cultu(r)ali essi appartengano. Storie di dèi ed eroi, disseminate su tutto il territorio dell’antica Ellade, col passare dei secoli hanno plasmato un corpus mitologico che non ha meramente il carattere della leggenda e del folklore, essendo anche fortemente impregnato di corrispondenze esoteriche ed astrologiche.

L’antica religione ellenica «viveva dell'armonico e reciproco rispondere della realtà e della volontà divina. La fede dell’uomo greco è nel cosmo, nel ritmo ordinato delle stelle; e all’intreccio dei loro moti non può che sovrintendere il dio». La concezione ellenica del Sacro, che a partire dall’VIII° secolo a.C. si sarebbe riversata nelle maggiori correnti filosofico-esoteriche del tempo, lungi dal poter essere interpretata come una “religione” strictu sensu, si fonda infatti su una fitta rete di corrispondenze mitico-storico- astrologiche, che consente allo storico delle religioni di considerarla sotto vari aspetti fra loro concatenati: Teogonia, storia esoterica del cosmo e delle stirpi umane (dottrina delle età esiodee), escatologia dei Misteri, sciamanesimo iperboreo.

«La Teogonia esiodea sembra riflettere la dottrina teogonica dei sacerdoti di Apollo delfico. In origine sarebbe stato il Caos, il “vuoto primordiale” e poi Gaia, la Terra, ed Eros o amore, come attrazione reciproca e principio di unione ed armonia». La prima fase della Teogonia vede la sola esistenza di Chaos (Abisso) e Gaia, la Materia, da cui ogni cosa viene in esistenza, prime tra tutte le potenze numinose del mondo della Natura. In questo scenario entropico di cosmo primordiale, Eros Protogonos funge da forza attrattiva, la cui funzione è di attirare i simili e respingere i contrari. Così l’emanazione delle divinità e la «suddivisione delle funzioni divine» fra di esse ha inizio, e con essa il «Gioco Cosmico». A questa prima fase teogonica corrisponde, nell’epopea dell’umanità, l’epoca remota delle Grandi Dee Madri, «Signore delle Animali» e dee lunari, nonché le dee del grano dei Misteri Eleusini.

La seconda fase della Teogonia si sviluppa in tre cicli caratterizzati da reggitori divini: si tratta di divinità maschili e uranico-celesti, connesse alla fase storica delle grandi invasioni dei popoli indoeuropei, ragion per cui sovente i nessi funzionali con le divinità di altre culture indoeuropee sono evidenti. Se la fase precedente presentava una visione del sacro di tipo «orizzontale», questa seconda si distingue invece per la sua «verticalità»: non più tanto le forze della Natura e della Terra, bensì quelle dei Cieli e del Cosmo vengono riverite. Il primo dei tre sovrani celesti fu Urano, dio primordiale che governava quando il continuum spazio-temporale non sussisteva e il cielo e la terra erano ancora avvinti — la loro divisione avvenendo solo con l’evirazione da parte del figlio Kronos che in tal modo, avviando il divenire (Chronos), lo detronizzò. L’episodio rappresenta una versione particolarmente cruenta del mito arcaico di separazione del Cielo e della Terra. Come terzo governò Zeus (Jupiter)[1], che ottenne la sovranità precipitando il padre Kronos nel Tartaro, in compagnia della sua progenie titanica, o in qualche altra regione atemporale.

Le guerre di Zeus e degli dèi olimpici contro le potenze ribelli si svolgono a loro volta in tre fasi: Titanomachia, Gigantomachia e battaglia finale con Tifone. Le descrizioni di tali scontri producono l’impressione di una regressione allo stato pre-cosmogonico: il trionfo definitivo di Zeus, nonostante le “macchinazioni” di Gaia, divinità primordiale, equivale alla creazione di un nuovo cosmo. Seguono numerose ierogamie di Zeus con varie divinità femminili. Come rileva Mircea Eliade, «il significato di questi numerosi matrimoni e delle molte avventure erotiche è allo stesso tempo religioso e politico. Con l’appropriarsi delle dee locali pre-elleniche, venerate da tempi immemorabili, Zeus le sostituisce e, così facendo, avvia il processo di simbiosi e di unificazione che fornirà alla religione il suo carattere specifico».

Si ha qui da notare, come ben sottolinea Nuccio D’Anna, che «i tre cicli divini hanno una temporalità diversa, esprimono qualità cosmiche non omogenee che rendono ogni ciclo completo e conchiuso in sé stesso, non assimilabile in alcun modo agli altri, ricco di una propria specificità spirituale. [...] a Uranos corrisponde un universo indistinto; a Kronos un cosmo armonico e perfetto con un tempo immoto e un “antico” sole; a Zeus una nuova carta celeste “segnata” dalle dodici stazioni che l’attuale sole tocca nella sua corsa sull’eclittica. Tre spazi cosmici e tre cicli temporali corrispondenti». È chiaro che qui non si tratta semplicemente di leggende o ricordi evemeristici riguardanti antichi sovrani terrestri, essendo tale aspetto da leggersi insieme alla dottrina greca delle età e dei cicli cosmici. Come scrive la Philippson[2], «tre miti d’inganno e contro-inganno sono inseriti in questa linea in tre punti che si succedono nel suo corso in modo ritmico, e precisamente sempre in occasione della minaccia di perdere la dignità sovrana». Indubbiamente, una sapienza di tipo astrologico-sacrale ha influenzato non poco la genesi di questi miti.

Vi è qui da rimarcare con Reinhardt come il concetto di kosmos debba intendersi nel suo significato arcaico, secondo cui «non significa né il mondo né la sua struttura, ma un determinato stato, una fase del mondo, in confronto ad altri kósmoi, altre fasi precedenti e future». Ogni ciclo è dunque, sebbene interconnesso ai precedenti e ai successivi come perle inanellate su un filo invisibile, ontologicamente diverso dagli altri, completo in sé stesso. Nello iato intercorrente fra un ciclo e il successivo si verifica una «Guerra Cosmica» in cui il cosmo viene distrutto per poi essere ricreato dal nuovo reggente. Siamo nello stesso ambito delle «Guerre Celesti» tra Deva e Asura della tradizione indiana, o fra Asi e Vani in quella nordica.

Zeus si distingue dai precedenti sovrani celesti soprattutto per il suo ruolo di ordinatore: lungi dal farsi nemici tutti gli dèi che lo precedettero, di molti ne riconosce l’autorità, stringendo con essi alleanze propizie. Zeus si distingue inoltre dal padre per il possesso del Nous, «mente infallibile», che si contrappone alla «mente contorta» di Kronos. Nell’idea di Zeus sono comprese «la forza, la potenza, la mente più profonda, l’eterna legge e la solida fusione dell’intero cosmo». Per questo, le sacerdotesse dell’oracolo di Dodona cantavano: «Zeus era, Zeus è, Zeus sarà!».

Altre divinità che conosciamo come «olimpiche» risentono palesemente di influssi pre-indoeuropei, apparendo sovente connesse a concezioni sacre di tipo «afroditico» o «demetrico» proprie della fase culturale più arcaica: ad es. Poseidone (lett.: «Sposo della Terra»), che prima di ottenere il dominio sui mari dovette essere una divinità ctonia similare ad Ade/Dis Pater. O ancora Efesto, dio demiurgo che presenta al tempo stesso le caratteristiche dello sciamano e del fabbro. Lo stesso Hermes, nume dell’intelletto e dell’astuzia, delle strade e del commercio, dovette sovrapporsi a una divinità ben più antica, ora della fertilità, ora del mondo infero e dei misteri sciamanici. Persino Zeus e Apollo, divinità uraniche ed indoeuropee per antonomasia, presentano nei miti caratteristiche apparentemente contraddittorie che risentono di influssi arcaici. Gli dèi greci appaiono dunque come forme ‘fluttuanti’, dai caratteri non definiti in modo granitico una volta per tutte: essi si adattano alle diverse sensibilità e concezioni del Sacro delle civiltà che si succedettero nell’antico Mediterraneo, cosicché studiando le loro ‘evoluzioni’ diventa possibile anche farsi un’idea della Weltanschauung dei vari flussi civilizzatori che segnarono le diverse epoche.

E in diverse epoche gli antichi greci suddivisero pure la storia esoterica del mondo. La dottrina delle età esiodee, ripresa tra gli altri da Ovidio e Virgilio, si fondava non su una concezione evolutiva-ascendente, bensì involutiva-discendente, di progressivo allontanamento da una perfezione primigenia, perduta in seguito a una repentina «caduta» avvenuta in illo tempore: qui sta il «dramma cosmico» dell’uomo. Così, se in origine un’umanità perfetta e non ancora suddivisa nei due sessi condivideva la beatitudine degli dèi, insieme ai quali era solita banchettare, sotto l’egida di Saturno/Kronos, già a partire dall’Età dell’Argento, con la quale si fa iniziare il dominio di Zeus, si assiste alla creazione di successive umanità, ontologicamente ben differenti da quella primordiale. La razza argentea è probabilmente una reminiscenza dell’epoca delle Grandi Dee Madri, mentre quella bronzea, caratterizzata da una hybris e da una ferocia senza pari che si esplica soprattutto in ambito bellico, sarebbe grossomodo connessa a quella che parimenti, nella storia delle civiltà che si studia nelle scuole, viene ugualmente denominata «età del bronzo», sebbene talune dottrine esoteriche ritengono la razza bronzea una denominazione per gli Atlantidei.

In questo quadro di cicli cosmici, qual è il ruolo del singolo, soprattutto in un’epoca così oscura come questa età del ferro? Culianu[3] ha dimostrato egregiamente come dietro alle massime concezioni greche tardo-antiche riguardo all’uomo e al suo posto nel cosmo si intravedano frammenti di uno sciamanesimo iperboreo, connesso alla figura divina di Apollo, il migliore (àristos) fra tutti gli dèi. Così, le esperienze mistiche di catabasi del tipo di Orfeo e l’intera dottrina degli Orfici, nonché quella dei Pitagorici prima e dei Platonici e Neoplatonici poi, sarebbero reminiscenze di una Sapienza Sacra estremamente arcaica, ora quasi del tutto perduta.

E «reminiscenza» è davvero un termine chiave nella concezione ellenica: l’idea centrale è che «conoscere» sia uguale a «ricordare». La dea Mnemosine, per dirla con Colli[4], «ci insegna che l’origine di tutti i ricordi — là dove il tempo non è ancora cominciato — è quello appunto che si deve recuperare. Tale è l’insegnamento misterico, tutto il tempo che bisogna attraversare all’indietro per raggiungere il senza tempo, tutte le generazioni di dèi e di uomini, tutti i miti narrati da Orfeo, non sono altro se non giuochi di apparenza». Qui sta, in poche parole, il servizio divino dei Greci.

 



[1] Da qui la grande importanza data nella Fratellanza Hermética da Manlio Magnani al Rito di Jupiter, (ndc).

[2] Paula Philippson, Origine e forme del mito greco, Boringhieri.

[3] I maggiori filosofi della Grecia antica furono tutti iatromanti, vale a dire sciamani “emanazioni” (o, per dirla in maniera induista, Avatara) di Apollo Iperboreo. A riguardo, cfr. I.P. Culianu, I viaggi dell’anima. Mondadori, Milano, 1991, cap. VIII

[4] Giorgio Colli, La sapienza greca, Rusconi.

 

RESURREZIONE

PLOTINO: LA VIA DEL RITORNO – PHILOSOPHICA – THEOLOGICA – HISTORICA

Queste cose dunque vanno dette contro coloro che considerano come esseri i corpi cercando una prova della verità nella testimonianza degli urti e nei fantasmi derivati dalle sensazioni; assomigliando così a coloro che sognano e che considerano evidente tutto ciò che vedono in sogno. La sensazione infatti è dell'anima che dorme, poiché la parte dell'anima che è nel corpo è dormiente; il vero risveglio consiste nel levarsi davvero senza il corpo e non con esso. Levarsi col corpo vuol dire passare da un sonno all'altro, quasi da un letto all'altro; invece levarsi davvero è separarsi del tutto dai corpi, i quali essendo di natura contraria all'anima hanno per essenza l'opposto all'anima. Di ciò testimoniano la loro generazione, il loro divenire, la loro corruzione che non è della natura dell'essere”. (Plotino, Enneade IIII, VI)

Voglio qui riprodurre alcune parole di importanti scrittori e di antichi testi in cui si conferma il principio classico della resurrezione dai morti riconosciuto e ammesso da Plotino nelle Enneadi e non resurrezione dei morti come erroneamente dichiarato dai cristiani nei loro testi religiosi.

Erwin Rohde scrive che l’idea della resurrezione è un’antica credenza persiana da cui probabilmente l’ereditarono gli ebrei. Naturalmente questa credenza assume nel giudaismo un carattere peculiare di realismo grossolano, diviene la resurrezione della carne. Tra la resurrezione della carne e questa resurrezione dai morti e non dei morti passa una bella differenza. Paolo di Tarso rileva con insistenza questa diversità, perché, come egli dice, vi è corpo animale e corpo spirituale, ed è il corpo spirituale quello che resuscita. E questa rigenerazione è la seconda nascita, la nascita dall’acqua e dallo spirito, necessaria per vedere il regno di Dio. L’acqua purifica (la catarsi) e lo spirito vivifica.

Definizione di resurrezione: un’associazione di idee analoga (alla caduta), ma in senso inverso, fa consistere il ritorno alla vita, lo sfuggire alla morte, in un rialzarsi, elevarsi, drizzarsi su in piedi. Cominciando dall’egiziano la parola stessa sahû non significa che questo. Infatti âhâ significa in egiziano stare su, fronteggiare e siccome il prefisso s serve nella lingua egiziana a formare i verbi causativi, cosi Sâhâ significa fare-stare su, porre su e quindi sâh o sâhû che significa divenire o dotare di un corpo spirituale, è appunto ciò che consente al caduto di rialzarsi, e di sfuggire alla corruzione ed all’annientamento.

La concezione arcaica egizia della resurrezione, inoltre, consiste nella germinazione del sahu, il divino corpo spirituale, dal corpo o dal cadavere. È il sahu che rende possibile la sopravvivenza della coscienza, ed è il corpo fisico che rende possibile la germinazione del sahu; il morto risorge nel sahu, questo è il corpo che risorge. In Egitto adunque era possibile ottenere da vivo la osirificazione.

Nella lingua greca troviamo il verbo άν-ίστημι che significa sollevare, faccio alzare, ed è adoperato nel senso di risorgere da morte da Omero e da Erodoto. La parola corrispondente άνά-στασις è adoperata da Sofocle per indicare il risveglio, ma Eschilo la adopera già nelle Eumenidi nel senso di resurrezione da morte.

Nel latino classico tali parole non vengono mai usate nel senso di risorgere, risuscitare dei morti. Plinio per indicare il ritorno in vita in un caso di morte apparente scrive: Aviola consularis in rogo revixit; Virgilio usa l’espressione revocare a morte, e Cicerone e Catullo usano l’espressione redivivus. E per quanto il Ragon dica che Apuleio chiama l’iniziazione una resurrezione a vita nuova, nel testo latino di Apuleio la parola resurrectio non c’è. In Grecia il defunto orfico era munito di un viatico e, come il defunto egizio, aveva dinanzi a sè la duplice possibilità, il loto dell’Ade o i campi elisi. In latino vi è bensì la parola resurrectio - resurrezione, ma a vero dire, non ha assunto il senso attuale che ha nel latino chiesastico; Tertulliano p. e. dice che nei misteri di Mitra c’era una imago resurrectionis.

Così pure per il Taoistail corpo diventa un lambicco in cui per via di complicate operazioni, e pratiche fisiche e morali viene elaborata la propria immortalità”; “è il corpo che mediante le pratiche taoiste forma in sé stesso un’anima la quale al disfacimento di quello lo sostituisce nell’eternità”.

Ed il Vedanta distingue chiaramente i due casi in cui la mukti o moksha (liberazione) viene raggiunta. Jìvan-mukta è colui che vi perviene prima della morte, vidêha-mukta chi vi perviene effettivamente dopo la morte.

Questa arcaica teoria della liberazione, della salvezza, palingenesi, osirificazione, immortalità privilegiata ottenuta mediante la morte e la resurrezione mistica, è assolutamente fondamentale nel lavoro iniziatico, afferma infine Arturo Reghini nelle Parole sacre e di passo, libro pubblicato a Roma nel 1924.

“Che la rigenerazione iniziatica costituisca un periodo, un lasso di tempo cioè avente un inizio ed una fine, come ogni altro caso di generazione, e sia perciò esprimibile e simbolicamente computabile a mezzo di un numero come il quaranta, ci sembra manifesto. E poiché il compimento di un periodo porta necessariamente all’inizio di un altro lasso di tempo, ed ogni fine è nel medesimo tempo un principio, ogni morte una nascita, è naturale che i concetti di fine, perfezione, compimento, morte, inizio ed iniziazione, siano tra loro strettamente associati, e che la palingenesi iniziatica consti intrinsecamente e sia cerimonialmente raffigurata da quella morte e resurrezione, che nella tradizione cristiana ha per protagonista Gesù: la cui morte e resurrezione, quindi ed innanzi tutto, è una espressione simbolica della tradizionale trasmutazione spirituale iniziatica, abbia o non abbia riferimento in un particolare evento storico o leggendario.” (Arturo Reghini, Dizionario Filologico (alla voce “Resurrezione”). (Arturo Reghini Dizionario Filologico). (mystes)

 

CONTEMPLAZIONE: UN VIAGGIO NELLA MENTE


Contemplazione: la parola contemplazione trae l’odierno significato metafisico da un antico senso divinatorio e magico. (…) Templum, infatti, contrazione di tempulum, diminutivo di tempus, indicava, secondo Varrone, una porzione separata e specialmente lo spazio che l’augure segnava nei cieli colla sua bacchetta al fine di circoscrivere un dato limite dentro il quale faceva le sue osservazioni sul volo degli uccelli, ed anche significò una porzione di campo consacrato dall’augure e destinato a fini religiosi. Da questo primitivo significato etrusco-romano è passato all’odierno in modo affatto simile alle parole desiderare, considerare, passate dal senso astrologico a quello sentimentale e razionale. (…) Per poter contemplare è necessario non farsi dominare dai sensi, perché chi ne è schiavo od anche è semplicemente incapace di astrarre da essi, non può assorbirsi nella contemplazione. Questa libertà va conquistata rimanendo nei sensi e non fuggendone; accettandoli e non combattendoli; adoperandoli e non rinnegandoli.

(Arturo Reghini, Dizionario Filologico, Ignis)

«E noi? Chi siamo noi?» chiede Plotino al lettore delle sulle Enneadi. Perché è questa, ancora e sempre, la domanda fondamentale da cui tutto dipende e la cui risposta impegna la vita intera. In verità - egli aggiunge - «noi siamo molte cose», ed è per tale ragione che abbiamo bisogno di conoscerci. Ciò che è assolutamente semplice e uno non ha alcuna necessità di assolvere alla richiesta del motto delfico “conosci te stesso”. Ciò che è semplice sa di sé in modo immediato, con un’evidenza e una trasparenza che sono assolute. Non ha bisogno di muoversi e di ricercare, non ha bisogno di percorrere i confini della propria natura per potersi vedere né tanto meno di mettersi a distanza per osservare ciò che, da troppo vicino, non si lascia scorgere. È sempre presente a sé e in sé. Il motto «conosci te stesso» riguarda unicamente chi è o diviene sé stesso: «Il precetto si rivolge a coloro che, a causa della propria molteplicità, devono enumerare le proprie componenti e rendersi conto di non sapere del tutto, o di non sapere proprio di quante e quali parti li compongano, quale sia la parte dominante o in che cosa consista il proprio sé». La «molteplicità», ma, ancora prima, è il termine che indica la «folla»: la «massa» imponente, che si aduna in un luogo, senza che si riesca a distinguere in essa il profilo dei singoli. Allo stesso modo, noi siamo complicati e molteplici ed è per tale ragione che non possiamo sottrarci all’imperativo della conoscenza. Noi siamo una massa indistinta e irrequieta, oscillante fra umori e opinioni diverse, fintanto che non cominciamo a «enumerare», distinguendo e separando a uno a uno ogni elemento, fintanto che non scopriamo che cosa davvero ci fa essere «noi stessi».

Questo paziente e arduo lavoro di enumerazione, quest’opera di distinzione, conduce, peraltro, a lenti passi, verso un deciso cambio di livello, verso un mutamento che estende e rovescia la qualità della visione. Se molte sono le cose in noi e di cui dobbiamo diventare coscienti, molteplici sono anche i piani in cui si articola la realtà. Siamo abituati a scorgerne solo uno, quello che si offre, ogni giorno, ai nostri sensi, quando ci destiamo dal sonno e ci rivolgiamo alle attività che ci attendono. Quello per noi è reale e in quello facciamo consistere la nostra vita. Pensiamo di essere desti e che quanto abbiamo attorno sia tangibile e oggettivo. Al di là e oltre, null’altro esisterebbe, così come noi stessi non saremmo altro che questo corpo senziente e raziocinante nell’incontro delle cose del mondo. Ed è, questa, l’illusione più tenace da dissipare. Siamo rivolti in un’unica direzione, e fra quella «massa» indistinta di cose scorgiamo solamente - se pur prestiamo attenzione e non siamo troppo distratti - quanto abitualmente ci sta innanzi ed è più prossimo: cogliamo uno strato superficiale di quanto è in noi e di quegli oggetti altri ed esterni tra cui riteniamo di muoverci. Ma che accadrebbe, se in modo brusco, fossimo costretti, nostro malgrado, a voltarci, a indirizzare altrove il nostro sguardo, vedendo il «molto» che ignoriamo e nemmeno sospettiamo? Bisognerebbe che qualcuno ci tirasse, all’improvviso, per i capelli - afferma suggestivamente Plotino - com’era accaduto ad Achille all’inizio dell’Iliade. Furiosamente adirato, l’eroe stava per scagliarsi contro Agamennone a spada sguainata quando, dal cielo, era discesa Atena a trattenerlo e consigliarlo. Invisibile a tutti gli altri, la dea «si fermò alle sue spalle e l’afferrò per i biondi capelli. Achille, preso da sacro stupore, si voltò e subito la riconobbe, riconobbe quegli occhi che mandavano lampi terribili»: ascoltando la voce di Atena, l’impetuoso guerriero si astenne dalla reazione violenta a cui d’impulso si sarebbe abbandonato. Dovrebbe accadere così anche a noi, quando siamo irretiti dalle passioni, quando reagiamo con foga e d’istinto a quanto consideriamo reale, quando stiamo sospesi e incerti dinanzi a situazioni che, lì per lì, ci attanagliano o ci fanno soffrire. Perché, allora… con quello stesso reverente «stupore» di Achille, finalmente vedremmo: «Chi potesse voltarsi per propria virtù o avesse la fortuna di venire tirato da Atena, vedrebbe dio, sé stesso e l’universo». Si accorgerebbe di appartenere al tutto e di coincidere con esso, scoprirebbe come la realtà sia altra da come ha sempre immaginato. Si renderebbe conto che lui stesso, in un’infinita espansione della propria natura, è anche dio e universo. Comprenderebbe che quell’io con cui è solito identificarsi non è che la parvenza esterna e parziale di una meravigliosa totalità: «Siamo come molte facce rivolte all’esterno, ma appartenenti, nel proprio interno, a un unico vertice». Elevandoci a un piano differente e ruotando su noi stessi, possiamo divenire «uno» e «tutte le cose» allo stesso tempo. O meglio lo siamo sempre stati, senza saperlo.

Nel tempo e nello spazio dell’esistenza mortale, ogni uomo è necessariamente «qualcuno»: la sua singolare identità e la sua forma umana sensibile sono frutto di una determinazione particolare che lo distingue e lo isola, assegnandogli un corpo, un nome e una storia. Ma se questa determinazione viene sospesa o si dissolve, quell’essere che era diventato qualcuno e qualcosa può scoprire di appartenere a un orizzonte ben più vasto un unico frammento in cui si era chiuso e limitato. Può scoprire che quell’esistenza, quella vita determinata che riconosceva come propria è solo una delle sue possibilità: «È come se noi avessimo molte vite», la maggior parte delle quali ci rimane ignota. Per questo è necessario che districhiamo la nostra molteplicità e la nostra inavvertita ricchezza, facendo di noi stessi un tesoro che deve essere rinvenuto e dissepolto. Enumerare i propri elementi non significa, tuttavia, limitarsi a esaminare le dinamiche del corpo fisico e i moti dell’animo nel plesso variegato di immagini, desideri e pensieri. Definire il profilo del nostro essere sensibile, della nostra vita ordinaria, è solo il primo passo. Occorre spingersi oltre, superando il confine del frammento con cui ci si identifica, varcando la soglia del mondo sensibile in direzione di quei livelli e piani superiori che restano per lo più sconosciuti e silenti. La sapienza è questo viaggio che ci reintegra in ciò che ci appartiene e non sappiamo, in quella pienezza che altrimenti noi siamo e abbiamo dimenticato. Plotino non si stanca di ripeterlo, variando le immagini e i termini che additano a ciò che propriamente nessuna parola può contenere. Quella determinazione, quel «qualcosa» che fissa il contorno delle nostre ordinarie esistenze - di quella vita che pensiamo essere la sola che abbiamo - possono essere considerati anche come una sorta di «aggiunta». Un’aggiunta che non comporta alcun incremento, bensì riduzione di prospettiva e di potenza. All’origine, in un altro piano della realtà, noi eravamo «anime pure e menti unite all’essere intero, parti di un mondo intelligibile, né separate né divise dal tutto, ma a esso appartenenti». A quell’uomo che era solo anima e mente - spiega Plotino - «si è poi aggiunto un altro uomo che vuole anch’egli esistere» nella dimensione che gli è propria: «Egli ci ha trovati, perché non eravamo fuori dal tutto, si è avvicinato a noi e si è rivestito di quello che ciascuno di noi era allora». In questo modo, inseguiti e raggiunti da questo «altro» che ci reclama, siamo diventati due in uno: «Siamo divenuti una coppia di uomini, entrambi insieme, e non più quello che eravamo prima, anzi talvolta siamo solo quest’ultimo che si è aggiunto, quando il primo uomo non è attivo o, in altro modo, non presente». La distinzione temporale s’inscrive nella logica di un racconto che tante voci hanno articolato rappresentando la vicenda di una “caduta” da una condizione perfetta. Tuttavia, al di là della distinzione tra un prima e un poi - tra la vita disincarnata e quell’esistenza umana che sulla terra abitualmente esperiamo -, è il nostro presente che dobbiamo scavare, esplorando le dimensioni multiple, parallele e insieme secanti, che ci caratterizzano. Dobbiamo attraversarle in tutta la loro estensione per non correre il rischio di essere unicamente l’«altro», per evitare che il «primo» uomo ci manchi, divenendo un vuoto e un’assenza. In realtà, egli è sempre lì, ma è come se non fosse presente, come se non agisse: se la sua attività non s’irradia in tutto il nostro essere, essa ci sfugge. Non sempre, infatti, «adoperiamo ciò che possediamo». C’è in noi, come in tutte le cose, una vita «segreta», un tesoro da portare alla luce, affinché tutte le nostre potenze, tutte le nostre componenti siano attive, coscienti e in relazione reciproca. Solo così possiamo davvero «essere».

Quando mutiamo prospettiva e ci voltiamo nella direzione opposta a quella consueta - tirati per i capelli da una divinità benevola o per nostra tenace applicazione - ci accade di fare un’inattesa e sorprendente scoperta: quella che per abitudine consideriamo “veglia” non è che una diversa qualità di sonno. Di fatto, senza rendercene conto, continuiamo a «parlare e ad agire come dormendo», trasognati e stranieri a noi stessi. Crediamo di esserci svegliati, mentre non facciamo, per così dire, che «passare da un letto all’altro» senza nemmeno accorgercene. E non può essere altrimenti, finché quello stupore di cui Omero parlava, quel divino «stupore» non ci abbia afferrato, portandoci altrove. Finché una particolare esperienza non si produca, rendendo evidente, al di là di ogni termine o ragionamento, l’effettiva differenza fra i diversi stati e la reale natura della veglia. Sono istanti improvvisi, lungamente attesi o preparati, in cui un velo come si squarcia dando accesso a quel mondo ove il primo uomo sempre permane: «Più volte - racconta Plotino - mi è successo di destarmi a me stesso, di svegliarmi dal sonno del corpo e di estraniarmi da ogni altra cosa, permanendo nel mio intimo. In quei momenti ho contemplato una bellezza meravigliosa e più che mai ho sentito di partecipare a una condizione superiore: ho raggiunto la forma più alta di vita, sono diventato identico al divino e su di esso mi sono fondato, ho raggiunto quel grado supremo di attività, collocandomi al di sopra di tutto il resto, nel regno della mente». Destarsi significa allontanarsi da tutto ciò che ci circonda, staccarsi da tutto ciò che è altro ed esterno rispetto alla nostra essenza. Significa penetrare, sempre più a fondo, dentro di noi, perché è in questa invisibile e raccolta interiorità, in questo nucleo riposto, che si dà il punto di svolta. È qui che, con un balzo, finalmente ci svegliamo e iniziamo a vedere la trama dell’essere, che si dischiude dinanzi a noi in uno spettacolo d’inaudita e meravigliosa bellezza. Allora davvero siamo, allora davvero viviamo, perché abbiamo raggiunto quel piano supremo della «mente» che in sé contiene tutti gli archetipi ideali e da essi produce l’intera realtà, quel piano supremo che coincide con la verità e il fondamento del tutto. Là vi è la pienezza assoluta della «vita migliore», perché, a quel livello, essere, vita e pensiero coincidono nel vertice della loro massima realizzazione. Ma quando essere, vita e pensiero sono una cosa sola, ciò che ne scaturisce è un’energia, un’«attività» altrettanto assoluta, che non conosce ostacoli né limitazioni di sorta, un’«energia» che può diventare e produrre qualsiasi cosa. Siamo soliti attribuire agli dei quell’energia, a considerarle prerogative del mondo abitato dagli immortali, ma esse riposano ugualmente alla radice di noi stessi, se solo potessimo ridestarle e ridestarci. Perché l’uomo che si è destato a sé stesso, che ha raggiunto l’apice della mente, distaccandosi dalla presa del «secondo» uomo, non può che scoprirsi, egli stesso, parte essenziale di quel divino.

Da quei momenti di beatitudine e di visione estatica della verità, da quelle sommità dell’essere si ridiscende, di necessità, ai livelli inferiori del divenire e del sensibile. Dall’intuizione folgorante della mente si ritorna alla comune ragione discorsiva che trascorre da un termine all’altro, tentando di dipanare in una fila ordinata di concetti ciò che lassù si dava come immediata sintesi e certezza. Così accade fintanto che si dimori in un corpo, fintanto che si appartenga all’orizzonte della manifestazione sensibile. Ogni sforzo è teso, però, a ripetere, ancora e di nuovo, quell’ineffabile «stasi in seno al divino», a prolungarla perché essa duri sempre di più, a fare in modo che divenga, via via, più agevole e controllato il passaggio da un piano all’altro, quando lo si voglia compiere, per trasportarsi dentro di sé e, allo stesso tempo, nel centro della realtà. Bisognerebbe, al fine, rendere lo stato di «veglia» una condizione permanente, o, quanto meno, non perdere mai del tutto il contatto e la coscienza di quella «vita migliore», che, a un livello più alto, in eterno si muove, restando in sé stessa. Rimanere concentrati in quell’orizzonte interiore, in quel sé divino, anche quando si è insieme ad altri o in altre cose impegnati: un'«attenzione» e un’«applicazione» ininterrotta che ci mantiene desto anche nell’angusto perimetro del corpo o tra le incombenze del mondo, pronti ad ascendere nuovamente alla suprema energia dell’essere.

Vero è, d’altro canto, che dopo simili esperienze di risveglio, nulla potrà più essere come prima, per quanto la materia greve del «secondo uomo» minacci sempre di assopirci. Dopo aver visto, non è più possibile, in nessun caso, aderire alle opinioni o ai comportamenti che altrimenti segnavano l’esistenza. Non è più possibile dar credito agli «insensati fantasmi», agli «assurdi simulacri» che il «sonno» del corpo incessantemente genera. Quando si è provata la piena identificazione con il divino, una trasformazione radicale si compie, e non vi è più necessità di ricercare o di attendere ad alcuno studio. Semplicemente si sa con solida certezza e da lì ogni altra cosa discende. Ragionare, riflettere sulle opere della tradizione antica, applicarsi alla pratica della filosofia, ampliare le proprie conoscenze sono solo strumenti iniziali, tappe provvisorie, per giungere a quell’evento fondamentale. Ma è solo quello che conta. Allo stesso modo, per chi abbia una volta raggiunto il piano della mente assoluta, scrivere e parlare cesserebbero di avere un qualche valore in sé stessi. Il loro unico scopo dovrebbe essere quello di «indicare la via a chi voglia vedere»: «destare» altri uomini affinché possano transitare, anch’essi, «dal sonno delle parole alla veglia della visione». Finché ciò non avvenga come propria e personale esperienza, come evento che sovverta la prospettiva dell’umana esistenza, bisogna continuare a insistere, ripetere le solite cose, i soliti discorsi, come per farsi un «incantesimo», per fissare nell’anima, in modo sempre più netto e indelebile, i termini di una pratica di sé e insieme la meta finale da raggiungere.

Chi è compiutamente desto si accorge, con meraviglia e ammirazione, che l’intera realtà è pervasa di intelligenza: «Ogni forma di vita è pensiero», perché è il pensiero che produce ogni cosa, facendola essere ciò che essa è. Pensare ed essere - lo aveva già insegnato in età arcaica Parmenide - sono infatti il medesimo: l’uno non si dà senza l’altro. Non solo il cielo, con i suoi movimenti perfetti, non solo l’uomo con la propria ragione, ma anche gli animali, le piante e financo le pietre sono, in diverso modo, esseri viventi e pensanti. A variare è l’intensità e la chiarezza della mente, ora più luminosa e potente, ora più oscura e debole, a seconda della posizione che ciascuna cosa occupa nell’ordine digradante della realtà intera: è come uno splendore che, prorompendo con forza accecante, si attenui progressivamente, a mano a mano che si discende dal sottile allo spesso, dalla cristallina trasparenza dell’incorporeo all’opacità dei corpi. Ed è questo medesimo ordine, questa sequenza di piani, che chi veglia - divenendo egli stesso puro pensiero, intelligenza nitida e rifulgente - riesce a cogliere nella sua interezza. A partire da quel principio primo che chiamiamo «uno» o «bene», per giungere, di gradino in gradino, fino alla consistenza dei corpi che vediamo e tocchiamo con i sensi del nostro stesso corpo.

L’uno - spiega Plotino - è «potenza di tutte le cose: se esso non fosse, null’altro potrebbe esistere, e neppure la mente potrebbe essere vita originaria e universale» di cui ogni altra vita, a livello inferiore, è rifrazione. L’uno, immobile in sé stesso e scaturigine dell’intera molteplicità, è come un punto senza dimensione, da cui una luce abbagliante s’irradia per ogni dove, in un allargarsi progressivo di cerchi concentrici. È come una sorgente inesauribile da cui l’acqua sgorga fluendo senza mai arrestarsi: «Immagina una fonte che non ha alcuna origine e che si effonda in tutti i fiumi senza esserne impoverita, mentre i fiumi che escono da lei, dapprima scorrendo insieme, già sanno, uno per uno, la direzione della propria corrente». O ancora è come «la vita di un albero immenso che scorre ovunque, mentre il suo principio rimane in sé stesso senza disperdersi, ben saldo alla propria radice». Luce, sorgente, radice dell’albero della vita: solo per immagini si può tentare di evocare ciò che, per sua natura, è impensabile e indicibile, al di là e prima di ogni possibile determinazione.

Da quel centro trabocca una prima forma di vita che, appena fuoriuscita dalla sorgente, rivolge lo sguardo verso il proprio principio, venendo istantaneamente fecondata e riempita da quella potenza. Da lì essa riceve il proprio «essere» e, così essendo, si volge allora verso sé stessa per guardarsi e conoscersi. E, questa, la nascita della «mente» eterna, che contiene al proprio interno l’intero cosmo intelligibile, la molteplicità di quelle idee da cui il sensibile e il corporeo derivano la propria forma. La «mente» è «essere» in senso primo, ma insieme è anche «pensiero» che pensa sé stesso, divenendo in quest’atto molteplice. La mente è il «vivente perfetto», perché essere e pensiero sono vita, e le idee stesse, di cui la mente si sostanzia, sono, a loro volta, esseri pensanti e viventi.

Ma anche dall’universo della mente qualcos’altro trabocca e fuoriesce, poiché «è proprio della natura di ogni essere produrre qualcosa dopo di sé e svilupparsi, come un seme che da un principio indivisibile culmina in un fenomeno sensibile». Così dall’intelligenza promana, a propria volta, il piano dell’«anima», come terza ipostasi o realtà, a partire da quel principio primo. Come l’intelligenza si volge in direzione dell’uno, così, allo stesso modo, l’anima si protende verso la mente per guardare il principio cui deve la propria nascita. E, in quest’atto, essa determina la propria natura, colmandosi della visione delle idee che nella mente sono raccolte. Ne riceve in sé stessa la rifrazione come ragioni formali che dovranno plasmare l’intero cosmo sensibile. Perché questo è, appunto, il compito preciso dell’anima: produrre, vivificare e governare il mondo della materia. Creatura «anfibia», dalla «duplice vita», posta al confine tra essere e divenire, l’anima, da un lato, guarda intenta il cosmo della mente e, dall’altro, concentrandosi in sé stessa, genera la molteplicità della manifestazione. È l’anima cosmica che, come un’invisibile rete, sostiene il corpo dell’universo. E l’intero spettro delle anime individuali che s’incarnano nelle singole forme di vita. Ma anima è anche, nel suo lembo inferiore, l’essenza della materia stessa: la «natura» è propriamente «anima», perché tutto ciò che nel sensibile si genera e ha forma compiuta è sempre e comunque frutto del suo pensiero e della sua potenza. Estrema scaturigine dell’anima è infine il piano indeterminato e oscuro della materia, che essa genera come una sorta di inconsistente «fantasma» di sé stessa. Là, la luce radiante dell’Uno, trasmessa da una dimensione all’altra, raggiunge il minimo assoluto della propria intensità.

Questo mirabile processo, che sempre è e avviene, è come lo svolgersi di una catena ininterrotta di anelli, connessi saldamente gli uni agli altri, secondo una dinamica che si ripete al medesimo modo nella transizione dall’uno all’altro. Ogni piano non solo deriva da quello che lo precede, ma si compie e si perfeziona riferendosi a esso. Ogni realtà, per essere, si fa visione del principio che le è immediatamente superiore, così come si fa visione di sé stessa, generando un livello a lei successivo.

«Se scherzando dicessimo che tutti gli esseri – afferma Plotino - non solo quelli dotati di ragione, ma anche gli animali che ne sono sprovvisti, la natura che è nelle piante e la terra che li produce - aspirano alla contemplazione e tendono a questo fine? Se dicessimo che tutti la raggiungono secondo le possibilità della propria natura, chi in un modo, chi in un altro, chi cogliendo direttamente la verità, chi limitandosi a un’immagine o un’imitazione?». Può suonare come un’affermazione «paradossale», come uno «scherzo» appunto, e Plotino è ben consapevole di come tali parole contrastino con il senso comune, con quella mentalità ordinaria per cui le cose del mondo sono solo oggetti o quantità, materia inerte o, tutt’al più, vita bruta di scarso valore. Ma chi, nella veglia perfetta, ha visto, sa che la «contemplazione», è il vero cardine della realtà: la «processione» dall’uno immateriale al molteplice corporeo non avviene in altro modo che contemplando. Per diffusa e ingenua convinzione si ritiene che la contemplazione sia un qualcosa di sterile, una pratica priva di frutto: una forma di inerzia o un’astrazione che non genera, per così dire, nulla di concreto. Si è convinti che la contemplazione sia l’opposto dell’azione e che solo l’azione - l’azione che si esplica nella dimensione esterna, che opera sui corpi e sulla materia - sia tangibile nei suoi effetti e nei suoi risultati. Contemplare sarebbe una sorta di stasi improduttiva, e la conoscenza che pure da essa possa derivare avrebbe bisogno, in ogni caso, di trovare una successiva applicazione perché qualcosa di reale ne scaturisca. Per Plotino, come per tutti i risvegliati, è vero, invece, l’esatto contrario: la «contemplazione» è, essa stessa, immediata «produzione», quando davvero si colga l’invisibile e intangibile principio che governa la genesi dell’universo. Tutto ciò che si genera è «il risultato di una contemplazione che rimane pura contemplazione senza fare null’altro, ma produce per il fatto stesso di essere contemplazione». E ancora: «Tutte le realtà che veramente sono derivano dalla contemplazione e sono contemplazione, e tutte le cose che sono generate da quelle realtà, sono generate appunto perché queste ultime contemplano, ed esse, a loro volta, sono oggetto di contemplazione». Contemplando l’uno, la mente produce l’anima, e l’anima, contemplando la mente, produce l’universo sensibile, in un riverberarsi continuo del medesimo processo. La contemplazione è pensiero che, rimanendo immobile in sé stesso, nella pura concentrazione del vedere, crea tutto ciò che esiste, crea realtà ed esseri di ogni ordine e grado. Produrre è sempre produrre una «forma», portare alla luce o dar corpo a un’«idea». Ma ciò significa che, al cuore di ogni ricerca, vi è il desiderio di «riempire ogni cosa di contemplazione», di colmare il mondo della visione dell’essere, di trasformare ogni materia nello spettacolo di un ordine intelligente: fare del cosmo un orizzonte radioso di anime e di idee.

La natura stessa, se potesse esprimersi a parole, se potesse rispondere alle domande dell’uomo, spiegherebbe come il suo silenzioso operare non consista che in tale principio: «Non dovresti fare domande - ella potrebbe dire -, ma dovresti comprendere anche tu in silenzio, come faccio io che non ho l’abitudine di parlare. Comprendere che cosa? Che quello che nasce è il risultato di ciò che io vedo stando in silenzio, è l’oggetto della mia naturale contemplazione, e io stessa sono nata da un simile contemplare e tendo, per mia essenza, a esso. Ciò che in me contempla produce un oggetto della contemplazione, come i geometri che, contemplando, tracciano le loro figure. Con la differenza che io non disegno figure, ma contemplo soltanto, e le linee dei corpi prendono forma, come fuoriuscendo da me». Rimanere in silenzio, raccogliersi in sé stessi, destare dentro di sé la capacità di «vedere» i piani superiori dell’essere e colmarsi di tale visione: allora non ci sarebbe bisogno di fare alcunché, non ci sarebbe bisogno di progettare e compiere alcuna azione, perché da quello stesso vedere-pensare discenderebbe ogni possibile realizzazione. Se ne potrebbe concludere, in modo altrettanto «paradossale», che l’azione, così come gli uomini normalmente la intendono e la praticano, sarebbe una forma di debolezza o di incapacità. Gli uomini quando non sono in grado di «contemplare», quando non sono capaci di elevarsi, ricorrono all’azione, usano il loro corpo o altri strumenti materiali, per poter produrre un oggetto o un effetto tangibile e per poter vedere, in tal modo, con gli occhi, ciò che non possono cogliere, né tanto meno produrre, con il solo pensiero. Ma ciò significa anche, all’inverso, che ogni azione contiene in sé, in maniera consapevole o meno, un’aspirazione alla contemplazione, un desiderio di vedere e conoscere al di là dei sensi e della materia. E come se, non potendo raggiungere direttamente un oggetto, si cercasse di «afferrarlo girandogli attorno»: si tentasse di impadronirsene attraverso le «cose esterne» e gli effetti sensibili che ne sono un mero riflesso o un’inferiore riproduzione.

Sonno e veglia, unità originaria e diffrazione molteplice, stasi dell’eterno e fluire cangiante del divenire: sono, questi, i poli opposti, gli estremi della realtà, tra cui l’anima muove in una sorte di perenne oscillazione che è propria della sua natura. Potenza irrequieta ed errante, grande vagabonda del cosmo, l’anima ora si fa cerchio perfetto, per ruotare intorno all’essere della mente e al centro fisso dell’uno; ora, invece, si dipana lungo la linea del tempo, diviene una retta che disegna il profilo dei corpi nell’estensione sensibile dello spazio. Essa è insieme l’identico e il diverso, l’indivisibile e il diviso. Rapita e immobile nella visione del principio che l’ha generata, nella perfetta identità con sé stessa, la psiche è al contempo desiderio di «trascorrere» in «altro», di diventare «altro», trasmettendo e recando altrove quell’orizzonte di forme che ha contemplato nella mente e in sé stessa. E un cosmo intelligibile di idee eterne, ma, al medesimo tempo, è un principio di disseminazione che rifrange ovunque il contenuto di quello stesso cosmo. È colei che attraversa i piani della realtà e ne oltrepassa le frontiere, ascendendo o declinando, perché «essa possiede qualcosa di inferiore che entra in relazione con il corpo e qualcosa di superiore che è in rapporto con la mente» (Plotino). Abitatrice di «entrambi i piani», dell’«alto» e del «basso», non si stanca di fare la spola tra essi, perché questa è, al fondo, la sua funzione: produrre e vivificare tutto il sensibile a partire da quella dimensione divina da cui l’anima stessa è scaturita. L’essenziale è che tale movimento non si arresti a causa di un peso, di una forza di gravità, che la trattenga esclusivamente al suo limite inferiore. L’essenziale è che il moto si concluda, infine, con un’ascesa, quando ogni anima abbia adempiuto al proprio compito tra i corpi e le esistenze mortali, quando abbia a sufficienza «colmato di contemplazione» e di «forma» le cose di «quaggiù», portando a perfezione il cosmo.

Il che comporta un’ulteriore acquisizione. Se la radice di ogni uomo è la propria anima, conoscere sé stessi significa anche cogliere la dinamica di questa stessa oscillazione, il ritmo e il modo di questo movimento «psichico», in tutta l’estensione che lo caratterizza, riuscendo a controllarlo e a padroneggiarlo. In virtù di esso, la psiche è «tutte le cose», sia le superiori che le inferiori, e a tutte, per così dire, si volge, fino al confine estremo della vita: «Ragione ultima di quanto appartiene al regno della mente e ragione prima di quanto è nel sensibile». La sua natura screziata e cangiante è qualcosa di «meraviglioso» e di «venerando», proprio per questa sua capacità di corrispondere a ogni cosa, toccando il visibile e l’invisibile, il corporeo e l’incorporeo, il «sempre» e il «qui e ora». Ma ciò vuol dire che anche l’uomo può essere «tutto», dalla luce immateriale dell’idea alla compagine del corpo, purché sappia di sé stesso, purché sia in grado di indirizzare, con sapienza, il movimento del proprio oscillare.

(1 – continua)

Fonte: Davide Susanetti, La sapienza degli dei, Misteri antichi, sapienza e percorsi di Iniziazione, Carrocci, 2017

Davide Susanetti è professore di Letteratura greca presso il dipartimento di Studi linguistici e letterari dell'Università di Padova. Si occupa prevalentemente di tragedia greca, Platone, letteratura tardo antica, pensiero esoterico e simbolico.

      

VIAGGIO NELLA MENTE

(seconda parte)

 

Nell’esperienza viva dell’anima, Plotino non si stanca di sottolineare un’equivalenza che si produce a ogni possibile stazione di questo moto. La psiche, pur dotata di una inalterabile essenza, «diviene», di volta in volta, «ciò a cui si accosta», assumendone la configurazione corrispondente, quasi fosse un «danzatore» che conforma i propri passi al tema che gli viene, in ogni diversa circostanza, assegnato. Avvicinandosi al corpo, essa si fa corporea, vibrante di passioni e desideri, ebbra di piaceri e di paure, avvinta dal sortilegio e dalle necessità di quel «luogo» in cui è venuta a dimorare. Accostandosi al molteplice dell’universo materiale, essa si fa sensazione, opinione e ragione discorsiva nel tentativo di cogliere e governare le apparenze del mondo. Muovendosi nella dimensione della finitezza, essa diviene, a propria volta, entità finita e particolare, che cerca, con l’azione, di intervenire sulla realtà attorno a sé. Quando, per converso, si eleva al piano della mente, essa è intuizione immediata della verità, puro essere, vita incorruttibile, realizzazione piena e istantanea, potenza infinita della totalità.

L’«attività» dell’anima muta, dunque, a seconda del piano che la sua oscillazione tange. Si trasforma in rapporto all’orizzonte verso cui essa inclina il proprio centro. Ogni anima - ripete Plotino come un prezioso monito - «è e diviene ciò che guarda», «è e diviene ciò che ricorda», così come ciascuno di noi si determina in base al livello in cui sceglie di «operare», attivando il «primo» o il «secondo» uomo che sono in lui. Ci nutriamo di immagini e di visioni, ma, appunto, la natura di quanto viene contemplato, di ciò su cui l’attenzione si ferma ha un preciso effetto. Ci identifichiamo, in modo adesivo, talora senza neppure accorgercene, con lo spettacolo su cui il nostro sguardo suole indugiare in maniera più insistita. Diventiamo la visione di cui ci nutriamo, coincidendo perfettamente con il piano a cui l’oggetto della visione stessa appartiene. E tale coincidenza comporta che, in noi, si attivino unicamente le facoltà congruenti con quello stesso piano, lasciando sopiti tutti gli altri tesori che stanno al fondo della nostra anima.

Così «ci ricordiamo» solo di una parte, peraltro esigua, di noi stessi, relegando nel più completo oblio l’interezza che ci costituisce. Il contenuto della contemplazione, ciò che decidiamo di guardare, può limitare o espandere il nostro essere, così come può ottundere o potenziare meravigliosamente la memoria della nostra vera identità. Conoscere sé stessi è «ricordarsi» di sé nella completa appropriazione di tutte le facoltà e di tutti i livelli con cui possiamo esercitare la nostra energia, la nostra «attività» di anime. E scegliere di contemplare il «tutto», muovendo lo sguardo dall’alto al basso e dal basso all’alto, per diventare uno con il tutto. Ma «diventare» - come le affermazioni di Plotino rimarcano - equivale semplicemente a «essere». Non c’è un momento, infatti, in cui la nostra anima non sia già quell’unità con il tutto. Non c’è un momento, propriamente, in cui la piche già non «sia» senza alcuna necessità di «diventare». È sufficiente che non si distragga, che non «si assenti» da sé stessa, perché il suo essere rifulga. «Noi siamo belli quando siamo conformi a noi stessi», ma questa bellezza, questa conformità con sé non è un processo che comporti un punto di arrivo a una meta distante ed esterna, non è una dinamica che implichi un effettivo andare altrove. E tutto già lì, presente nell’anima, ma occorre accorgersene.

Il medesimo paradosso si osserva a proposito della felicità a cui l’essere sé stessi di necessità si lega. Tutti gli uomini desiderano essere felici e tentano in vario modo di perseguire questo risultato con l’acquisizione di beni materiali, con l’impegno nell’azione, con la ricerca del successo o di altre gratificazioni. Si tende a pensare che la «felicità» sia qualcosa da conquistare: un oggetto che manca e deve essere raggiunto, una condizione o uno stato che solo un intreccio di circostanze e di iniziative possono produrre. E, invece, la felicità ci appartiene sempre e non lo sappiamo.

La felicità è nostra come nostro è l’essere, senza alcuna necessità di andare altrove o di trapassare in altro da ciò che è il nostro sé. Secondo Plotino, c’è una parte dell’anima che non perde mai il proprio contatto con la mente e con il regno delle idee. Non tutta la psiche è «discesa» nel corpo, non tutto di essa è immerso nella dimensione del divenire e della materia. La sua sommità - se si può usare tale immagine per comprendere - svetta, infatti, al di sopra del sensibile, al di sopra dello spazio e del tempo, permanendo in una perenne contemplazione dell’eterno e del divino. Il vertice della nostra anima gode sempre e ininterrottamente della felicità della «vita migliore». Siamo «noi» che non vediamo e non sappiamo quale sommo bene sia in nostro perenne possesso. Il che si spiega, di nuovo, con l’orientazione del nostro sguardo e la disposizione del nostro «centro». La parte mediana della psiche è come uno «specchio» a due facce, ove si riflettono tutti gli oggetti e le attività che ineriscono all’anima stessa: da un lato, i dati provenienti dai sensi e dalla realtà esterna, unitamente alle opinioni e ai ragionamenti che essi inducono; dall’altro, i contenuti della contemplazione, le rifrazioni del mondo ideale e il pensiero intuitivo che è proprio di tale livello. Noi percepiamo e diveniamo consapevoli di entrambe le dimensioni nella misura in cui un’immagine di esse si produca in questa superficie interiore, come «quando un oggetto si riflette in uno specchio che sia liscio, lucido e immobile»: «Se c’è lo specchio, si produce un’immagine. Ma, se non c’è o non è fermo, non vuol dire che l’oggetto che vi si potrebbe riflettere non esista. Lo stesso vale per l’anima. Se la parte di noi ove si riflettono le immagini della ragione e della mente è calma, noi vediamo tali immagini e le percepiamo in modo quasi sensibile così come, insieme a esse, percepiamo l’attività della mente e dell’anima. Ma se lo specchio è infranto a causa di qualche turbamento presente nell’armonia del corpo, la ragione e la mente esercitano la loro attività senza riflettersi in esso». In tale caso, il frutto della contemplazione, il contatto pieno e realizzato con l’essere eterno e con la vita divina, l’attività del vertice dell’anima rimangono del tutto inavvertiti. Ma non per questo cessano di esistere o costituiscono una mera illusione. La felicità di cui pure disponiamo, che da tale attività superiore perennemente scaturisce, resta semplicemente inconscia. O forse sarebbe meglio dire sovra-cosciente, perché, se non la percepiamo, vuol dire che il piano della nostra coscienza è tutto assorbito da quanto avviene nel corpo e nei sensi: vuol dire che la coscienza si è tutta chiusa e identificata nei confini del nostro «secondo» uomo.

Non resta, perciò, che pulire bene tale «specchio», renderlo quieto ed immobile come quei laghi di montagna che riflettono tutto l’azzurro del cielo. Non resta che tenerlo saldamente rivolto verso l’alto perché riceva tutta la luce che da là discende. Rendere la coscienza quanto più verticale ed estesa sia possibile. Allora la nostra felicità e la nostra bellezza non si sfuggiranno, trasformandosi in immagine di assoluta presenza.

Anche a Narciso, figlio di una liquida ninfa, accadde un giorno di specchiarsi, ma il risultato fu alquanto differente dall’azione di quello specchio interiore su cui si fonda la felice realizzazione di sé. Giunto in una radura al centro del bosco, tra erbe alte e rigogliose, il giovane si accostò, per bere, a una fonte, trasparente e tersa come cristallo. Piegandosi sulla superficie dell’acqua, scorse un’immagine bellissima di cui si invaghì perdutamente. Che cos’era mai quella figura così seducente? La desiderava senza sapere di desiderarsi, bruciava di passione senza rendersi conto che egli stesso aveva acceso quella fiamma. Avrebbe voluto abbracciare quel che vedeva. Avrebbe voluto che quella forma incantevole uscisse dall’acqua, per poterla fare sua e coprirla di baci. Finché, a un certo punto, la verità gli divenne manifesta: «Ma quello sono io!». E con ciò la sua disperazione crebbe sino al delirio, per l’impotenza di raggiungersi e di possedersi: mai, infatti, avrebbe potuto staccarsi da sé stesso, per potersi amare come se fosse stato un altro. Non gli restò che struggersi, restando avvinto all’immagine, sino a esalare l’ultimo respiro. Non gli restò che precipitare nella fonte, nel folle tentativo di unirsi all’oggetto del suo amore. Così racconta la storia trasmessa dall’antica tradizione. Ma, per Plotino, quel mito non concerne tanto il folle desiderio di sé o le torsioni dell’umana psicologia, quanto piuttosto l’errore di tutti coloro che, addormentati nel sonno del corpo, non colgono l’effettiva struttura della realtà. A tale pericolosa ignoranza la vicenda farebbe simbolica «allusione». Narciso è chi si volge ai beni esteriori, profondendo ogni sua energia per conquistarli. E chi persegue, come un ostinato cacciatore, le bellezze sensibili, perché gli paiono tanto desiderabili, perché gli mancano e vuole averle, riponendo nella conquista di esse la speranza della propria felicità: «Se uno si precipitasse volendo afferrare tali bellezze, come fossero vera realtà, incorrerebbe nel medesimo destino di colui che, volendo afferrare una bella parvenza - come un mito mi pare lasci allusivamente a intendere - s’inabissò giù nella corrente e scomparve. Allo stesso modo, chi è tutto preso dai bei corpi e non li abbandona, sprofonderà, non con il corpo, ma con l’anima, in abissi pieni di tenebra». I corpi e tutte le bellezze dell’universo sensibile non sono che riflesso e immagine del mondo superiore, delle forme eterne, così come «un disegno o un riflesso sull’acqua sono il fantasma di ciò che sembra collocato davanti all’acqua o a chi disegna». Ma quelle forme e quel mondo superiore sono, da sempre, un possesso dell’anima, una dimensione di cui la psiche non solo è partecipe, ma principio costitutivo. Il fatale fraintendimento è non vedere che tutte le cose inscritte nel sensibile, tutto il dominio della natura materiale e dei corpi, sono un prodotto della mente e dell’anima stessa: sono il risultato della contemplazione cui l’uno e l’altra attendono. L’origine della bellezza che accende la passione non appartiene, dunque, a ciò che sta «fuori», ma è nell’intima radice della psiche, perché è lei che ha dato vita ai corpi e li sostiene, è lei che ha generato il cosmo, guardando alle idee. In verità, «tutto è dentro» e il «fuori» ne è solo un’irradiazione. «Noi non siamo abituati - insiste Plotino - a osservare l’interno delle cose e lo ignoriamo e così inseguiamo ciò che è esteriore [...], come se qualcuno, vedendo la propria immagine, la inseguisse, non sapendo da dove proviene», Ma è appunto tale abitudine che deve essere corretta, per non precipitare nella tenebra di Narciso. Chi, rovesciando lo sguardo, conosce sé stesso impara che il mondo non è altro da sé e che non c’è nulla da conquistare, perché ogni cosa è già nella propria anima, ogni cosa è già nel proprio «sé».

Piuttosto che seguire l’esempio rovinoso di Narciso, occorrerebbe modellarsi sul profilo di Odisseo, sull’esempio dell’uomo dall’intelligenza astuta, capace di attraversare la navigazione del sensibile senza farsi catturare da esso, senza cadere negli incantesimi di Circe e Calipso, ma rimanendo ben desto e vigile, orientato verso una meta che gli consentirà di tornare a essere sé stesso. Una meta che coincide con la possibilità di uscire dai flutti e dall’oscurità della materia, con l’ascesa ai piani superiori della realtà: Odisseo è, nella tradizione neoplatonica, l’emblema per eccellenza di chi è riemerso dai flutti della materia e del divenire, di chi si è risvegliato, toccando il porto del mondo divino.

«Bisogna risalire», ammonisce Plotino. Bisogna salpare e «prendere il largo» affinché l’anima, allontanandosi dai corpi, s’innalzi al livello della mente. Per compiere questo viaggio, di cui Odisseo sarebbe simbolo, è necessario procedere al di là delle coordinate dello spazio e del tempo, al di là delle quattro dimensioni cui i nostri sensi e la nostra ragione sono avvezzi, al di là della materia che siamo abituati a toccare. Per suggerirne la natura e insieme per darne un’indicazione d’avvio, Plotino propone di esercitarsi in una sorta di meditazione guidata che è insieme assorta preghiera e propiziazione dell’esperienza: «Crea nella tua anima l’immagine luminosa di una sfera che contenga in sé tutte le cose, esseri in movimento e in quiete, e poi, conservando tale rappresentazione, immagina un’altra sfera, ma questa volta, priva della sua massa: elimina in essa anche lo spazio e la rappresentazione della materia, e stai attento a non farla diversa dalla prima, attribuendole solo una dimensione più piccola. E, a questo punto, invoca il dio che ha prodotto ciò che stai immaginando, e pregalo di venire. Ed egli giunga portando il suo universo e tutti gli dei che sono in esso, dal momento che egli è uno e tutti, e ognuno è tutti». Il dio che viene invocato è il dominio della «mente», e gli dei che in esso risiedono sono le «idee» stesse. Un universo in cui ciascuna idea è sé stessa e insieme tutte le altre, senza che ciò comporti il venir meno di ciò che la contraddistingue. Un universo in cui la differenza non comporta separazione e alterità come accade nel sensibile: le idee divine sono come tanti «centri» che coincidono in un unico «centro». «Potremmo immaginarla - suggerisce ancora Plotino - come una sfera vivente di una vita molteplice, o ancora come una realtà composta di molti volti e splendente per la loro vitalità, o come una somma di anime pure che convergono in un unico essere». Unità molteplice dell’essere, in cui regna uno splendore infinito e nessuna opacità ostacola la visione, in cui nessuna esteriorità si oppone all’intima conoscenza e nessuna determinazione locale o temporale separa gli esseri: «Tutto è trasparente, nulla è oscuro o impenetrabile, ogni cosa è evidente a ogni altra nel proprio intimo [...], ogni cosa porta in sé tutto e in ogni altra vede tutto: ogni cosa è dappertutto [...] e il fulgore è senza fine», «tutto è simultaneo». La mente è un universo vivente che contiene, a un grado più alto, come archetipi immutabili, le forme di tutti gli esseri e di tutti gli elementi che popolano il nostro mondo: «C’è anche lassù una terra che non è più deserta, bensì più popolata della nostra: essa ha in sé tutti gli animali che quaggiù vengono chiamati terrestri, e ci sono tutte le piante [...], lassù c’è anche il mare e ogni acqua, la cui corrente fluisce di una vita immobile, e tutti gli animali acquatici, e l’aria e i viventi dell’aria». Archivio di ogni possibilità di vita e di manifestazione, pensiero di ogni possibile pensiero, la mente raccoglie in sé, in unità indivisa, tutte le qualità che, nell’universo materiale, si offrono ai sensi: «E come se un’unica qualità possedesse e conservasse tutte le altre: dolcezza mescolata a profumo, gusto del vino mescolato al sapore di ogni altro succo, visioni di colori e sensazioni tattili quante se ne possono conoscere, e pure suoni, tutti quelli che l’udito può cogliere, e ritmi e melodie di ogni genere». Accedere alla mente equivale a conoscere non solo il proprio sé come forma divina - chi è attivo sul piano della mente è come un «dio» -, ma l’intera realtà in ogni sua articolazione e nell’intensità suprema che la vita raggiunge nella coincidenza con il pensiero. Tale conoscenza si dà come sintesi intuitiva, uguale allo stesso splendore trasparente della mente, senza alcuna suddivisione in parti o sequenze determinate da nessi, senza alcuna espressione in termini distinti. E una forma di sapienza e di visione unitaria che Plotino paragona alla natura dei geroglifici: «Gli Egizi, quando volevano esprimere qualche cosa in base alla sapienza, non impiegavano i segni delle lettere [...], ma disegnavano figure e incidevano nei loro templi una figura particolare per ciascuna cosa, mostrando la natura non discorsiva della mente; ogni singola immagine è, infatti, una forma di scienza e di sapienza, corrispondente al suo oggetto, qualcosa di unitario, diverso dal ragionamento e dalla deliberazione». La mente si esperisce e si coglie, senza parole e senza discorso, come un’«immagine sacra» che rifrange l’unità molteplice di altrettante «immagini». Ma, proprio per questo, tutto ciò che si può dire in merito al regno della mente, a proposito del suo contenuto, può avere solo carattere analogico. Plotino ricorre spesso all’espressione, «come», a segnare l’approssimazione e insieme la distanza di quel che viene affermato: la lettera del testo è un perenne asintoto rispetto alla pulsazione dell’evento vissuto al di là della misura umana. Sfera, volto, luce, geroglifico sono unicamente termini simbolici per evocare l’aura di un indicibile.

Chi si fosse avvicinato al divino Glauco, creatura del mare, per ottenere un oracolo dalla sua bocca profetica, avrebbe assai faticato a indovinare il suo effettivo aspetto, a discernere la sua forma primitiva. Tale era stata, infatti, la trasformazione che il suo corpo aveva subito per effetto dei flutti e della perenne immersione nella salsedine: «Parte delle sue membra era stata frantumata dalle onde, parte era stata consumata o del tutto deformata dai flutti, e su di esse si erano aggiunte incrostazioni di conchiglie, di alghe e di pietre, al punto da farlo apparire un mostro invece di ciò che in origine era». Allo stesso modo - aveva spiegato Platone attraverso questo celebre raffronto - la nostra anima, immersa nel mare somatico, annegata nel corpo e nella materia, appare come un’irriconoscibile mostruosità, deturpata da concrezioni «ruvide» e «petrose», irrigidita da asperità irregolari, appesantita da quella sostanza «terrosa» che è propria di quanto sta in basso. In tali condizioni non è possibile coglierne l’essenza né, tanto meno, è possibile che la psiche stessa riesca a conoscersi e vedersi. E la conseguenza forse più grave è proprio questo ottundimento, questa paralisi, che affligge le potenze superiori dell’anima, impedendo a esse ogni attività. Per vedere e conoscere, per risalire dalla materia all’anima e dall’anima alla mente, vi è la necessità di una radicale «catarsi», di una drastica purificazione che liberi il prezioso nucleo dell’anima da quell’involucro di impurità. Bisogna eliminare tutte le scorie determinate dalla complice e compiaciuta solidarietà con il sensibile. Bisogna sciogliere quella rigidità e quelle deformazioni che ne ostacolano l’originario movimento, rendendola simile a un «sasso» inerte. E necessario - spiega Plotino - procedere alla maniera di un artigiano che, con fatica e sudore, si applica a trarre una bella forma da un irregolare blocco di pietra: «Opera come opera uno scultore con una statua che deve diventare bella: da una parte egli elimina, dall’altra assottiglia, qui leviga, lì ripulisce, finché sulla statua non appare un bel volto; così anche tu elimina ciò che è superfluo, raddrizza ciò che è storto, purifica e rendi luminoso ciò che è oscuro e non cessare di scolpire la tua statua, finché il divino fulgore della virtù non risplenderà in te e la temperanza non sarà collocata su un puro piedistallo». Il fulcro del lavoro si riassume nell’atto di «togliere» tutto ciò che non è anima e, insieme, tutto ciò che dell’anima è «inclinazione» al somatico. Non perché il corpo o l’universo fisico siano un male, o il male in assoluto, come ritenevano gli gnostici combattuti da Plotino. Ma unicamente perché le facoltà superiori e lo specchio interiore non possono svolgere integralmente la loro funzione se non in condizioni di isolamento, di semplicità e di purezza. La psiche non deve essere «mischiata» ad altro né da altro turbata nella sua raccolta solitudine: deve trovarsi da sola, in sé e per sé, se il conoscere al grado più alto è qualcosa di «unitario», e tale unità si ottiene attraverso un movimento di ritorno a sé, un rivolgimento che sprofonda nell’interiorità più riposta. E un atto di denudamento, una spogliazione di quei «rivestimenti» di cui ci si era ammantati, consapevolmente o meno, nella «discesa» verso il corpo, in modo analogo a chi si appresti a entrare nella camera più segreta e sacra del tempio: «Egli deve compiere delle purificazioni, spogliarsi delle vesti che prima indossava e salire nudo».

L’«eliminare» rende all’anima la sua essenziale bellezza: lo splendore di una «statua», di un’«immagine divina». E così deve essere se essa vuole contemplare le immagini viventi e intelligenti della mente, se essa intende conoscere il cosmo trasparente delle forme ideali. Perché - secondo l’antico adagio già ricordato da Omero - solo il simile può conoscere il simile, così come l’occhio per vedere il sole deve acquisire, a propria volta, una virtù «solare». Purificata e restituita a sé stessa, la psiche, che si volge alle idee, è, anche lei: «idea» eterna e «forma» perfetta dell’essere, che non «declina» più, in alcun modo, dal proprio vertice. E allora diviene capace di ogni visione nella piena energia di quella facoltà che «tutti hanno, ma pochi usano». Diviene, con tutta sé stessa, un «occhio» immateriale che «vede tutto», un occhio «spalancato» sull’invisibile e l’incorporeo: un occhio che attende, all’alba, il sorgere del sole abbagliante dell’essere, per farsi inondare e nutrirsi di quella luce. Come coloro che salendo sulla vetta di una montagna irradiata dal sole assumono quello stesso colore biondo della terra su cui camminano.

Raggiunto tale livello. la «vista» dell’anima diviene ancor più penetrante e potente. Non vi è più, propriamente, un soggetto che si volga a una realtà posta dinanzi a sé, ma si produce un vedere che trasporta l’oggetto direttamente dentro l’occhio veggente, dentro l’anima contemplante, in un processo di compiuta identificazione: «Non vi è più da un lato chi contempla e dall’altro la cosa contemplata, come due realtà l’una esterna all’altra, ma il veggente dalla vista acuta ha l’oggetto dentro di sé [...], occorre trasferire, infatti, nel proprio intimo ciò che si vede e vederlo come una cosa sola con sé stessi, vederlo come sé stessi, quasi che uno, posseduto da un dio, da Apollo o da una delle Muse, provocasse dentro di sé la contemplazione di quel dio, quand’avesse la forza di guardare, appunto, il dio nella propria interiorità». Ma, allora, l’anima, congiuntasi e identificatasi con il dominio della mente, è pronta a compiere l’ultima transizione, l’ultima tappa del proprio viaggio. È pronta a slanciarsi verso l’uno, a innalzarsi verso di esso. Tuttavia, perché ciò avvenga, è necessario portare il denudamento a un esito radicale.

«Elimina tutto», intima Plotino: l’uno non è pensiero, non è essere, non è forma, e l’anima che voglia accostarlo deve, allo stesso modo, spogliarsi di ogni forma e di ogni contenuto. Deve cessare di essere «idea» e «mente», se vuole raggiungere ciò che eccede l’una e l’altra, in quanto ne è causa e principio. Deve diventare «informe» come «informe» è l’uno: trasformarsi in «pura luce» così come l’uno è «luce» infinita, assolutamente priva di misura, che non può essere in alcun modo localizzata né circoscritta da alcuna figura, che non si sa da dove emani e da dove arrivi, che non fa vedere alcun oggetto, perché, là, non c’è propriamente nulla da vedere, se non il mezzo luminoso stesso che dona l’essere e la conoscenza. Questo è, in sintesi, il «fine» dell’anima: «Toccare quella luce e vederla per mezzo di quella luce stessa [...] la luce da cui l’anima è illuminata è infatti la luce stessa che deve vedere». È un punto su cui Plotino ritorna insistentemente nel tentativo di evocare che cosa accada in quegli istanti. Chi è giunto sulla soglia di tale esperienza - spiega altrove - è «come sollevato da un flutto che si gonfia e allora vede improvvisamente e non vede come: la visione gli riempie gli occhi di luce, ma non fa vedere altro attraverso di essa; ciò che vede è la luce stessa [...] uno splendore che genera», lo splendore da cui promana ogni realtà.

Ma anche il «vedere», così spesso ripetuto, non è forse un termine adeguato o sufficiente per rendere il nucleo di quell’evento. Si tratterebbe piuttosto di un «contatto» ineffabile, di un «toccare», come di due centri che vengano a coincidere o di due amanti che si fondano nell’estasi d’amore. Contatto intimo e profondo nella solitudine di un incontro «da solo a solo», ove ogni pensiero viene meno, ogni distinta identità si dilegua e tutto si sospende nell’oltre di un’unità assoluta.

«Chiunque abbia visto sa ciò che dico», osserva Plotino. E non potrebbe essere altrimenti dato che quanto si afferma nelle pagine delle Enneadi rinvia incessantemente alla memoria vissuta e alla necessità di provare e compiere, soggettivamente, il medesimo percorso. Si comprende, se di comprensione è giusto parlare, solo facendo. Per questa stessa ragione, subito dopo aver tratteggiato il conseguimento dell’uno, Plotino ricorda la «famosa prescrizione dei misteri: non divulgare nulla ai profani». Non perché ci sia un segreto da custodire gelosamente, escludendo i non iniziati, o perché si voglia proibire qualsiasi discorso intorno al divino. Le Enneadi, d’altro canto, non parlano che di questo. La questione è un’altra: solo conoscendo sé stessi, solo «vedendo» e «toccando» da sé, è dato cogliere il valore e il fine del viaggio, è dato sperimentarne la verità. «La visione è difficile da esprimersi»: questo è l’unico indicibile segreto.

La sapienza è un «palazzo» di cui bisogna percorrere, ordinata- mente, le diverse stanze, osservando, con i propri occhi, che cosa ciascuna contenga e che risonanza abbia in noi, fino a che vi sia la possibilità di incontrare «quello» che della dimora è signore. L’incontro può essere fulmineo e sfuggente, a volte inatteso, a volte lungamente bramato, ma vi è sempre la possibilità di tornare in quella stanza più segreta, di tornare da «Lui». Basta ridestare la virtù interiore, già ampiamente sviluppata, e concentrarsi nuovamente sull’«ordine» del proprio «sé», per ritrovare la «leggerezza» necessaria al volo dell’anima: «Questa è la vita degli dei e degli uomini divini e beati: distacco dalle cose estranee di quaggiù, vita che non si compiace di quanto è terreno, fuga da solo a solo».

L’opera di Plotino, così come ora la conosciamo, è frutto del lavoro editoriale del suo allievo Porfirio, che decise di mettere ordine nelle pagine del maestro, disponendole in una sorta di sequenza ideale di temi e di questioni, dai trattati concernenti l’uomo e la virtù a quelli che vertono sull’ipostasi dell’uno. Plotino, in verità, non si curava molto dei suoi scritti. Non aveva l’abitudine di rileggerli né di correggerne la forma o l’ortografia. Scriveva in preda a una sorta di esaltante «possessione», in cui l’espressione del pathos, della sua intima «vissutezza», prendeva spesso il sopravvento su ogni sistematicità espositiva. Quelle righe erano il semplice totalizzarsi su un piano inferiore di quel pensiero vivente che lo abitava. E solo di questo gli importava veramente. Quando ne parlava, durante le lezioni, una luce gli brillava sul viso e una sorprendente grazia sembrava attraversare il suo sembiante7. Un giorno, Amelio, un altro suo discepolo, fu preso dall’idea di compiere un gesto analogo a quello che, tanti secoli prima, aveva condotto Cherefonte a Delfi, per interrogare l’oracolo sul conto di Socrate. È storia nota: la Pizia aveva risposto che Socrate era il più sapiente degli uomini, dando l’avvio a quella missione di risvegliare gli Ateniesi, che egli non avrebbe deposto se non con la morte. Nel caso di Plotino, Amelio aveva una più specifica curiosità da rivolgere al dio: voleva sapere «in quale luogo fosse la sua anima», ovvero a quale rango essa appartenesse dopo che questi aveva abbandonato le proprie spoglie mortali. Apollo non si fece troppo pregare e, nell’ampio responso, affermò senza reticenze che Plotino era ormai un daimon, un essere divino partecipe della sorte degli dei, del tutto sciolto dai vincoli della necessità che altrimenti gravano sui mortali: «Mai il dolce sonno chiuse del tutto le tue palpebre. Tu le hai tenute aperte, squarciando l’oscura cortina di nebbia, e, portato nel vortice, hai scorto molte bellezze che difficilmente sarebbero visibili ad altri cercatori della sapienza [...], ora sei giunto ormai alla schiera dei demoni [...], là dove dimorano il santo Platone e il bel Pitagora e quanti compongono il coro dell’immortale Amore». Il viaggio si era concluso con successo. Lasciando la condizione umana, Plotino era divenuto ciò che era. Aveva realizzato il proprio sé divino, contemplando lo specchio dell’anima e della mente, come Socrate aveva, un tempo, raccomandato a Alcibiade.

Fonte: Davide Susanetti, Il simbolo dell’anima, Carocci Editore

 

LA PRATTICA DELL’ESTASI FILOSOFICA

 

Bisogna eleggere un luogo, nel quale non si senta strepito d’alcuna maniera, all’oscuro o al barlume di un piccolo lume, così dietro, che non percuota negli occhi, o con occhi serrati.[1]

In un tempo quieto[2] et quando l’uomo si senta spogliato d’ogni passione, tanto del corpo, quanto dell’animo. In quanto al corpo non senta nè freddo nè caldo, non senta in alcuna parte dolore, la testa scarica di catarro e dai fumi del cibo et da qualsivoglia umore; il corpo non sia gravato di cibo, nè abbia appetito nè di mangiare nè di bere, nè di purgarsi, nè di qualsivoglia cosa; e stia in questo luogo posato a sedere nella maniera più comoda, appoggiando la testa alla mano sinistra, o in altra maniera più comoda[3].

L’animo sia spogliato d’ogni minima passione o pensiero, non sia occupato nè da mestizia o dolore, o allegrezza o timore, o speranza; non pensieri amorosi, o di cure famigliari, o di cose proprie o d’altri; non di memoria di cose passate o di oggetti presenti[4]; ma essendosi accomodato il corpo come sopra, deve mettersi là, et scacciare dalla mente di mano in mano tutti i pensieri che gli cominciano a girar per la testa.

Et quando ne viene uno, subito scacciarlo, et quando ne viene un altro, subito anco lui scacciare, insino che non ne venendo più, non si pensi a niente al tutto[5], et che si resta del tutto insensato interiormente ed esteriormente, et diventi immobile come se fussi una pianta o una pietra naturale[6]: et così l’anima, non essendo occupata in alcuna azione, nè vegetabile, nè animale, si ritira in se stessa, et servendosi solamente degli istrumenti intellettuali[7], purgata da tutte le cose sensibili, non intende le cose più per discorso, come faceva prima, ma senza argomenti e conseguenze[8]: fatta Angelo vede intuitivamente l’essenza delle cose nella loro semplice natura[9] il, et però vede una verità pura, schietta, non adombrata, di quello che si propone speculare: perciocché avanti che si metta all’opra, bisogna stabilire quello che si vuole o speculare, o investigare et intendere; et quando l’anima si trova depurata proporselo davanti, et allora gli parrà di avere un chiarissimo e risplendente lume, mediante il quale non gli si nasconde verità nessuna.

Et allora si sente tal piacere e tanta dolcezza che non vi è piacere a questo mondo che a quello si possa paragonare[10]: nè anco[11] il godimento di cosa amatissima non ci arriva a gran pezzo.

In tale maniera, che l’anima, pensando di avere a ritornare nel corpo per impiegarsi nelle vili opere del senso, grandemente si duole et senz’altro non ritornerebbe mai se non dubitasse che per la lunga dimora in tale estasi si spiccherebbe al tutto dal corpo[12].

Perciocché quelli sottilissimi spiriti nei quali ella dimora se ne sagliano al capo, e però alcuni sentono un dolcissimo prurito nel capo dove son gli istrumenti intellettuali[13]: et a poco a poco svaporano, i quali se tutti svaporassero, senz’altro l’uomo morrebbe. Et però sono più atti a quest’estasi quelli che hanno il cranio aperto per la cui fessura possano esalare alquanto gli spiriti[14]; altrimenti se ne raduna tanti nella testa che l’ingombrano tutta, et gli organi per così gran concorso si rendono inabili.

***

Questa credo che sia l’estasi platonica[15] della quale fa menzione Porfirio, che da questa Plotino sette volte fu rapito[16], et egli una volta; essendo che di rado si trovano tante circostanze in un uomo.

Con tutto ciò, in due o tre anni potrebbe anco succedere tre o quattro volte; et quelle cose che allora si intendono, bisogna subito scriverle et diffusamente, altrimenti voi ve le scordereste et rileggendole poi non l’intendereste[17]

PLOTINO: L'ESTASI

La parola, in greco, indica il trovarsi fuori di sé, l’uscire da sé.

È il punto d’arrivo eccezionale e momentaneo dell’avventura filosofica. È l’incontro con l’Uno. Nell’estasi l’anima esce fuori da sé e s’identifica con l’oggetto della sua visione e del suo desiderio. È un evento molto raro e breve durante la vita dell’anima nel corpo (Plotino l’avrebbe raggiunto quattro volte soltanto) ed anticipa, per così dire, la realizzazione piena, possibile solo dopo aver abbandonato il corpo, della vocazione dell’anima: il ritorno alla sua sorgente.

Il ritorno dell’anima alla sua sorgente è possibile, perché, per quanto in basso sia scesa nel processo di discesa, essa conserva sempre un legame con l’origine. La metafisica di Plotino stabilisce una continuità ontologica tra l’Uno e le cose che ne derivano per emanazione. Essendo il mondo generato, non creato dal nulla, conserva in sé qualcosa di divino anche se via via degradante. L’uomo, pertanto, può sempre invertire la direzione della sua attenzione e puntarla verso l’alto, verso ciò che è superiore, affinando la riflessione e, poi, realizzando la contemplazione delle Idee e del Nous.

In questo processo di perfezionamento, l’amore e l’arte sono, come insegnava Platone, di valido aiuto.

Arrivata, però, al Nous, l’anima deve fare un passo ulteriore e definitivo verso la sua identificazione con l’Uno. Ma, come l’Uno è propriamente impensabile e ineffabile, così è anche questo passo ultimo dell’anima: se ne può parlare solo per allusioni metaforiche e descrivere solo per via negativa.

Ecco perché la visione è difficile ad esprimersi. Infatti, in che modo si potrebbe dar notizia di Lui come di un diverso, quando chi lo vide non lo vide diverso durante la contemplazione, ma lo vide una cosa sola con sé stesso?”

“Questo non è più una visione, ma un modo diverso di vedere: estasi e semplificazione e dedizione di sé stesso e desiderio di contatto e quiete e comprensione di congiunzione (…) Tutto ciò è soltanto un’immagine, un modo allusivo, di cui si servono i profeti sapienti per indicare come il Dio supremo va contemplato”.

Siamo all’abolizione completa dell’alterità tra colui che vede e l’oggetto della visione, alla totale ed estatica identificazione dell’anima con Dio.

Partita alla ricerca della verità, l’anima si perde in essa e trova pace in questo suo annullamento.

Questo approdo mistico e solitario risponde a bisogni religiosi molto diffusi nel mondo di Plotino, ma la filosofia di Plotino si presenta anche come alternativa all’indirizzo “materialistico” di Democrito, indicato come incapace di andare a fondo nella conoscenza delle cose. Arrivati all’Uno e all’estasi, impensabili e ineffabili, se il bisogno religioso può dirsi in pace, non altrettanto può dirsi del bisogno di conoscenza.

Il principio di ogni cosa sfugge non solo all’osservazione empirica, alla riflessione razionale, ma, anche alla contemplazione intellettuale.

Resta, però, da sottolineare che questo approdo mistico non avviene per fede, né per pratiche magiche o per conoscenze esoteriche, tantomeno religiose.

Non avviene neppure per grazia divina, per dono di Dio. Le idee di grazia e di dono sono incompatibili con la concezione delle divinità di Plotino. Anche l’idea di redenzione, è estranea a Plotino.

L’uomo può con le sue forze, per il legame che l’anima mantiene con l’Uno, convertirsi, voltarsi per il ritorno e realizzarlo con la ragione. L’uomo di Plotino non si abbandona all’iniziativa divina, ma può, con le sue forze, con ciò che di divino c’è in lui, avvicinarsi alla divinità.

L’estasi è il frutto umano della ragione che consuma tutte le sue possibilità e supera sé stessa.

L’umanesimo di Plotino non affida la realizzazione dell’uomo all’iniziativa divina che integri le sue insufficienti forze: l’uomo può e deve avvicinarsi agli dei, imitarli, perché ne ha i mezzi.

La teoria dell’estasi completa la risposta alla domanda con la quale abbiamo incominciato la visita a questo filosofo: se la nascita e il corpo sono il nostro punto più basso nel processo di derivazione dall’Uno, se la nostra vera patria, la nostra Itaca, è lassù, al di sopra delle condizioni spazio-temporali, non c’è motivo di essere orgogliosi di “essere in un corpo”, né ragioni per far durare nel tempo la sua immagine attraverso il ritratto di un abile pittore, né vale la pena di fissare in biografie i dati sui luoghi e sulle condizioni della nascita.



[1] Chiunque si sia dedicato alla meditazione, sa quanto possa essere importante un luogo isolato e silenzioso; la collocazione, talvolta inaccessibile, di eremitaggi e monasteri d’oriente e d’occidente, risponde a questa stessa necessità.

[2] I testi iniziatici consigliano per questo tipo di esperienze le notti secche e serene; temporali e bufere del mondo fisico, vengono del resto messe in relazione a tensioni dei piani sottili.

Sul fatto che tuoni, fulmini e tempeste, non vi siano soltanto nel mondo fisico, cfr. Iagla - La legge degli enti; in Introduzione alla Magia, Vol. 1°

[3] Le posture per la meditazione possono essere alquanto diverse e non tutte ugualmente buone; gli orientali preferiscono la posizione del loto completo o del mezzo loto, come si può vedere in molte statue e raffigurazioni del Buddha o di Guru indiani; per un occidentale, può essere preferibile una sedia a schienale alto con braccioli (posizione ieratica), oppure un giaciglio abbastanza rigido su cui stendersi di schiena a corpo morto. L’inconveniente di quest’ultima posizione è rappresentato dal rischio d’assopimento.

[4] L’equilibrio interiore, è un presupposto di assoluta necessità, in quanto, qualsiasi squilibrio del corpo o dell’animo, impedisce l’apertura spirituale rendendo inutile ogni tentativo di contatto con il nucleo essenziale dell’essere. Usando ormai la sfruttatissima immagine dell’acqua, si può dire che l’agitazione rende torbido l’animo, mentre la calma, data da un distaccato equilibrio, lo rende terso e cristallino come acqua chiara attraverso la quale si può scorgere il fondo (dell’essere).

[5] Viene qui indicato il primo dei tre principali metodi impiegati per raggiungere il silenzio interiore; il secondo, consiste nel non occuparsi del pensiero sino a che, privato della vitalità che gli deriva dall’attenzione, rimanga inerte; il terzo e più difficile metodo di estinzione, consiste nel risalire alle radici del pensiero sino a scoprirne la fonte ed anche chi è che pensa.

In merito ai primi due metodi cfr.  Luce, La Concentrazione e il Silenzio, in Introduzione alla Magia, op. cit.

Per il terzo metodo si veda: Arthur Osborne (a cura di), Gli Insegnamenti di Ramana Maharsi, Roma, 1976.

[6] Questo stato, viene designato dagli alchimisti come Pietra Nera; su di esso e sugli effetti che possono verificarsi, si veda: Luce. La Concentrazione e il Silenzio, op. cit.

[7] Per strumenti intellettuali, si deve intendere lo spirito e le sue facoltà; in altri termini, una diversa modalità dell’essere che non ha niente a che vedere con quanto è solamente di natura cerebrale.

[8] Si tratta dell’intuizione spirituale, di natura sintetica e trascendente, che si oppone all'analisi razionale della mente umana. Plutarco, Iside e Osiride, 382 D, dice che la comprensione dell’intelligibile, accende l’anima come il passar di un baleno.

[9] Viene cioè còlta dallo spirito l'essenza unificata di tutte le cose; si può qui citare il salmista che dice "Aprimi gli occhi, affinchè io contempli...”, Salmi, 119:18.

[10] - Questo lume spirituale è l’Occhio del Cuore che dissolve ogni illusione., L’Insegnamento Esoterico dell’Islam, op. cii, pagg. 15-16.

[11] Questo stato beatifico è anche definito Pace degli Adepti, e non è cosa diversa dalla pace spirituale promessa dai Maestri.

[12] Queste parole lasciano chiaramente intendere che non si tratta di uno stato mentale ma di tutt’altra cosa.

[13] La dottrina dei chakra, propria all’induismo, situa nella testa il Sahasrara chakra o loto dei mille petali, sede di Shiva, ed il Brahmarandhra, la fossetta cranica, o ‘buco di Brahman’; cfr. Swami Sivananda, Kundalini Yoga, Paterno, 1981.passim.

[14] Secondo gli insegnamenti tibetani del Phowa, per poter rinascere nel Paradiso detto della Pura Terra, occorre che il Varco di Brahma (fossetta) si apra abbastanza per permettere di piantarvi uno stelo di millefoglie; ciò, mostra la convergenza degli insegnamenti esoterici di ogni tradizione. Cfr. Charles Luk, I Segreti della meditazione Cinese, Roma, 1965, pagg. 219 e ss.

[15] Platone parla della contemplazione intellettuale e la mette in relazione all’immortalità nel Convito, 211/212. Sull’estasi platonica, cfr. Margherita Isnardi Parente: Introduzione a Plotino, Bari, 1984, pagg. 161 e ss.

[16] Porfirio, dice che Plotino raggiunse quattro volte l’unione con Dio nel periodo in cui gli fu vicino, mentre lui stesso, a sessantotto anni di età, l’aveva raggiunta una sola volta; Porfirio, Vita Plotino cap. XXIII.

Riferimenti all’unificazione delle facoltà interiori al fine di risalire dalle cose sensibili a quelle intelligibili, Porfirio li fa, riferendosi anche a Platone, nella Lettera a Marcella, X: 5, 15.

[17] Quanto viene visto nella luce dello spirito, non può essere capito e trattenuto dalla mente ordinaria, (come succede con i sogni, ndc) pertanto, sarà necessario aiutarla in qualche modo. Gli iniziati, per agevolare il "ricordo” di queste esperienze (ricordare è cosa diversa da rammentare), fanno uso di vari metodi che includono anche l’utilizzazione di speciali profumi.

 

IL GALLO DI ASCLEPIO

“Egli allora girò un poco per la stanza, e poi disse che gli si ap­pesantivano le gambe. Si pose quindi supino nel letto, secondo i consigli di quell’uomo che gli aveva dato il veleno. E costui intan­to, toccandolo di tratto in tratto, gli esaminava i piedi e le gambe. A un certo punto, premendogli forte un piede, gli domandò se senti­va. Socrate rispose di no. Dopo un poco gli premette le gambe, e così, andando in su con la mano, mostrava a noi come si raffreddasse e si irrigidisse. Poi lo toccò ancora e disse: - Quan­do gli giungerà al cuore, allora se ne andrà.

Già erano quasi fredde le parti intorno al ventre, quando Socra­te, scoprendosi - giacché si era coperto - disse, e queste furono le sue ultime parole: - O Critone, dobbiamo un gallo ad Esculapio, dateglielo, e non vi dimenticate” (Fedone, 118a).

All'ultimo momento, poco prima di morire, Socrate non fa altro che raccomandare a Critone di sacrificare un gallo ad Asclepio, il dio della medicina.

Molti scrittori, in tutti i tempi, si sono sforzati di interpretare e commentare le ultime parole di Socrate. Uno sforzo immane, quello di spiegare il più grande enigma della storia della filosofia, nel quale si occulta il senso profondo dell’intera filosofia occidentale.

Infine, cosa voleva dire Socrate con quelle misteriose parole?

Socrate era un personaggio controverso e carismatico. Non scrisse mai nulla, ma la sua filosofia si diffuse attraverso i dialoghi di Platone, suo più celebre allievo. Socrate si dedicava a interrogare i suoi concittadini sulle loro convinzioni, cercando di smascherare le false certezze e stimolando un pensiero critico.

Proprio questo suo modo di fare lo mise nei guai. Fu accusato di non credere negli dei della città, di introdurre nuove divinità e di corrompere i giovani. Queste accuse, in un’Atene profondamente mistica e tradizionalista, erano gravissime.

Condannato a morte per aver sovvertito, secondo il governo cittadino, i valori della città, Socrate accettò la sentenza e le sue ultime parole, rivolte ai suoi discepoli, sono state interpretate in molti modi.

Desidero ripercorrere, attraverso le parole che Platone racconta a Echecrate, le ultime ore di vita di Socrate, lette nel “Fedone”: “…dobbiamo un gallo ad Esculapio”.

Queste parole, testualmente su riprodotte, rappresentano, certamente, un autentico testamento spirituale del filosofo ateniese.

Ma chi era Esculapio e chi e cosa rappresenta? Asclepio, nella mitologia greca, era il dio della medicina e della guarigione. I suoi santuari erano luoghi di cura e di pellegrinaggio, dove si andava in cerca di guarigione da ogni male.

Offrire un gallo ad Asclepio (figlio di Apollo) era un rito propiziatorio, un ringraziamento per la salute ritrovata o un augurio per una guarigione futura.

Socrate non doveva chiedere la guarigione di alcun male, ma stava simbolicamente ringraziando il dio per averlo “guarito” dalle limitazioni del corpo e per avergli permesso di raggiungere uno stato di coscienza autentica. Il che sottintende che il corpo è fonte di “limitazioni” e di inganni, mentre l’anima si eleva all’immortalità. Il gallo, con il suo canto all’alba, era spesso associato alla rinascita e alla nuova vita. Offrendo un gallo, quindi, Socrate esprime la sua fiducia in un trapasso che va oltre la morte fisica.

Dietro quelle parole si intravede l’insegnamento forse più grande che un maestro possa lasciare ai suoi discepoli: la capacità di vivere serenamente il presente. Socrate non è ancora morto, i suoi pensieri sono tutti rivolti al presente. Quando arriverà la morte si occuperà anche di quella, ma fino a un istante prima si vuole occupare di altre incombenze che considera importanti dal punto di vista etico e spirituale.

Che poi, è esattamente ciò di cui hanno parlato, seppur con parole diverse e in contesti differenti, i grandi filosofi antichi e i maggiori maestri spirituali che sono vissuti in tutti i tempi. Ecco, dunque, il grande mistero che ha attraversato la storia occidentale della spiritualità. Ogni insegnamento volto al bene dell’individuo, in ultima analisi, può essere riassunto in una semplice verità: quella di concentrarsi sul momento presente. Che è il modo più efficace per alleviare la sofferenza e per vincere la morte.

La bellezza di vivere istante per istante, senza le preoccupazioni di una mente che ci sballotta tra i ricordi del passato e le ansie del futuro. È questa la ricompensa per chi ha intrapreso con coraggio il cammino della consapevolezza, addentrandosi in un’esistenza senza tempo, e senza fine.

Per concludere, il gallo che col suo canto annuncia e allo stesso tempo rappresenta la nascita del Sole è un tributo che Socrate intende dare alla maggiore divinità del cosmo visibile unitamente all’omaggio che deve essere reso alla medicina che nel corso della nostra vita accompagna e alimenta la nostra conoscenza e mantiene regolare il battito del nostro cuore.  

Anima e corpo

 

Un giorno la guaina che mi avvolge deciderà di staccarsi dal corpo che ha ricoperto per tanti anni. È un distacco inevitabile, fatale e può avvenire in tanti modi diversi. Può avvenire in modo lento o modo rapido. Non sappiamo chi prenderà tale decisione, se il fato o un calcolo eseguito dagli dei sulla lavagna celeste, o talvolta lo stesso uomo in virtù del libero arbitrio che gli è stato concesso. In tutti i casi dubito che all’uomo, con tutti i difetti di cui è succube, sia consentito di interferire in una decisione così importante.

A differenza dei rettili che rinnovano periodicamente la loro pelle, l’uomo non ha il potere di rinnovare periodicamente la sua anima, di conseguenza non ha il potere di sbirciare sul misterioso pallottoliere divino col proposito di dire la sua. Gli dei sono gelosi dei loro calcoli divini e fanno bene, perché se permettessero all’uomo di metterci il naso, la confusione sarebbe grande.

Nessuno ha mai assistito e quindi osservato, né da vicino tantomeno da lontano, questo processo di separazione, lo accettiamo per fede e diamo per buone e convincenti le numerose prove sull’immortalità dell’anima che i sommi filosofi e maestri hanno scritto e descritto nelle loro opere.

Ma il nostro è solo un atto di fede e di fiducia nei confronti di coloro che la sanno molto lunga e benché Reghini abbia affermato, nell’opera “Sui numeri pitagorici”, che “la prova può essere data solo in matematica”, noi facciamo finta che le diverse prove fornite dai filosofi sull’immortalità dell’anima siano il risultato di difficili calcoli matematici o di reali esperienze interiori.

Eppure! A tutto quanto abbiamo detto finora si può opporre un grande eppure! Ecco il dubbio, enorme, paurosamente grande! … che ha dominato da sempre sulla scienza e sulla filosofia fino a che Galileo Galilei con il suo celebre “eppur si muove” ha posto la parola fine a secoli di ignoranza e di intolleranza religiosa.

In primo luogo: possiamo fidarci del fato? In verità nessuno ci ha mai spiegato in forma razionale che cosa sia questo “destino” che, come un pilota misterioso, conduce la nostra imbarcazione in direzione della nostra Itaca finale.

Ulisse riuscì ad affrontare e vincere tutti gli ostacoli per condurre, indenne nella sua barca, a conclusione il suo viaggio.

Ma diamine, Ulisse era Ulisse, godeva di una grande protezione divina, lo proteggeva quella dea Atena che troneggia imperiosa sul Partenone e che vigilava sugli Elleni difendendoli da tutti i pericoli e da tutte le incursioni nemiche!

Ma per noi, che di Ulisse non abbiamo nemmeno un’unghia, chi ci sarà a guidarci verso l’ultimo porto della vita?

Ebbene, girovagando con calma nel mondo invisibile, guidato dalla lanterna dell’intelligenza, credo di essere giunto in vista di un fanale che segnala l’entrata di un porto. Pur essendo una luce fioca e immersa nella nebbia, la mia anima non ha avuto difficoltà e non stenta a riconoscerla. È ancora molto lontana, mi toccano ancora molte giornate di navigazione, e mi tocca tenere fermo il timone per non perderla di vista.

In una situazione tempestosa come questa, l’uomo comune rimane perplesso e indeciso, si affida alle onde e alla direzione dei venti, china la testa sulla bussola e cade in uno stato di sonnolenza e di dormiveglia, quasi di sconforto.

Ma un figlio di Hermes non può comportarsi così. Sua madre Atena non perdonerebbe un atto di codardia o di debolezza o peggio ancora la sonnolenza.

Un figlio di Hermes può e deve fare solo una cosa: tenere fermo il timone per mantenere la nave nella giusta direzione, non si deve importare del tempo che manca all’approdo nel porto che segnerebbe la fine del viaggio.

Un figlio di Hermes sa solo una cosa: ricorda le parole di un Maestro molto ben informato e che al termine di un suo insegnamento iniziatico aveva detto che il tempo “è relativo, non è continuo, come si crede... Esso è paragonabile a una linea spezzata che si ripete all'infinito. Il tempo si riduce a frazioni del non tempo, nel cui quadrante si distinguono e si estinguono tutti i tempi”.

Queste parole mi riportano all’assunto iniziale, alla mia riflessione sull’anima, il “quadrante dove il tempo si annulla”, alla sua immortalità, e a una sola conclusione: la guaina che si staccherà dalla spoglia mortale, nel perdere la dimensione temporale, si avvierà felice in direzione di quella luce che erompe dalla vetta dell’Olimpo dove gli dei placidi e felici permangono eterni nel simposio divino (mystes). 

 

STAVAMO TUTTI AL BUIO


 

Caro Tommasino, caro Maestro, caro Fratello,

Stavamo tutti al buio. Altri sopiti     

d’ignoranza nel sonno; e i sonatori    

pagati raddolcito il sonno infame.

Altri vegghianti rapivan gli onori,   

la robba, il sangue, o si facean mariti

d’ogni sesso, e schernian le genti grame.

Io accesi un lume; ecco, qual d’api e sciame

scoverti, la fautrice tolta notte,        

sopra me a vendicar ladri e gelosi,

e que’ le piaghe, e i brutti sonnacchiosi

del bestial sonno le gioie interrotte:   

le pecore co’ lupi fur d’accordo          

contra i can valorosi;                        

poi restar preda di lor ventre ingordo.  

ho appena terminato la rilettura (leggere e leggere di nuovo) della tua splendida poesia e di primo acchito mi vien spontaneo di dirti che rispetto al tuo secolo buio, non è cambiato molto, il buio è sempre molto fitto, anche se qualche spiraglio di luce si era aperto sul mondo moderno in seguito alle scoperte scientifiche.

Ma stai vedendo bene anche tu come l’uomo prosegue nella più crassa ignoranza, servendo a ben poco, dal punto di vista filosofico e morale, i benefici che ha ricevuto e che si sono visti a seguito del progresso materiale che l’intelligenza ha prodotto nei recenti secoli della cosiddetta modernità.

A te, caro Tommasino, la modernità non sarebbe dispiaciuta, e sono certo che sottovoce mi dirai, caro amico, o una cosa o un’altra, io ho dato al mondo la luce dello spirito, oggi sarei stato inascoltato e forse anche deriso, perché trionfano i cantori della materia.

Vuoi la mia opinione sincera? Non c’è da meravigliarsi, ogni epoca ha i suoi profeti e i suoi locutori, l’umanità di oggi ha fame e sete di falsi idoli, di progresso, di macchine, di denaro, di donne libere, tutte cose che non combinano con i miei versi.

Se io fossi nato nel tuo secolo, al massimo mi avrebbero elevato al ruolo di maestro di una scuola elementare di Stilo e anche se avessi scritto qualche poesia, non avrebbe suscitato l’interesse di nessuno.

“Stavamo tutti al buio” allora e siamo tutti al buio oggi.

Allora a me bastò accendere un lume per diffondere una grande luce e illuminare le menti pigre e oscurate dall’oppressione politica e spirituale.

Oggi non basterebbe un grande falò a illuminare le menti, perché le coscienze sono stordite dal neon delle grandi metropoli e dai tubi catodici delle televisioni.

Se io apparissi e scrivessi una poesia mi sentirei a disagio.

Alla mia epoca “stavamo tutti al buio” e bastò il mio grido di dolore per diffondere una grande luce, oggi che hanno tutti l’energia elettrica non leggono più una poesia e si lasciano stordire dalle immense idiozie prodotte da chi pretende di possedere l’energia. Certo, anche avendo scoperto l’energia e il modo come distribuirla, continuano come alla mia epoca e ancor peggio a “stare tutti al buio”.  

Fonte: https://forum.comedonchisciotte.org/cultura-e-spettacoli/stavamo-tutti-al-buio/

 

HYGIEIA

Se il tuo genio ti venisse in sogno e ti chiedesse di esprimere tre desideri, cosa risponderesti? Risponderei: l'amore, per primo, subito dopo la realizzazione spirituale e al terzo posto metterei la salute.

Ma come potresti ottenere i primi due, senza la salute? Ergo, devi invertire l'ordine delle priorità, replica il genio.

Va bene, risponderei, ecco allora l’ordine corretto; la salute, la realizzazione spirituale e per ultimo l'amore.

E di nuovo il genio interviene: come pensi di ottenere salute e realizzazione spirituale, senza la potenza e la grazia dell’Amore?

Dovetti riconoscere ancora una volta di aver sbagliato e definii la priorità nel modo suggerito, in primo luogo la salute, subito dopo l’amore e infine la realizzazione spirituale. La salute infatti non è solo un bene del corpo, ma soprattutto un bene dell'anima e per poter aspirare all'elevazione dell'anima e alla sua immortalità a seguito della separazione dal corpo, occorre si amare, ma l'amore si manifesta se i tuoi organi sensori e le tue antenne spirituali sono intatti ed efficienti, per cui occorre la salute.

Per concludere è lei YGEIA la regina della nostra vita, la via verso la luce e verso l'immortalità.

ELOGIO DELL’ARCOBALENO


 

Sei apparso, ad ovest del giardino pitagorico,

un giorno qualunque del mese del Leone,

 e come uno splendido ruggito nel muto cielo di ponente,

hai permesso a noi mortali,

di fissare i tuoi colori nel nostro cuore.

Il tuo ricordo scuoterà dalla vecchiezza

la nostra memoria stanca

e le darà una ragione in più di vivere e di sopravvivere

in questo mondo di rivolte e di affanni.

E dalla vita trarrà gli auspici della ragione,

trarrà la forza dell’amore,

trarrà le immagini della memoria,

anche se appannata,

anche se a volte vilipesa dalle infamie del mondo.

Salve, tripudio del cielo

Con te esulta la nostra anima

Il bentivi intona il suo canto

Il nostro amore vibra

Sulle magiche note dell’eterno

Felici le onde dell’Oceano

Baciate da cosi generoso amante

°°°

IL MULINO DEL TEMPO

 

 

“Chi vuol aver focaccia dal frumento

Deve aspettare con pazienza la macinatura”

 

Parafrasando in parte il titolo di un celebre libro di George de Santillana vorrei anch’io, come fecero d’altronde i grandi filosofi del passato, ma senza avere la presunzione né di imitarli, né di uguagliarli, occuparmi del tempo, nella convinzione che il tempo sia il più grande rompicapo per un filosofo o per un semplice studioso.

Io, che ne sto parlando, mi sto servendo di lui, del tempo, senza ancora sapere come descriverlo e tantomeno pretendere di conoscerlo.

Un maestro in filosofia che la sapeva molto lunga sul tempo e su una infinità di altre cose, in una sua Massima fu alquanto laconico e si limitò a rispondere alla domanda - Chi sono? con la risposta perentoria: -L'immanente considerato in tre tempi: ieri, oggi, domani.

E fin qui tutto bene, salvo a riservarmi di capire il significato dei tre tempi scanditi dal Maestro nella sua risposta.

In via preliminare osservo che non c’è un tempo solo, ma ce ne sono tre. E immagino: se era difficile con uno figuriamoci con tre, senza però aver riflettuto sul fatto che il tempo è unico, è uno solo, e che la suddivisione tra passato presente e futuro è opera solo della realtà sensibile dell’uomo. Infatti per l’uomo il tempo non è UNO ma TRINO. Questa suddivisione è fondamentale e sconvolgente, perché su di essa si basa tutta la conoscenza e tutta la speculazione della grande filosofia.

 Subito dopo il Maestro eleva il tono e la qualità della domanda:

-Che cosa è l'eternità?

E qui il Maestro si adegua al gioco e giocando l’asso di bastoni risponde -L'a-tempo.

Per intendere cosa il Maestro volesse dire occorre iniziare con l’analisi della parola.

L’ “a” è l’alfa privativo della lingua greca: per cui traduciamo a-tempo con “senza tempo”

Quando il Maestro però passa dalla terza persona alla prima, la situazione si fa più complessa e delicata. Alla domanda: - Chi sono?

Risponde in maniera chiara, categorica e definitiva: - L'immanente considerato in tre tempi: ieri, oggi, domani.

Ebbene, confesso che non mi sarà facile muovermi in questo labirinto senza essermi procurato un adeguato filo di Arianna.

Come dicevo all’inizio i grandi filosofi si occuparono del tempo e dell’eternità. Plotino dedicò all’argomento la IIIa Enneade;

Quando diciamo che l’eternità e il tempo sono cose differenti, e che l’eternità riguarda la natura perpetua, mentre il tempo riguarda ciò che diviene e questo universo, ci viene fatto di pensare, sul momento e come per un’intuizione istantanea della mente, che nelle nostre anime possediamo un’impressione chiara di entrambe le cose, dal momento che ne parliamo sempre e le nominiamo in ogni occasione. Ma quando invero proviamo a procedere al loro esame e ad accostarci, per così dire, ad esse, non sappiamo nuovamente che pensare...” (En III 7, cap. 1, linee 1-8).

È vero, caro Plotino, “non sappiamo che pensare! …”

Ma, volente o nolente, pensando o non pensando, il tempo esiste e visto che esiste ci sarà pure il modo come spiegarlo! Se osserviamo il volto di un bambino accanto a quella di un vecchio non possiamo non rilevarne la differenza. È lo stesso bambino che si è trasformato. La trasformazione è opera del tempo, sicché è lecito dedurre che il tempo scandisce l’inizio (bambino) dell’uomo al quale segue una fine (il vecchio).

Tra l’inizio e la fine dell’uomo, e non solo dell’uomo, si racchiude un grande mistero il quale dopo aver eretto un monumentale mulino, dalla notte dei tempi, ne muove le pale senza mai fermarsi…

 

                                                                           °°°

 

Fin qui sono rimasto in zona protetta, adesso occorre venire allo scoperto e procedere con più lena e convinzione. La magistrale definizione dell’immanente è solo il punto di partenza a bordo di una piccola barca che naviga sulle onde di un grande mare. In un viaggio burrascoso il porto di arrivo è dubbio e lontano. Il dubbio non è sul punto di arrivo, ben noto, ma sul tempo che quando è cattivo un naufragio è sempre possibile. Infine è lontano perché il viaggio può durare a lungo. Nel migliore dei casi quando va bene e si giunge a destinazione, si arriva stanchi, affranti e soprattutto insoddisfatti.

Senza voler cadere nell’ovvio, mi chiedo: come definire il tempo, è possibile in qualche modo definirlo?

Se ne occupò Plotino nella III Enneade: “Sull’eternità e il tempo”, dove afferma:

“Quando diciamo che l’eternità e il tempo sono cose differenti, e che l’eternità riguarda la natura perpetua, mentre il tempo riguarda ciò che diviene e questo universo, ci viene fatto di pensare, sul momento e come per un’intuizione istantanea della mente, che nelle nostre anime possediamo un’impressione chiara di entrambe le cose, dal momento che ne parliamo sempre e le nominiamo in ogni occasione. Ma quando invero proviamo a procedere al loro esame e ad accostarci, per così dire, ad esse, non sappiamo nuovamente che pensare” ... (En III 7, cap. 1, linee 1-8).

Se Plotino non sapeva cosa dire del tempo, e se il Maestro ARA fu laconico ed esaustivo il mio compito si complica terribilmente.

L’eternità riguarda la natura perpetua…” afferma Plotino. E il tempo che cosa riguarda? Sarei tentato di rispondere: parte dell’eternità. Ossia l’effimero, il caduco. Ma subito dopo riconosco che mi sto sbagliando perché l’eterno non può essere diviso in parti. È grande presunzione, da parte mia, voler esprimere un semplice pensiero sul tempo, dal momento che i grandi filosofi si astennero dal farlo! Non per caso il Maestro parla di a-tempo come di una definizione dell’eternità. E non andò oltre!

Orbene chi si trova nel tempo, può avere idea dell’eternità? Ho l’impressione di girare a vuoto.

Per poter sperimentare l’eterno occorrerebbe uscire dal flusso temporale, e, per esser più chiari si esce dal flusso temporale quando ci troviamo nello stato di morte!

Sia Reghini che Campanella asseriscono che è possibile evadere dal flusso temporale e conoscere l’eternità sperimentando lo stato di morte!

Ma su questo ne parlerò in un altro momento. (Mystes)

 

FUSI  D'AMORE

Fusi che scendono dal cielo

Messaggeri di pace e di amore

Con parole immerse nel verde

Con sussurri nutriti dal vento

Che soffia ondulato e potente

 

Il mistero è rinchiuso nel cuore

olezzante e solenne

È uno scrigno di perle e rubini

Promesso da sempre

In un bacio sottile e leggero

 

 

Chi parla della morte è già morto

Parodia della morte

 


“Esiste un problema della morte?

I vivi sono vita e della vita si occupano: 

solo i morti pensano alla morte”. (ARA, Massima n. 261)

In questa Massima, Amedeo Armentano esprime una grande verità sul “problema della morte, verità che ribadisce fermamente in quest’altra sentenza: “Chi parla della morte è già morto”.

Con queste sue parole il Maestro mette in discussione una parte del pensiero filosofico, quel pensiero che col pretesto di spiegare l’immortalità dell’anima, in realtà non ha fatto altro che elevare un peana, a dire dello stesso ARA, alla necrofilia.

“La necrofilia di poeti e filosofi ha creato i cento miti della morte.” (Massima n. 263)

Adesso cercherò di intendere cosa vuol dire il Maestro quando scrive che i vivi si occupano solo di vita mentre i morti “pensano alla morte”.

La Massima è fortemente esoterica più di quanto si immagini in quanto che, partendo dalla certezza che i morti non sono in grado di parlare e tantomeno di pensare, è legittimo suppore che, quando si afferma che “solo i morti pensano alla morte” si starebbe parlando in senso metaforico di un evento ancestrale e se così fosse occorrerebbe entrare nel senso recondito della stessa metafora.

Plotino, che la sapeva molto lunga, si occupò poco o niente della morte, ma descrisse con ricchezza di dettagli il destino dell’anima e “l’immortalità dell’anima” dedicandole una intera Enneade. Plotino aveva ragione, a che serve occuparsi del corpo visto che al termine del suo ciclo naturale, perdendo la forma, finisce per amalgamarsi con gli elementi di cui è composto? Chi può dare tanta importanza a un corpo destinato a finire in codesto modo? Ma se il corpo ha tale destino è abbastanza comprensibile e non c’è da scandalizzarsi se non ci disperiamo quando accade l’evento a cui il corpo è destinato.

È giusto immaginare che ci sia ben altro in ballo! E a dimostrarlo ci sarà il pitagorico Arturo Reghini il quale dedica alla morte ben 20 pagine del suo “Dizionario Filologico” quasi a voler provare che la morte è un assunto terribilmente serio. E non ci sono dubbi che lo sia. Probabilmente Reghini volle emulare Giamblico quando quest’ultimo scrisse che “se vuoi applicarti al filosofare <devi> separare te stesso da tutto ciò che è corporeo e sensibile, e meditare realmente sulla morte procedendo senza voltarti indietro, attraverso le appropriate scienze matematiche”

E Reghini fu un insuperabile filosofo e matematico, il cui pensiero è molto affine a quello di Giamblico, come dimostrano le sue riflessioni riportate nel Dizionario Filosofico.

Sulla morte per esempio scrive:

“Morte: la parola τελος indica anche essa fine, ma, a differenza dell’ebraico Ghevul, indica anche morte. La voce affine τελευτή significa fine, morte, compimento; e τελετή è il termine tecnico che designa l’iniziazione e specialmente l’iniziazione eleusina. Analogamente il verbo τελεω significa compio e vengo consacrato, ed il verbo τελευτάω indica muoio. La morte infatti è la fine della vita umana, e non meraviglia che i due concetti siano espressi da parole così vicine; anche il latino de-fungere ha i due significati. Ma è interessante osservare che non soltanto si ha abbinamento tra morte e fine, ma tra morte ed iniziazione; quest’avvicinamento dei due concetti espressi con voci così affini è assai suggestivo e va posto in relazione con il carattere dell’allegoria cerimoniale iniziatica e con quella condizione di passività ed immobilità che è peculiare di questa fase del processo iniziatico. Già Plutarco aveva rilevato il fatto; “l’anima dell’uomo, egli dice, al momento della morte prova la medesima impressione (παδος) di quelli che sono iniziati ai grandi misteri; e la parola alla parola, il fatto al fatto si corrispondono; si dice τελευτάν e τελεϊσδαι”. Notasi inoltre che la parola παδος che abbiamo tradotto con impressione ha proprio la stessa radice che è in patientia, passione, passività.

Per Socrate, quelli che filosofeggiano dirittamente intendono a morire. È appena il caso di osservare che certamente qui si tratta della mors philosophorum, di quella morte di cui è fama Averroè dicesse: moriatur anima mea de morte philosophorum; perché per un suicidio non ci sarebbe stato bisogno di tanto filosofare, nè certamente Socrate poteva pensare che il solo fatto di morire apporta la saviezza. Il filosofo, dunque, come l’iniziando ad Eleusi intende a morire.

E come l’organismo ha potuto permanere per anni sottostando ad un completo cambiamento dei suoi elementi, perché non potrebbe la coscienza, di cui l’organismo è l’espressione, permanere al disperdimento del suo organismo? Quale prova abbiamo noi che la dispersione dell’organismo debba fatalmente trascinare con sé la dispersione della coscienza? Quale argomento scientifico o filosofico ci permette di negare alla coscienza la possibilità di fabbricare cogli stessi o con altri mattoni e pietre un edificio simile ed anche più bello?

La morte è un passaggio da una modalità della vita, la vita corporea, ad un’altra. Siccome tutto ciò che è non può cessare di essere, la morte non arreca la distruzione o l’annichilimento in nessun caso. Ma nel caso dell’uomo ordinario, l’individualità umana finisce, con la morte, col rientrare nello stato non manifestato, e quindi scompare e cessa di esistere in quanto individualità; non è annientata, ma “trasformata”.

Manlio Magnani nel suo “Supremo Vero” dà alla morte un senso misterico e sottolinea che:

“La morte o mistero cosmogonico del padre è espressione della tendenza al ritorno all’Uno Unissimo.

Subito dopo spiega: L’uomo chiama morte la fine di una forma nell’aspetto fenomenale percepito dai suoi sensi. Mentre invece quella non è la morte, ma il segno, il riflesso, il simbolo della morte, potremmo dire un aspetto analogico della morte.

Morte pertanto deve intendersi la fine rispetto alla manifestazione fenomenale, la cessazione dello stato di necessità o di “ordo” proveniente dal caos. Quindi è parola non da riferire solamente a un’esistenza effimera. Forse per questo gli antichi davano l’attributo dell’immortalità a tutto ciò che concepivano come superiore all’uomo e al fisico, per esempio gli dei o dio. Nelle iniziazioni si parlava di morte dell’iniziando per rinascere immortale quando iniziato; perché l’iniziato ha realizzato la coscienza dell‘essere, ha superato il caos, sebbene porti tuttavia attorno la pesante appendice fenomenale e formale della umana e fisica esistenza. Ecco il significato pieno della parola morte.

Così la "morte" non è conosciuta dall'uomo. Egli chiama morte la fine di una forma nell'aspetto fenomenale percepito dai suoi sensi. Mentre invece quella non è la morte, ma il segno, il riflesso, il simbolo della morte, potremmo dire un aspetto analogico della morte.

Morire come intendono gli uomini è strazio, tragedia senza senso. La fine di un individuo, di un atomo, di un mondo, di un astro, dell'universo, di per sé è nulla, giacché si tratta di dissoluzione di una forma e null'altro. Gli elementi, i principii che la componevano entreranno per effetto della dissoluzione in uno stato differente, dove si impone un differente "ordo" del caos: è un continuare sotto l'imperio del fato o della necessità, mutatis mutandis è sempre la stessa cosa. Anche i paradisi e gli inferni delle religioni non cessano di essere varianti più o meno felici di un ordine fenomenale e formale.

Conseguentemente tal genere di morte, in quanto prova la impossibilità di una durata senza limiti alle formazioni venute dal caos, è espressione di un tendere oltre il caos, non è però la realizzazione dello stato ulteriore, sebbene riveli o annunzi il – mistero cosmogonico del padre - non lo compie.

Giuliano Kremmerz, infine, da buon napoletano, trattò la morte con la sua celebre ironia di antico e solare partenopeo e la descrisse nell’omonimo Tarocco, quindi, rivolto al discepolo, gli dice: “Prova a ricordarti donde vieni, o prova a morire per ricordare”.  Ossia, “Vincere la morte”. E il Maestro di fronte alle scontate perplessità del discepolo, conclude: “Ma l’iniziato deve vincere la Morte, sorpassare la schiavitù della legge inesorabile.

Conclusione: la morte è come una botola che si presenta sul nostro cammino messa lì da qualcuno che ha in mano il calendario della vita con il giorno l’ora e il minuto marcati in rosso giorno in cui la botola si aprirà per ingoiare il corpo dell’uomo e segnarne beninteso la fine della parte fisica e la risalita dell’anima verso l’immortalità! (Ro Se)

 

LA TERZA REALTA’

 

Quando io mi accendo di sole

La mia anima vola a te

Maestro di Luce

 

Il corpo saturnio non ha un comportamento costante e lineare, tra la malattia e la salute noi comunque immaginiamo di rappresentarlo con una linea retta: da un lato il punto A che indica la salute e dall’altro un punto intermedio B che segna la malattia. Non ci occuperemo adesso del punto finale della retta, il punto C, che indica la morte. Limitiamoci a osservare il comportamento della retta tra il punto A e il punto B. Tra questi due punti vi sono numerose stazioni intermedie della vita umana.

Nel movimento lineare di questa retta a quale posto metteremmo la filosofia ermetica? Troveremo stazioni che indicano l’amicizia, l’amore, il lavoro, ma riusciamo a trovare un punto esatto per la filosofia?

L’unico filosofo che io ricordi che tentò di dare una risposta convincente a questa domanda fu Plotino: citarlo però non sarà impresa facile perché il tema in questione è oggetto della intera Enneade I il cui titolo paradigmatico è CHE COS’È IL VIVENTE E CHI È L’UOMO.

Scrive a un certo punto Plotino: “Piaceri e dolori, atti di viltà e di coraggio, desideri e avversioni, la stessa percezione del dolore, di chi sono propri? Dell’Anima, o dell’Anima in quanto si serve del corpo, oppure di una terza realtà composta da ambedue e a sua volta duplice, in quanto si tratta di una mescolanza o del prodotto di una mescolanza?”

A questa domanda non si potrà rispondere facilmente se non parliamo prima del concetto geometrico della linea che non è altro che un prolungamento tridimensionale del punto. In parole più semplici ed elevando il ragionamento a un livello metafisico ci accorgiamo che la vita in generale è quel punto cosmico che trova compimento e completamento nell’essere umano.

Il punto cosmico che riflesso nella materia sensibile diventa punto matematico e che possiamo rappresentare nell’UNO è obbligato a fare un percorso lungo e difficile per poter giungere al pentalfa, l’immagine specchiata di quel cinque che per tutti noi è solo un numero posto tra il quattro e il sei mentre in realtà è il simbolo della creazione, della discesa delle anime nella materia, è quindi il risultato di un processo lungo e complesso che prevedeva un giuramento solenne, il giuramento sulla Tetractys.

Si, si: per quegli che all’anime nostre ha trasmesso la Tetrade fonte alla eterna fluente Natura.

Era questo il giuramento che facevano i pitagorici trascritto dal testo dei Versi d’Oro tradotto da Arturo Reghini. Nel lungo commento ai Versi d’Oro Reghini chiarisce:

Questo non definito e non definibile Trasfondente la Tetrade, corrisponde all’esotericamente inteso: fonte, Egli e la Tetrade, alla eterna e infinita Divenienza dell'Uni-Tutto identico ovunque. Per la Tetraktys in particolare — la Tètrade, il Quaternario, il Quattro-in-attività — sarebbe qui fuor di luogo il riandare a tutte le interpretazioni e applicazioni escogitate ed escogitabili, sino al senso di anche 10 (=l+2+3+4— Piccola Tètrade), e di 36 (=1+3+ 5+7+2+4+6+8 = Grande Tètrade). Qui è preferibile intendere il puro e semplice Quadruplice, in senso statico e dinamico. Nel primo senso, 1 il punto, 2 la linea, 3 il piano specialmente triangolare, 4 il solido in genere e la Piramide in ispecie, notorio e tradizionale simbolo del Fuoco. Nel secondo senso, 1 il principio attivo, 2 il ricettacolo passivo, 3 il prodotto emergente, 4 l’individuo costituentesi autocosciente, auto-integrato, auto-attivo, per ri-espandersi fino all’1, e ricominciare la serie. Si tratta dunque del primigenio Fuoco della universa Vita, che è pur magico fuoco d’individuale Reintegrazione. Gli è quanto basta per noi, anche se il pur antico Ierocle — il cui famoso commento a questi Versi non ha purtroppo, esotericamente, gran valore teoretico né critico, né specialmente pratico — aggiunge che i Pitagorici, con quella specie di giuramento: «Sí, sí per il Trasmettente alla nostra anima la Tetraktys», intendevano alludere a Pitagora stesso. E se infatti trasmissione di Fuoco si può chiamare ogni Maestro che accenda in altri l’occulta igneità magica, pochi ebbero o avranno, piú di Pitagora, diritto a quel nome. Ma, di trasmissore in trasmissore, è ovvio che si dovesse, in una comprensiva concezione pitagorica, risalire sino a qualcosa di analogo a ciò che fu il Demiurgo platonico, o lo stesso cosmico fuoco eracliteo.

Vorrei concludere e non sarà facile aggiungere una virgola alle parole di Reghini. All’inizio di questa breve passeggiata spirituale cercavo la stazione giusta per la filosofia ermetica e credo di averla trovata nel cuore stesso di Hermes, precisamente nella mente di quel magico folletto alato che mi è stato tanto amico e molto vicino nei momenti più difficili della mia vita.

Mercurio, con le ali che gli permettono di attraversare il cielo e portare agli uomini i messaggi degli dei, sono certo che non mancherà di portare alla mia mente, forse nel silenzio del sogno, il codice cifrato del ticket che mi ha permesso la discesa in questo mondo, di vivere e di sognare.

 

Se l'uomo...

 

Se l'uomo fosse principalmente la sua anima, come sembra affermino i filosofi antichi, all'anima, considerata immortale, a quanto sostengono i grandi filosofi e che avvolge la carcassa umana come una grande membrana invisibile, dovrebbe esserle permesso un protagonismo responsabile e quindi la possibilità di cambiare di carcassa, a seconda delle necessità o dei bisogni dell’uomo sensibile, o …del fato.

Ma l'uomo non è SOLO la sua anima. 

E qui si apre un campo di investigazioni vasto e complesso.

Il motivo è molto semplice: se l’uomo, quel che è certo, non ha questa possibilità, qual è la sua sfera di azione? Solo quella relativa alla manutenzione della carcassa fisica? L’uomo, quindi, nonostante egli possegga il dono della parola e della coscienza, è votato ad un’agonia senza fine che inizia, a veder bene, sin dal primo giorno della sua nascita?

L’uomo appena nato perciò, dal secondo giorno di vita potrebbe morire, basterebbe un semplice rigurgito al seno materno per soffocarlo e morire.

Un neonato non ha coscienza, è privo di volontà, ma è già considerato un essere umano, gli è stato dato un nome che figura regolarmente al registro dell’anagrafe.

Per quale motivo allora, l’anima, alla quale i filosofi attribuiscono così grandi poteri e molta responsabilità non ha impedito quella fine prematura? Ed in generale, come si spiega la morte prematura di molti esseri umani, quasi sempre per accidente o per malattia?

L’anima, com’è noto, pur dotata di poteri e di facoltà, in questi casi si dimostra impotente. Quale il motivo?

Cosa c’è al disopra dell’anima umana che può decidere sulla sorte, sul destino dell’uomo, un qualcosa che avrebbe la capacità di ridurne l’autonomia e annientare la virtù decisionale dell’anima?

Secondo i filosofi antichi il fato o destino era superiore a tutto, superiore agli dei, alla volontà umana, allo stesso demone che gli era stato dato in sorte.

È stato tassativamente riconosciuto: “Il fato è al di sopra degli dei! Di fronte alle decisioni del Fato o della Necessità anche il potere degli dèi fallisce”.

Nel Fedro di Platone il Fato vien definito: “La parola divina inviolabile, operante come causa che non conosce impedimenti; che nel Fedro vien detto: Legge compagna alla creazione dell’universo, secondo la quale ogni cosa succede.

Tenterò di illustrare al massimo della mia possibilità il senso delle parole del “Fedro” nelle quali si racchiude il grande mistero rappresentato dal Fato.

In questo compito mi sarà di aiuto il Maestro Giuliano Kremmerz, il quale scrive: “La parola in questa nostra esistenza è il fatum, inviolabile. non derogabile, di ciò che fummo prima. Fatum è la parola detta che nessun dio ha la potestà di cancellare. L’onnipotenza di ogni qualsiasi nume, di qualunque cielo religioso è impotente a cancellare il passato. L’avvenire si crea o si modifica, il passato fu ed è, nelle sue conseguenze, ineluttabile. Un dio può farti obliare ciò che hai compiuto, Ma non può modificare o distruggere o fare come non avvenuta l’azione che ieri compisti. La mente occidentale, l’anima latina e greca, comprese lo svolgimento dell’epilogo di una vita vissuta in un carattere determinativo di avvenimenti preparati nel buio di esistenza ignota al presente (la notte madre del destino è il dimenticato nell’ombra), e determinò il destino come un carattere, un sigillo che nessuno sapeva raschiare e distruggere. […] Un’anima che si disincarna, per quanto eterea, conserva gli elementi sublimati del suo corpo fisico che lascia e psichicamente conserva la memoria latente di tutti gli avvenimenti che si sono svolti sotto i suoi sensi corporali. ... L’atavismo psicologico e costituzionale è già un destino in embrione. Ma il fanciullo rinato è costretto nella morsa della educazione e della imitazione incosciente nei primi anni d’infanzia. All’epoca della pubertà nelle prime crisi di amore indefinito, il suo essere storico comincia a riaffacciarsi e l’adattamento all’ambiente nuovo diventa totale se per sua natura è passivo di suggestione. O parziale se il suo individuo occulto è ribelle a metà. O non vi è adattamento possibile se l’anima storica di lui è in contraddizione assoluta con i fattori della nuova vita. II suo destino nel primo caso è in gran parte determinato dalla storia e dal carattere atavico: nel secondo dall’atavismo cosi come ora è inteso e dal ricordo più caratteristico delia sua esistenza precedente: nel terzo dalla personalità occulta che nettamente delinea la vita nuova. È chiaro che in ognuno dei tre casi qualche cosa o tutto di ciò che avverrà di lui è ineluttabile: questo è destino, latinamente inteso nella sua semplicità comprensiva... Se a tutto questo vi contribuisca l’influenza siderale o metereologica che ha determinato il suo concepimento nell’utero di una donna, o se vi graverà il carattere specifico della climatologia di un’altra regione, è affare che si può discutere e vedere, se le così dette panzane astrologiche hanno o no un valore positivo. (Astrologia, nel senso ieratico, è la parola dell’ombra, o del buio, altro che stelle!). Etimologicamente astrologia significa: la parola delle stelle, o la parola alle stelle.

Nei poemi omerici il destino è stato identificati nella "Moira", che denotava secondo il mito la felicità o la sfortuna assegnata all'uomo, la personificazione del destino ineluttabile. Il compito della Moira era tessere il filo del fato di ogni uomo, svolgerlo e reciderlo segnandone la morte.

Ed infine Orfeo dedicò al Fato l’Inno alle Moire che recita:

“Moire infinite, care figlie della Notte nera,

dai molti nomi, ascoltate me che prego, voi che abitando

presso il lago celeste, dove l'acqua candida per il calore notturno

scaturisce nell'ombroso fondo lucente dell'antro di belle pietre,

volate sulla terra infinita dei mortali;

da dove avanzate verso la stirpe mortale che nutre opinioni,

vana nella speranza, coperte di lini purpurei

nella pianura fatale, dove l'opinione guida il carro che percorre tutta la terra

verso la meta della giustizia e della speranza e degli affanni

e dell'antica legge e dell'infinito potere retto da buone leggi;

la Moira sola infatti osserva nella vita, nessun altro

degli immortali, che occupano le cime dell'Olimpo nevoso,

e l'occhio perfetto di Zeus; poiché quanto ci succede,

tutto sanno la Moira e la mente di Zeus continuamente.

Ma, beate, di cuore benevolo, d'animo mite,

Atropo e Lachesi e Cloto, a me venite, figlie di padre illustre,

aeree, invisibili, immutabili, sempre indistruttibili,

che tutto donate, che togliete, necessità per i mortali:

Moire, esaudite le mie sacre libagioni e le preghiere,

con volontà propizia venendo agli iniziati liberatrici dai mali.

 

Esattamente così “l’occhio perfetto di Zeus”! Chi ha orecchie per intendere intenda e memoria per ricordare, ricordi!

 

ESOTERISMO DI PLATONE

 

Krämer e Gaiser hanno cercato, in tutti i modi, di spiegare che per «esoteriche» si intendono quelle dottrine che Platone ha mantenuto come «intra-accademiche», ossia che ha sviluppato solo nell’ambito della ristretta cerchia dei discepoli, e precisamente solo per quei discepoli che, messi rigorosamente alla prova, in generale e in particolare, dopo una lunga preparazione condotta a diversi livelli, dimostravano la capacita di comprenderle ed assimilarle in modo adeguato. Si tratta, pertanto, di una dottrina «esoterica» che non ha nulla a che vedere con la artificiosa «segretezza» praticata in gruppi religiosi o in leghe settarie politiche.

(…) Szlezák spiega molto bene che differenza c’è fra (dottrina) «esoterica» e «segretezza», e precisa quanto segue: «Per capire Platone è, anzi, decisivo cogliere la differenza fra segretezza ed esoterismo». L’esoterismo platonico era legata ai contenuti dottrinali e alla capacità dell’apprendimento di questi contenuti da parte degli aspiranti ai medesimi: egli non volle mettere per iscritto e non avrebbe voluto che neppure altri mettessero certe sue dottrine per iscritto (ossia i fondamenti ultimativi del suo pensiero), e volle comunicarle solamente a coloro che giudicava capaci di comprenderle con opportuni metodi didattici nella dimensione dell’oralità per ragioni di carattere teoretico ed etico-educativo.

Di tutt’altra natura erano (e sono), invece, le segretezze delle conventicole religioso-politiche, che non erano affatto interessate al rapporto fra il contenuto e le capacità di recepirlo di chi intendeva apprendere, bensì erano interessate al privilegio che quel sapere garantiva al gruppo che le possedeva, e quindi erano legate al potere. (leggi Massoneria)

Inoltre, la segretezza si fondava su giuramenti e su precisi obblighi ad essi legati, e chi li trasgrediva veniva punito, in quanto, diffondendo la dottrina, danneggiava la comunità e il suo potere. Invece, la (dottrina) esoterica platonica non implicava vincoli di quel genere e conseguenze analoghe, e chi diffondeva conoscenze esoteriche non danneggiava la comunità (nel suo potere e nella sua influenza), ma la dottrina stessa e sé medesimo: «Il sapere esoterico non é un mezzo della sete di potere, ma è un fine a sé stesso.

La (dottrina) esoterica è orientata all’oggetto, la segretezza al potere» Insomma, l’esoterica platonica, a causa della difficoltà che implica l’oggetto supremo della filosofia e la rarità delle nature filosofiche degli uomini, esigeva che si scegliessero le nature idonee e che si escludessero dalla filosofia quelle non idonee, parlando con chi si deve parlare e tacendo con chi si deve tacere.

Evidentemente, questo risulta assai disturbante per lo spirito dell’uomo moderno, che per molteplici ragioni è rivolto a finalità in certo senso opposte. Oggi non è pensabile che una persona, specialmente se importante, diffonda pubblicamente solo una parte della sua opinione, e che mantenga un rigoroso riserbo proprio su quelle cose che per lui sono di maggior valore. Ma, se si vuole capire Platone, bisogna cercare di rientrare nella sua dimensione storico-culturale, e non cercare di far rientrare quella, a tutti i costi, nelle dimensioni dell’uomo, di oggi, e quindi bisogna cercare di non ritenere i criteri di giudizio dell’uomo di oggi come gli unici criteri con cui giudicare in assoluto.

Ma il punto più importante che, a questo proposito, emerge dal libro di Szlezák, sta proprio nella evidenziazione della componente esoterica, intesa nel modo precisato, come cifra addirittura emblematica degli stessi dialoghi di Platone. Nei suoi scritti Platone «fa continuamente i conti con la possibilità che una persona che sta dialogando possa portare in evidenza ed esprimere solo una parte del suo sapere e delle sue opinioni». E, quindi, é naturale, per Platone, che l’interlocutore «nasconda» le cose che per lui sono essenziali.

E, in tal modo, il trattenersi dal dire alcune cose, ossia il tenerle nascoste come caratteristica del filosofo, viene utilizzato non solo in positivo, per ridare la giusta fisionomia al vero filosofo, ma anche in negativo, per far apparire ironicamente in tutta la sua povertà e meschinità chi non é filosofo.

La scrittura della filosofia di Platone non contiene la sua parola di fondo, e quindi i suoi dialoghi, pur essendoci pervenuti tutti quanti, non sono l’«omnia» di Platone, perché egli ha mantenuto le cose per lui «più serie» e di «maggior valore» nella dimensione dell’oralità, che, per principio, nei suoi punti supremi resta esclusa dagli scritti.

Richiamiamo due esempi, che, in un certo senso, sono i più significativi.

Szlezák tratta in un unico capitolo Apologia, Critone e Fedone, e li interpreta, proprio sulla base degli schemi che abbiamo chiarito, come un «soccorso» o una «difesa» condotta a tre differenti livelli, e fa vedere molto bene come si cambi livello, appunto a seconda degli interlocutori: nell’Apologia gli interlocutori sono i giudici, cui Socrate parla in un dato modo ad un certo livello, differenziando inoltre chiaramente, al momento giusto, quelli che hanno votato contro di lui da quelli che hanno votato a suo favore; nel Critone il suo interlocutore è il suo assai affezionato amico, ma ben più vicino al comune modo di pensare che non a quello filosofico, e l’argomentazione di Socrate si pone su questo piano; invece nel Fedone gli interlocutori sono filosofi, e, per questo, nell’argomentazione entrano in gioco in pieno le tematiche dell’immortalità dell’ anima e la teoria delle Idee; ma, ciononostante, proprio nel punto centrale Socrate fa un inequivocabile rimando ad un ulteriore piano (che è evidentemente quello di Principi primi), lasciando agli interlocutori, se sono filosofi, di guadagnarlo.

È proprio la dottrina della «parte non discesa dell’anima», presentabile come un’originale innovazione plotiniana, che si rivela, sorprendentemente, come una interpretazione conseguente delle asserzioni di Platone sulla «vera natura» dell’anima. (…)

Ecco la breve storia dell’antico dio Theuth, che, a dire di Socrate, si narra in Egitto. Fedro intuisce che la storia non é autentica; ma viene subito rimproverato da Socrate per questa sua critica: è indifferente da dove viene la storia e chi la narra; conta solo se quanto viene detto risulta vero. E in effetti si tratta non tanto di un sentito dire, quanto della concezione propria di Socrate. L’esposizione di questa concezione sotto una maschera straniera disturba solo uno spirito non filosofico.

La storia «egiziana» racconta come il dio Theuth mostrò al re Thamus le sue invenzioni, e tra queste anche la scrittura. II re, piuttosto critico, giudicò la nuova conquista con minor favore di quanto avesse fatto l’orgoglioso inventore: la scrittura non avrebbe affatto reso più sapienti coloro che l’avessero appresa e non avrebbe potenziato la loro memoria, come credeva Theuth. Al contrario, avrebbe favorito la smemoratezza nelle anime, poiché si sarebbe fatto affidamento sull’aiuto esterno della scrittura, anziché esercitare la memoria, la quale deriva dal nostro intimo. La scrittura é uno strumento per richiamare alia memoria e non per fissare nella memoria.

E la scrittura non avrebbe prodotto la sapienza, perché, per mezzo di essa, si sarebbero potute «ascoltare» molte cose senza che ad esse si accompagnasse l’insegnamento, il che avrebbe reso gli uomini più ricchi di nozioni, ma non più ricchi di conoscenze, avrebbe, perciò, destato in loro la presunzione della sapienza e li avrebbe resi sgradevoli nei rapporti con gli altri, La sentenza di Eraclito «la molteplicità di nozioni non insegna ad avere intelligenza» viene qui non solo ampliata, ma acquista un’interpretazione più profonda e, al tempo stesso, più concreta per quanto riguarda la funzione delle due forze più importanti che determinano ogni formazione spirituale: i libri e gli uomini. Ciò che «insegna ad avere intelligenza» è l’insegnamento o «dottrina» personale. L’insegnamento nel presente contesto, in cui viene presentato come suo contrario l’acquisizione di nozioni dalla scrittura può significare solo il discorso orale del discente con un docente più esperto, il quale deve prendere il posto del libro, che solo in apparenza trasmette conoscenza, se deve sorgere la vera sapienza e non la sua parvenza. Socrate rileva, quale risultato della storia, che sarebbe molto ingenuo ritenere di poter tramandare un’«arte» per mezzo di segni scritti o ricavare da essi qualcosa di chiaro ed attendibile. Tutto quello che i «discorsi» scritti possono fare é di richiamare alla memoria di chi già sa ciò di cui tratta lo scritto.

Questa storia vuol dire che il risveglio primario della vera conoscenza è legato all’insegnamento orale, mentre la scrittura serve, nel migliore dei casi, ad una riattivazione secondaria, ossia ad un richiamo di una conoscenza già presente in colui che vuole apprendere.

 Fonte: Thomas Alexander Szlezäk, Platone e la scrittura della filosofia

 

“PER CONTEMPLARE IL CIELO”

La facoltà finale dell’anima è la prudenza, perché questa per natura noi la vediamo nascere per ultima negli uomini, ed è anche questa la ragione per cui la vecchiaia pretende la prudenza come suo unico bene; dunque è una prudenza il nostro fine secondo natura e il pen­sare è in ultima istanza ciò in vista di cui siamo nati. Dunque se siamo nati, è chiaro che noi esistiamo in vista del pensare e apprendere qualcosa” (Giamblico. Esortazione alla filosofia)­

Quando chiesero a Pitagora il motivo per cui dio e la natura lo avevano generato rispose: “Per contemplare il cielo!”.

Sembrerebbe, a prima vista, una risposta vaga e banale, specialmente se pronunciata da un filosofo a cui viene attribuita l’invenzione dell’aritmetica e della metafisica, nobili materie che i “Versi d’Oro” a lui attribuiti hanno molto bene riassunto.

Ma banale non è, e tento subito di spiegare il perché.

Per prima cosa, venendo a tempi più vicini a noi troviamo il celebre aforisma di William Shakespeare: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Dal che ci è legittimo dedure che “il cielo” contiene moltissime cose che nessun filosofo sarebbe in grado di decifrare, spiegare o…sognare.

Ritornando a Pitagora leggiamo nella sua celebre frase sopra riprodotta il verbo “contemplare” e insieme al verbo la parola “cielo”.

Scrive Reghini nel “Dizionario Filologico”:

“La parola contemplazione trae l’odierno significato metafisico da un antico senso divinatorio e magico. Templum, infatti, contrazione di tempulum, diminutivo di tempus, indicava, secondo Varrone, una porzione separata e specialmente lo spazio che l’augure segnava nei cieli colla sua bacchetta al fine di circoscrivere un dato limite dentro il quale faceva le sue osservazioni sul volo degli uccelli, ed anche significò una porzione di campo consacrato dall’augure e destinato a fini religiosi. Da questo primitivo significato etrusco-romano è passato all’odierno in modo affatto simile alle parole desiderare, considera-re, passate dal senso astrologico a quello sentimentale e razionale.”

E Amedeo Armentano, nelle Massime di Scienza Iniziatica chiarisce meglio il modo e il motivo della contemplazione: “Per poter contemplare è necessario non farsi dominare dai sensi, perché chi ne è schiavo od anche è semplicemente incapace di astrarre da essi, non può assorbirsi nella contemplazione. Questa libertà va conquistata rimanendo nei sensi e non fuggendone; accettandoli e non combattendoli; adoperandoli e non rinnegandoli.”

Come sempre la risposta di Reghini è di natura filosofica, mentre quella di Armentano è più profonda e nello stile pragmatico del maestro italico si eleva all’aspetto magico ed esortativo.

Stando così le cose, attraverso la “contemplazione”, per il motivo esposto dal Maestro ARA sarebbe possibile entrare in contatto col mondo invisibile, in quanto che i valori dello spirito che noi perseguiamo si possono conoscere e soprattutto sperimentare mediante la “contemplazione” ma in primo luogo conservando il controllo e il “dominio dei sensi”. Dopo di che la nostra anima, che si trova prigioniera nel nostro corpo, una volta ridotta al silenzio la fortezza dell’apparato sensibile, potrebbe restare comunque legata al corpo, per un certo tempo, mediante l’invisibile filo della vita.

Quando l’anima dovesse però decidere di recidere quel filo che la tiene legata all’apparato sensorio si conclude tutto il processo, quel processo che si svolge numerosissime volte e al quale noi uomini abbiamo dato il nome di vita e di morte.  

Nello stesso istante in cui il filo si rompe, il demone che ci ha avuto in sorte entra in funzione per fare la sua parte, l’anima prende il volo, sussurra al corpo: me ne vado, caro, ti ringrazio per avermi ospitato in tutto questo tempo, mi auguro che tu abbia fatto bene la tua parte, ora tocca a me e porterò con me, te lo prometto, i ricordi più belli della nostra convivenza. 

Io ti ho dato salute e memoria, ossia la parte migliore di me, a te ho lasciato le decisioni più impegnative, quelle della conoscenza e dell’eros.

Addio mio caro, siamo stati bene insieme e ormai sarai in grado di sapere del perché ti ho generato.

Con un filo di voce rispondemmo: crediamo di saperlo, “per contemplare il cielo!” (Ro Se)

 

L’UNO, AL DI LÀ DELLA VITA E DELLA MORTE

Parmenide
 

“…tensione dello spirito («muero de no morir»), desiderar di morire, ma non voler morire; voler morire per il desiderio di esistere pienamente…”

Ci hanno sempre detto che esiste la vita e che l'alternativa alla vita è la morte.

E noi, logicamente, ci abbiamo sempre creduto, perché sotto i nostri occhi constatavamo l'esistenza di due realtà, una: la vita che potevamo verificare direttamente osservando noi stessi e il nostro prossimo e la morte che ci toccava registrare quando veniva a mancare qualcuno dei nostri amici o de nostri cari. Neanche per un attimo potevamo azzardare o semplicemente immaginare una terza possibilità: perciò ho chiesto a me stesso, è possibile esistere al di là delle limitazioni imposte dalla vita e dalla morte? Finalmente ricevemmo una risposta positiva quando incontrammo lungo la strada della ricerca un nostro correligionario, il misterioso e impenetrabile Parmenide di Elea, il filosofo dell'Uno.

Parmenide è il più gran rompicapo di tutta la filosofia antica, insondabile, arcano, sublime!

A dire il vero, di questo arcano e straordinario protagonista, il signor UNO se n’era occupato distesamente Plotino nelle sue Enneadi ma, nonostante lettura e rilettura dei brani dedicati all’Uno, non ci avevamo capito nulla di nulla, trovavamo commenti e spiegazioni confuse e impenetrabili.

Ecco quel che ne dice Plotino “l’Uno è «al di sopra dell’essere, del pensiero e della vita». Queste affermazioni non significano che l’Uno è non-essere, non pensiero, non-vita, ma, piuttosto, che, come principio infinito da cui derivano l’essere, il pensiero e la vita, l’Uno è assolutamente superiore a questi suoi prodotti.  In qualche caso Plotino definisce l’Uno come Super-essere, Super-pensiero, Super-vita.

L’Uno assoluto, dunque, è causa di tutto il resto. “Ma - si domanda Plotino - perché c’è l’Assoluto e perché è quello che è? È questa una domanda che nessuno dei filosofi greci si era posta e che, per la sua arditezza, tocca davvero i limiti della metafisica”. La risposta di Plotino tocca uno dei vertici più alti del pensiero filosofico occidentale: l’Uno “si auto-pone”, è attività auto-produttrice… Egli è come ha voluto essere. E ha voluto essere così com’è, perché è «quanto di più alto si possa immaginare».

Non è poco, ed è vero che in queste poche frasi di Plotino si occulta il mistero di tutta la filosofia occidentale. Infatti, l’affermazione “quanto di più alto si possa immaginare” sfonda la barriera dell’immaginazione e della conoscenza, attinge vertici che il pensiero e la dialettica umani non potranno mai più attingere. E queste parole si avvicinano alla “logica” conclusione del filosofo: tentare di “conoscere” l’Uno o semplicemente immaginarlo è impresa che può condurre alla follia.

E.C. Agrippa nella sua magistrale opera dedicata alla “Filosofia Occulta” ed esattamente nel capitolo dedicato all’Unità scrive:

Uno è dunque il principio e la fine d’ogni Cosa e non avendo esso stesso ne principio né fine, non ha nulla a sé davanti, nulla dopo. Uno è il principio di tutte le cose e tutte procedono verso l’uno e dopo di esso non v’ha nulla e tutto quel che è desidera questo uno perché tutto è venuto dall’uno; e per la immedesimazione delle cose è necessaria la partecipazione con l’unità; e come tutte le cose sono procedute andando dall’uno ai molti, così tutte le cose che si sforzano di tornare a quell’uno da cui sono procedute, bisogna che lascino la moltitudine. L’uno si riferisce dunque al Dio supremo, che essendo uno e innumerevole, crea tuttavia le innumerevoli cose e le contiene in sé. Così che v’ha un Dio, un mondo che è un Dio, un sole per un mondo, una fenice nel mondo, un re fra le api, un capo conducente nel gregge, un comandante in un’armata, le gru ne seguono una e parecchi animali venerano l’unità. Tra le membra del corpo vi è un unico principio che tutte le regge, sia questo il capo, sia, come altri vogliono, il cuore.

Non servono molte parole per penetrare il senso delle affermazioni di Agrippa, tra le quali la più interessante, a nostro parere, è quella frase sull’inizio e sulla fine di tutte le cose, che ci riporta alle intuizioni plotiniane nelle quali scopriamo nella visione unitaria della scienza magica di Agrippa la filosofia spiritualista di Plotino.

A questo proposito occorre sempre tener presente che navighiamo in acque sconosciute e tempestose dove la sola bussola della coscienza e della conoscenza non basta, ma dove si rende necessario l’impiego di quel sestante fatto di metallo nobile che adoperiamo per orientare la nostra imbarcazione in direzione della stella polare che brilla sull’asse verticale della nostra Anima.  

Da questo perfetto sodalizio, Anima e Stelle, l’uomo giusto, il maestro silenzioso ha sempre ricevuto l’insegnamento più vero, ha sempre ascoltato dal profondo del suo essere le divine parole che nel silenzio della sua mente sono risuonate come i mantra dell’antico sapere.

Quei “mantra” impronunciabili e segreti che, a dire di Manlio Magnani, svelarono all’uomo ignaro e innocente il "mistero cosmogonico del padre" sicché la morte per lui non fu mai un mistero, “perché essa - e non solo la morte nel senso inteso comunemente, ma ogni termine, ogni chiusura di ciclo in tutti gli ordini, siano manifesti o siano soltanto possibili - è espressione della tendenza al ritorno all' Uno Unissimo. Infatti solo fuori dell'Uno Unissimo si svolge il processo della manifestazione: in seno al verbo e dopo il verbo; cominciando col caos e continuando per il caos.”

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DESTINO DELLE ANIME

 

 

 

“… i destini delle anime, le loro vite e le scelte di fondo sono prefigurate nei segni zodiacali, quasi che da essi si diffondesse un suono tutt'altro che disarmonico…” (Plotino)

E nella stessa Enneade IV Plotino chiarisce meglio: “Il movimento del cielo provoca certi effetti, in primo luogo su sé stesso e poi in tutti i corpi celesti, e su uno di questi, ossia sulla terra, troviamo anche l’uomo, e l’uomo, com’è noto è fatto di corpo e Anima, quindi è lecito supporre che l’Anima subisce “certi effetti” dal movimento celeste e planetario.”

Si spiega così, sulla base dell’antica metafisica, l’importanza che Giuliano Kremmerz dava all’ “astralità” riprodotta sulle informazioni personali dei fratelli della Fratellanza di Myriam, astralità che il Maestro rappresentava graficamente nella cifra personale tracciata sulla pagella.

Kremmerz, di sicuro non ha bisogno di conferme da parte nostra alla sua esposizione della dottrina ermetica. Ricordo che molte volte i fratelli miriamici restavano perplessi, interdetti e a volte dubbiosi di fronte ad alcune operazioni che sono di fondamentale importanza nella pratica magica e iniziatica della Scuola.

Il simbolo grafico, la suddetta cifra, è la sintesi, la rappresentazione di un grande mistero astrale che riguarda l’influenza dei corpi celesti sull’essere umano. Ai dirigenti della Scuola non interessa conoscere la data in cui la madre ha messo al mondo il futuro fratello. Il processo di umanizzazione nel giorno del parto si è già compiuto, il feto che verrà alla luce fisica è già un essere umano che respira, piange ed ha fame e possiede i caratteri dell’ascendente astrale da non confondere con i volgari pronostici.

L’origine dell’essere umano è da cercare altrove, esattamente nel momento della generazione, in quel momento unico e straordinario che può essere ricostruito attraverso una serie di calcoli a partire dalla procreazione umana, operazioni che sono il risultato di secolari esperienze.

Nel momento in cui prende il via la formazione del feto, si ha l’inizio di tutto, perché è in quel preciso istante, come afferma Plotino, che si “prefigura il destino dell’anima”: infatti in quel preciso istante il feto racchiuso nel grembo materno si alimenta e respira, in poche parole vive, ossia compie una delle tante operazioni che in futuro caratterizzeranno la conformazione dell’essere uomo, fisico ed animico, avendo acquisito dai genitori i caratteri somatici e dagli astri “il destino e le scelte di fondo”, destino e scelte che si esprimeranno in forma totale e compiuta nel corso della sua esistenza.

Manlio Magnani ha dedicato all’argomento di cui mi sto occupando uno studio straordinario intitolato l’Umanazione di cui citerò un brano da me selezionato per chiarire il processo di umanizzazione. considerato il destino finale della discesa delle anime.

Magnani nei suoi scritti non si è mai lasciato sedurre dalle teorie reincarnazioniste e preferì usare al posto dell’abusata parola quella di umanazione, da lui giudicata più conforme alla nostra tradizione spirituale.

Dice Manlio Magnani alla voce “Reincarnazione” del “Dizionario Filologico” di Arturo Reghini:

…quindi, non c'è reincarnazione, ma il ritorno ad uno stato animico collettivo da cui emanano successivamente e ininterrottamente gli innumerevoli tentativi destinati a cercare la conseguenza dell'individuazione. Perciò, la (cosiddetta) reincarnazione è un fatto aristocratico. Così inteso il processo, la parola reincarnazione risulta impropria o insufficiente di significato e la sostituiamo con umanazione che è più appropriata, perché ritorna solo in una entità reale che ha già raggiunto un maggiore avvicinamento allo stato di vero uomo e che può riuscire a realizzarlo completamente.”

È mio dovere a questo punto del mio scritto fare alcune precisazioni, per una ragione molto semplice: Magnani era un ermetista e un pitagorico ed aveva una visione elitaria dei processi esoterici che interessano il “destino delle anime”.

Un pitagorico non avrebbe mai condiviso una visione “collettivista” del “destino delle anime”, visione fatta propria dalla nuova religione e come a volte potrebbe apparire nei moderni manuali filosofici sull’argomento.

L’individuo uomo che attende di essere iniziato ad una scuola ermetica, e la cui anima ha tratto dallo zodiaco il suo glifo personale, non potrà giammai dimenticare, dopo essersi liberato del suo patronimico profano che gli permise una vita sociale, il destino che le stelle gli assegnarono e nel quale si occultano i segreti reconditi della sua esistenza, o meglio del suo esistere in un ciclo lontano dal mondo sensibile.

Dalla dimensione umana dove la nascita al mondo lo aveva proscritto deve risalire o meglio ascendere per ritrovare le vere precedenti origini dei suoi natali, senza dimenticare che la strada percorsa nel processo di discesa è la stessa che dovrà affrontare in quella di risalita.

Con una differenza: come tutte le risalite, non sarà per nulla facile ed il segreto per bene affrontarla consiste nel procurarsi il bastone giusto, fatto di buona radica antica, che lo può sorreggere e aiutare a giungere alla vetta ambita. (ro se)

 

L’ANIMA


 

«Socrate per il beneficio del genere umano e per le ani­me dei giovani

è stato mandato nel mondo di quaggiù».

 

I numerosi, diversi e a volte contradditori commenti fatti dai filosofi sull’anima non devono scoraggiare l’intelligente lettore. C’è chi dice che l’anima è immortale, sic et simpliciter, chi afferma, come Plotino, che una parte dell’anima rimane in alto e una parte discende nel mondo sensibile, chi, come Aristotile che l’anima è parte del corpo e che quando il corpo muore, l’anima s’invola con l’ultimo respiro, chi infine come Platone che ha fornito almeno tre prove alla dimostrazione che “l’anima è immortale”, prove che fanno tuttora legge negli studi filosofici dedicati all’anima. Tutti hanno ragione e nessuno ha torto. Hanno ragione perché le loro analisi sono frutto di studi accurati e di riflessioni profonde, hanno (forse) torto perché nessuno di loro ha potuto vedere con gli occhi sensibili del corpo, cosa sia anima e conoscerne il destino.

Scrive Arturo Reghini nel “Dizionario Filologico” alla voce “anima”:

La prova assoluta della sopravvivenza dell’anima umana non si può dare perché la dimostrazione assoluta si dà solo in matematica. La prova assoluta della sopravvivenza dell’anima umana consiste solo nell’esperienza personale di questa sopravvivenza; e quindi nel ricordo da parte della coscienza di essere passata attraverso la morte.

La soluzione assoluta del problema non può consistere che nell’esperienza o conoscenza diretta della coscienza; vale a dire non l’indagine scientifica o speculazione filosofica ma il raggiungimento di un determinato stadio della vita interiore può dare la prova assoluta della sopravvivenza dell’anima.

L’anima, benché sia una unità si compone di tre parti: la mens (mente), la ratio (ragione) e l’idolum (immagine); il corpo si divide in due parti, il corpo elementale aereo ed il corpo elementale composto. La luce divina che illumina la mens discende attraverso questa scala e si ha in tal modo l’intelletto nella mens, il raziocinio nella ragione, la facoltà immaginativa nell’eidolon; discendendo ancora acquista un carattere corporeo, e nel corpo umano di carne diviene addirittura visibile all’occhio.

“E i latini l'«aria» dissero «anima», come principio onde l'universo abbia il moto e la vita, sopra cui, come femmina, operi come maschio l'etere, che, insinuato nell'animale, dai latini fu detto «animus»; onde è quella volgar differenza di latina proprietà: «anima vivimus, animo sentimus»; talché l'anima, o l'aria, insinuata nel sangue sia nell'uomo principio della vita, l'etere insinuato ne' nervi sia principio del senso; ed a quella proporzione che l'etere è più attivo dell'aria, così gli spiriti animali sieno più mobili e presti che i vitali; e come sopra l'anima opera l'animo, così sopra l'animo operi quella che da' latini si dice «mens», che tanto vale quanto «pensiero», onde restò a' latini detta «mens animi», e che 'l pensiero o mente sia agli uomini mandato da Giove, che è la mente dell'etere.” (G.B.Vico, Autobiografia, Milano, 1959).

L’anima fu detta anche “Anima stante e non cadente: sahu: questo termine, che è quello adoperato nei tardi testi dell'ermetismo alessandrino, designa il corpo mediante il quale il defunto conquistava e si assicurava la immortalità, e la beatitudine. Infatti, aha nell'antica lingua egiziana significa star su, fronteggiare, e siccome il prefisso “s” serve in questa lingua a formare i verbi causativi, così saha significa fare stare su, porre su, erigere, drizzare, collocare. Nell'antico egiziano il morto era anche chiamato kherit cioè colui che è caduto; ed era soltanto mediante il sahu, il corpo che sta, formato mediante le cerimonie di rito e le parole sacre pronunciate da Thot Hermes, che era resa possibile l'immortalità. Notisi che il nome Tat dell'interlocutore del dialogo che dichiara di essere divenuto stabile grazie a dio, non è altro che la esatta trascrizione greca della voce egizia Tat, parola che significa stabilità, durata, e si usa specialmente per indicare il «riposo divino, lo stato di stabilità perfetta (scopo finale dell’ anima) ; così nel capitolo Primo del Libro dei morti si legge: Io sono Tat (cioè eterno), figlio di Tat (l’eterno), io sono concepito in Tatu (nell’eternità)» ; ed il geroglifico che si pronuncia Tat è il nilometro, ossia il tronco di tamarisco su cui la tradizione narrava che erano andati a fermarsi i resti del cadavere di Osiride prima della sua risurrezione. Nella lingua greca, il verbo αν-ιστημι e la parola ανά-στασις, che significano entrambe etimologicamente la stessa cosa significata dall'egizio saha, sono adoperati da Erodoto e sin da Omero nel senso di risorgere da morte.

Ed io voglio basarmi sul commento di Reghini per fare alcune poche considerazioni sull’anima.

Premesso che sull’esistenza e sull’immortalità dell’anima nessuno si può pronunciare in maniera certa e nessuno ha mai potuto dire l’ultima parola perché come riconosce il matematico fiorentino “la prova assoluta della sopravvivenza dell’anima umana può essere data solo in matematica”. Ricordo con una certezza quasi assoluta che nessuno dei filosofi che si occuparono dell’anima fece ricorso alla matematica per dimostrarne l’immortalità. Sicché è lecito dedurre che tutte le cosiddette prove fornite da costoro sono solo le loro “prove” e non le “prove” incondizionate e assolute.

È vero che i grandi maestri di filosofia da Platone a Plotino, nei loro discorsi sull’anima non hanno mai emesso sentenze definitive e non si sono mai accampati a dottori laureati di verità su un argomento così delicato come quello dell’anima.

Stando così le cose e con questi precedenti dire anche poche parole sull’anima è terribilmente difficile e rischioso.

Nonostante ciò mi sento di azzardare e nel farlo voglio basarmi su questa frase di Reghini: “…la prova assoluta della sopravvivenza dell’anima umana consiste solo nell’esperienza personale di questa sopravvivenza; e quindi nel ricordo da parte della coscienza di essere passata attraverso la morte...”

In poche parole e per “non menare il can per l’aia”, come direbbe un buon toscano, la “prova assoluta” può essere data solo da chi nel ricordo personale della propria coscienza è passato attraverso l’esperienza della morte.

Francamente però mi chiedo: quanti sono in condizione di fornire questa “prova assoluta”, ossia non una semplice prova, ma una “prova suprema”, una di quelle prove che non possono essere né contestate, né questionate! Solo chi è passato in vita, mantenendosi vivo, dall’esperienza della morte.

Manlio Magnani nel “Supremo Vero” scioglie i miei dubbi e la mia incertezza dandomi una risposta chiara e “rassicurante” quando scrive che “l’uomo chiama morte la fine di una forma nell’aspetto fenomenale percepito dai suoi sensi. Mentre invece quella non è la morte, ma il segno, il riflesso, il simbolo della morte, potremmo dire un aspetto analogico della morte.

Morte pertanto deve intendersi la fine rispetto alla manifestazione fenomenale, la cessazione dello stato di necessità o di “ordo” proveniente dal caos. Quindi è parola non da riferire solamente a un’esistenza effimera. Forse per questo gli antichi davano l’attributo dell’immortalità a tutto ciò che concepivano come superiore all’uomo e al fisico, per esempio gli dei o dio. Nelle iniziazioni si parlava di morte dell’iniziando per rinascere immortale quando iniziato; perché l’iniziato ha realizzato la coscienza dell‘essere, ha superato il caos, sebbene porti tuttavia attorno la pesante appendice fenomenale e formale della umana e fisica esistenza. Ecco il significato pieno della parola morte.”

Secondo l’affermazione di Magnani “gli antichi davano l’attributo dell’immortalità a tutto ciò che concepivano come superiore all’uomo e al fisico” e riesco quindi a intravedere la verità sull’immortalità dell’anima, dopo aver scartato, su suggerimento dello stesso maestro pitagorico, qualunque attribuzione di “immortale” a qualunque cosa che abbia i caratteri, la forma e le dimensioni del mondo fisico.

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IL MORSO DELLA VIPERA

 

Il desiderio di cambiare e di prestare attenzione a sé stessi avviene attraverso il morso della vipera che i discorsi filosofici socratici producono sull’essere. Alcibiade lo descrive così: "morso da qualcosa di più doloroso - perché è stato nel mio cuore o nella mia anima, o come volete chiamarla, che sono stato colpito e morso dai discorsi filosofici, che hanno più virulenza della vipera". (Convivio, 218a-b).                                                    

La vipera, è noto a tutti, è un rettile velenoso e quando morde uccide. Nel caso descritto da Platone nel Convivio il “discorso filosofico” è più letale del morso della vipera. Ma in che modo il discorso filosofico può essere così doloroso? E perché il “morso della vipera” indusse il grande Platone a dare questo segnale di allarme?

Secondo una tradizione molto consolidata la filosofia solleva due grosse questioni: il problema della morte e il problema del destino dell’anima. Si tratta di due argomenti strettamente collegati perché l’uomo nel corso della sua esistenza materiale non ha alcuna percezione dell’anima: non sa cos’è, non sa come è fatta e soprattutto non sa dove si trova. Furono fatte innumerevoli ipotesi, ma nessuna è in grado di andare al di là di una semplice ipotesi. Non sapendo dare alcuna risposta alle domande su formulate, il filosofo brancola come un cieco nel buio più totale. La maggior parte degli uomini per una tranquillità di coscienza finisce per affidare la soluzione del problema (ammesso che una soluzione ci sia) a una qualche religione il cui rappresentante corre al capezzale del malcapitato un momento prima di morire o quando è già morto. Il prete, dando l’estrema unzione, tranquillizza i congiunti riuniti al capezzale del morente assicurando loro che l’anima del moribondo “è salva”.

Da Nietzsche a Schopenhauer la maggior parte dei filosofi è convinta che questa “salvezza” sia solo una turlupinatura perché il cosiddetto “uomo di Dio” in quel momento non fa che illudere il moribondo e ingannare i congiunti, non avendo alcuna nozione dell’anima e soprattutto della dinamica che l’anima ha avuto nel corso della vita di quell’uomo e quale sarà il destino al momento della morte fisica.

L’anima non può salvarsi e nessuno può salvarla per la semplice ragione che l’anima, essendo una sostanza immateriale, non può essere oggetto di nessun intervento dall’esterno e quindi di alcuna salvezza. L’anima è quella che è, ripeto che nessuno dall’esterno può decidere sul suo futuro.

Volendo restare nell’ambito della cultura occidentale … vediamo Platone ricorrere alla dottrina della reminiscenza, ma se c’è una cosa discutibile è proprio la dottrina della reminiscenza. Meglio informato mi pare Plotino il quale dedica l’intera Enneade IV allo studio e all’analisi della spinosa questione. Plotino ha affrontato il problema da diversi punti di vista e dopo averli esaminati con la sua tradizionale puntigliosità di dettagli e di riflessioni, conclude assegnando due destini netti e separati uno all’anima e l’altro al corpo dell’uomo, riconoscendo alla sola anima la sorte dell’immortalità. Sia Platone che Plotino sono i responsabili dell’elaborazione di una dottrina molto sofisticata sull’anima e sul suo destino nell’aldilà.

Non mi sarà possibile in un breve elaborato come questo addentrarmi nei meandri delle loro teorie, e mi limito perciò al celebre “morso” del Convivio.

Premesso che tra l’altezza dell’anima e il livello del corpo esiste un abisso nel quale, a mio vedere, si occultano le risposte agli innumerevoli quesiti posti dai filosofi sull’anima, la sua origine la sua presenza nel mondo fisico e infine il suo futuro.

Credo di poter ricordare che almeno due uomini sommi tra i pochi esistiti ed esistenti, ci possano aiutare se non a risolvere l’incognita a fornirci una traccia: Tommaso Campanella e il Maestro Amedeo Armentano, due sommi esponenti della grande tradizione sapienziale italica:

Campanella scrisse, quasi certamente nel carcere di Napoli, dove i torturatori spagnoli lo lasciarono languire per quasi 30 anni, il seguente celebre sonetto:

Stavamo tutti al buio.

Altri sopiti d'ignoranza nel sonno;

e i sonatori pagati raddolcire il sonno infame.

Altri vegghianti rapivan gli onori, la robba, il sangue,

o si facean mariti d'ogni sesso, e schernian le genti grame.

Io accesi un lume.

Amedeo Armentano nell’Orazione funebre a Magnani scrive:

“Bene, fratello Magnani; liberati dell'involucro che ancora pesa sul tuo spirito e segui il tuo cammino, afferrati ai raggi magnifici della stella che segue il Sole e dopo... dopo il salto è breve, la luce dell'astro ardente dell'amore ti attrarrà e tu ti fonderai con la sua eternità luminosa.”

Chi cerca affannosamente nei romanzi e nei trattati filosofici una risposta alle domande sul mistero dell’aldilà che fa “tremar le vene e i polsi” colti e ignoranti, per usare un’espressione dantesca, si sbaglia di grosso. Ciò che deve esser fatto, una volta liberi di quell’involucro che per molti anni ci ha permesso di vivere in salute, è seguire o meglio afferrare la luce di quel lume acceso da Campanella, perché come assicura il maestro ARA infine “il salto è breve”, la luce di Venere, dell’astro ardente dell’amore “ci attrarrà per essere fusi nella sua eternità luminosa”.

Non è un’espressione poetica, è un vero e proprio processo iniziatico, al quale potevano accedere i privilegiati discepoli di Pitagora che in terra calabra, al cospetto delle schiume sonore dell’antico mare, celebravano i loro riti che giammai alcuna favella volgare poté violare perché rimasero occulti e inviolati nel cuore magico della dea.

Per concludere: come poetava Tommaso Campanella, tutti brancolano nel buio dell’ignoranza e della malizia, nonostante tutto il lume della verità può essere acceso solo da chi vive una determinata esperienza, ma chi la vive non potrà trasferirla a nessuno, soprattutto ai profani e ai curiosi, perché si conserva intatta e immutata nel cuore di Venere. Qui habet aures audiendi intelligat. (ro se)

 

LA PAURA DEL FANCIULLINO

 

“E l’anima, caro, si cura con certi incantesimi e questi incantesimi sono i bei discorsi,

da cui nell’anima si genera la temperanza”.

Platone, Carmide, 157 A

 

«O Socrate, cerca di persuaderci, come se noi avessimo davvero paura. O meglio, non come se avessimo paura noi, ma come se ci fosse un fanciullino dentro di noi e che avesse tali paure. Cerca, dunque, di persuadere questo fanciullino a non aver paura della morte come degli spauracchi».

«Ma bisogna fargli gli incantesimi tutti i giorni, - disse Socrate - fino a che non lo si sia placato con tali incantesimi!».

«E un buon incantatore di queste paure, dove lo potremo trovare, dopo che tu ci avrai abbandonati?».

«L’Ellade - rispose Socrate - è grande, o Cebete; e nell’Ellade ci sono molti uomini capaci. E molti sono anche i popoli barbari. Dunque, dovrete cercare di scoprire fra tutti costoro un incantatore, senza risparmiare ricchezze né fatiche, perché non c’è nulla per cui potreste spendere meglio il vostro denaro. Ma dovrete cercare anche fra di voi, gli uni con gli altri, perché, forse, non troverete persone che sappiano fare questo meglio di voi».

In primo luogo commuove la fiducia di Socrate nell’Ellade e nei molti uomini ivi esistenti capaci di operare incantesimi.

Non ci sono dubbi che Socrate doveva essere ben consapevole dell’esistenza di questi incantatori, al punto da declinare la richiesta del suo discepolo per dirottarli su altri lidi. E quando assicura i suoi interlocutori sull’esistenza di questi personaggi anche tra i cosiddetti “popoli barbari” certamente si riferisce a quei popoli che non parlavano la nobile lingua greca. Infine però Socrate, probabilmente sorpreso dalle sue stesse parole, conferma la sua fiducia nei suoi discepoli, affermando che forse “nessuno saprà fare meglio di voi”.

Certamente Socrate dal suo elenco di “persone capaci di fare gli incantesimi” non escludeva gli abitanti delle colonie greche dell’Italia Meridionale ed essendo io uno dei pochi sopravvissuti della colonia achea in Magna Graecia, tenterò con le mie modeste forze e risorse, di fare qualcosa, se non proprio un “incantesimo” una breve esercitazione letteraria su di esso.

Comincio da quello “apparentemente” più semplice, “l’incantesimo” della propria anima, una operazione che mira alla conoscenza di sé stesso. Dicendo ciò finisco a capofitto in quel “nosce te ipsum” che è stato il grande rompicapo di studiosi e lettori di tutti i tempi.

È lecito quindi supporre che l’incantesimo della propria anima sia la via migliore e diretta per giungere alla conoscenza di sé stessi.

Io so però che non si giunge alla “conoscenza” con un semplice e unico “incantesimo della propria anima” e che l’incantesimo di cui parla Socrate, probabilmente, è la tappa finale di una corsa ad ostacoli, su una strada cosparsa di ciottoli e piena di difficoltà, dal momento che, come afferma categoricamente il Maestro ARA nelle sue “Massime di Scienza Iniziatica” per conoscere bisogna aver preliminarmente 1) dominato il pensiero, 2) essersi liberati da tutte le credenze, dalle passioni e dalla paura del nulla.

Ed è bene soffermarsi sulla frase del Maestro ARA, sulla paura del nulla. La differenza con la paura di nulla è fondamentale e va chiarita, affinché si intenda in modo definitivo che la paura di nulla è la paura cui va incontro l’uomo comune nelle sue faccende ordinarie di tutti i giorni, mentre la paura del nulla è il terrore del vuoto metafisico che incombe sull’anima al momento della separazione dal corpo. È di questo tipo di paura che occorre “liberarsi”.

In poche parole per giungere a un primo contatto con noi stessi, all’anticamera di quella operazione descritta da Socrate, bisogna aver svuotato la nostra mente di ogni pensiero, buono o molesto che sia, e di conseguenza aver raggiunto quello stato di silenzio interiore che rende possibile l’“incantesimo della propria anima”.

Ebbene, quel dominio e quello svuotamento interiore di pensieri e di problemi della vita ordinaria, non sono che il preludio di quell’imperativo categorico descritto dal Maestro ARA nel suo trattato sulla “Conoscenza”, “conoscenza” alla quale pare si possa giungere con l’”incantesimo dell’anima”.

Per produrre tale incantesimo, non solo occorre “persuadere quel fanciullino” che è dentro di noi a non aver “paura del nulla”, ma occorre convincerlo che la “paura del nulla” è il grande ostacolo, indicato nella Massima del Maestro ARA, per avvicinarsi all’esortazione di Socrate consistente nel placare la “paura del fanciullino”, paura che impedisce l’ “incantesimo dell’anima”.

Prima di concludere questo mio breve scritto, devo chiarire quale significato e per quale motivo Socrate dava tanta importanza alla parola “incantesimo”, termine che veniva usato non solo in filosofia, ma anche in magia, a dire di Agrippa, nel senso più vasto e più vario per indicare idee e pratiche, impressioni e riti magici, legati ad avvenimenti e persone, alla loro origine e alla loro fine.

Giuliano Kremmerz, come sempre diretto e incisivo, chiarisce: “…Perciò questi incantesimi non si danno che solo a chi sa meritarli, perché sono forze per sé stesse già vitalizzate attivamente al punto che gli effetti sono rapidi e precisi, a differenza delle preghiere già entrate nella liturgia cattolica (i salmi) che hanno un valore relativo per la diversa maniera con la quale sono stati usati. CERTE PAROLE CHE NON SI RIPETONO INVANO SONO IL PATRIMONIO DI RARISSIMI UOMINI CHE NE PERDONO LA FACOLTÀ SE NE ABUSANO — perché essi le hanno apprese direttamente nel cielo di Ea e ognuna di esse contiene in sintesi un atto di creazione in germe. Guai a chi le parole non le pronunzia in tempo in modo da fare abortire il germe vitale della creazione!” (Giuliano Kremmerz – La Scienza dei Magi – Vol. IV alla voce “Incantesimi”).

E infine concludo citando Manlio Magnani il quale nel “Supremo Vero” definisce “i nomi inintelligibili per il profano, o anche "ignoti", sconosciuti; nomi senza segno" perché “il loro senso profondo non può essere detto o percepito che in una folgorazione dello spirito libero da ogni legame corporeo.

Ecco spiegata la ragione per cu Arturo Reghini e Giulio Parise praticavano i loro esercizi nel silenzio più assoluto tra le mura della Torre Talao, dove il silenzio poteva essere accompagnato dalla melodia delle antiche onde del Tirreno o dal fruscio delicato e musicale delle ali dei gabbiani. (Ro Se)

 

INTUIZIONE


“L'atto dell'intelletto", spiega Plotino, "è un atto intuitivo, una presa di possesso immediata dell'oggetto, un'identificazione con l'oggetto pensato: non è il ragionamento che mi porta a una conclusione, ma l'atto di comprensione immediata.”

E Reghini, uniformandosi al pensiero e alla saggezza del grande neoplatonico, nel distinguere diversi tipi di intuizione definisce l’intuizione come la “facoltà trascendente la ragione, (che) indica il volgere dello sguardo verso un mondo interiore, l‘in-tueri. L’in-tueri è dunque una funzione che non ha nulla a che vedere col mondo fenomenico. La stessa metafora si trova nella radice sanscrita gah , da cui gah-aya-ti (penetrare, intelligere) e nella parola iniziare da initium, in-ire, andare verso l’interno.

L’etimologia fa dunque consistere l’iniziazione nell’andare verso quella modalità dell’essere che in opposizione alle cose esteriori, ex-istenti, si può chiamare il mondo interiore, verso l’intrinseca essenza del mondo nascosta dalla ex-trinseca parvenza come l’interno di un oggetto è nascosto dalla superfice. La superficie non è che l’aspetto, l’apparenza delle cose, ed anche quest’illusorio aspetto delle cose non sarebbe possibile senza la retrostante realtà come una superficie non può esistere materialmente che come limite esterno di oggetti aventi uno spessore, non può sussistere senza una consistenza.” (Arturo Reghini, Del simbolismo e della filologia, Roma, 1914)

E andando oltre, come era nel suo stile e nella sua formazione spirituale, Reghini si eleva al mondo dei numeri, di cui conosceva, oltre al misterioso carattere occulto da lui descritto in numerosi testi principalmente nell’opera “Dei Numeri Pitagorici (Arturo Reghini, Dei Numeri Pitagorici, Ignis: https://www.amazon.it/dp/B084DFY5MV ), principalmente le leggi e le manifestazioni sensibili e conclude così: “l’intuizione matematica ed armonica del cosmo di Pitagora e dei Pitagorici rende molto verosimile, anche dal punto di vista razionale, che Pitagora e taluno dei suoi discepoli abbiano avuto intima, piena coscienza della connessione armonica del tutto; e che quindi essi non abbiano poi fatto altro che cercare per via analitica di constatare l’esistenza di questa armonia dando la dimostrazione razionale di quanto avevano intuito per via sintetica. È un rovesciamento di posizione di cui i profani non sospettano neppure la possibilità; ma che talora si impone; sarebbe per esempio interessante farne l’applicazione al caso dell’ermetismo e del suo simbolismo, considerando l’alchimia non come il punto di partenza da cui si è svolta l’idea della grande opera ermetica spirituale, ma come una ricerca analogica determinata dalla risoluzione del corrispondente problema spirituale, e come una semplice ed appropriata miniera di termini allegorici per esprimere in qualche modo, intelligibile ai soli figli dell’arte, concetti e questioni di ordine metafisico”.

Cagliostro, di cui la cultura volgare e disinformata ci ha trasmesso una immagine faziosa (pro domo ecclesia christi) totalmente errata dava all’intuizione una grande importanza, soprattutto perché era attraverso il metodo intuitivo, che il grande mago esprimeva il meglio di sé quando veniva chiamato al capezzale di un ammalato. Cagliostro è il più grande esempio che abbiamo nella storia, l’esempio di un uomo che seppe unire e impiegare bene la sapienza iniziatica alle sue doti personali, in primo luogo al potere dell’intuizione nella cura degli ammalati.

Ed Amedeo Armentano in alcune sue Massime è lapidario quando scrive citando Eraclito “I pensieri sono giochi di fanciulli". L'intendimento umano ha mezzi che vanno al di là del pensiero”. E nella Massima 234 chiarisce meglio: “II pensiero ha la facoltà di elaborare e catalogare ideogrammi tolti dalla virtù dei sensi, ciò che oltrepassa questa virtù bisogna cercarlo nell'intuizione e nella contemplazione”.

Oso dire e credo di non sbagliarmi che nessun filosofo sia riuscito a dare all’intuizione una definizione così chiara, precisa e sintetica come questa. Ed è soprattutto nella grande capacità di sintesi che brilla il genio di questo maestro pitagorico il quale attraverso le sue Massime fornisce al lettore e allo studioso un quadro magistrale della sapienza occidentale. Senza voler fare comparazioni che sarebbero inutili e devianti, consiglio i giovani studiosi moderni di includere nel loro programma di studi le “Massime di Scienza Iniziatica” che già nel titolo anticipano la qualità e le finalità dell’opera. (Amedeo R. Armentano, Massime di Scienza Iniziatica, Ignis: https://www.amazon.it/dp/1081198117 )

Tornando all’intuizione, vorrei chiarire meglio gli strumenti di cui l’intuizione si serve nel suo processo di interiorizzazione. Mi limito a citarne solo alcuni, i più importanti e i più funzionali: il silenzio, la concentrazione, la contemplazione. Ognuno di questi rappresenta un’operazione che gli adepti pitagorici, come ci è noto dalle testimonianze di Arturo Reghini, solevano praticare in occasione degli esercizi alla Torre Talao.

Ci sono note anche la descrizione degli esercizi, oltre che da Arturo Reghini stesso, soprattutto da Giulio Parise che le ha esposte in maniera eccellente in alcuni articoli apparsi su UR.

Per non dilungarmi troppo concludo dicendo che l’intuizione è l’unico ponte a noi prossimo e di cui disponiamo liberamente che ci permette di attraversare la zona buia dei pensieri e dei sensi, pensieri e sensi forti e agguerriti che se lasciamo scorrazzare in libera uscita al centro ultrasensibile del nostro corpo, non ci permetteranno di fare il volo necessario di cui parla Pierre Hadot, parafrasando Plotino, negli “Esercizi Spirituali”: “Fare il proprio volo ogni giorno! Almeno un momento che può essere breve, purché sia intenso. Ogni giorno un «esercizio spirituale», da solo o in compagnia di una persona che vuole parimenti elevarsi. Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome (che di tanto in tanto prude come un male cronico). Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Eternarsi superandosi.”

Ebbene sì, il superarsi eternandosi è il preludio, il dare l’avvio alla vostra sinfonia, comporrete il vostro concerto, un concerto che ha solo un Autore (Noi stessi) e solo un nome: “Immortalità dell’anima”!

                                                                                                                                   Roberto Sestito

 

Beppino Disertori

IL “CARMIDE” E LA MEDICINA

 

In epigrafe a un noto trattato di medicina psico-somatica degli americani Weiss e English trovai una frase del “Carmide” di Platone: vi si depreca l’errore di quei medici che tengono separata l’anima dal corpo.

La citazione m’incuriosì e mi fece cercare il contesto da cui era tolta, perché, così a sé, mi giungeva un po’ stonata nei confronti del pensiero di Platone, che, come tutti sanno, ammette invece una netta distinzione tra l’anima, che è immortale, e il corpo, che di quella è un provvisorio ricettacolo e una sorta di carcere.

Il Carmide viene di solito classificato tra i primi scritti, in ordine cronologico, dell’Ateniese. Enrico Turolla ritiene che possa essere proprio il suo primo dialogo. Comunque apparterrebbe a una fase in cui il discepolo di Socrate non conosceva, o almeno non rivelava, che il «concetto» socratico, ma non ancora l’«idea», la quale, come già disse Zeller, è la pietra basilare del sistema platonico; a una fase, in cui il discorso non giunge alla conclusione dell’argomento discusso. L’intento è di cercare una definizione, ne vengono proposte ed esaminate diverse, ma non trovata quella appagante, per cui tali dialoghi restano come sospesi e l’epilogo rappresenta assai più una pausa dell’indagine che una meta raggiunta.

Nel Carmide è perseguita la definizione della temperanza.

La digressione intorno alla medicina, che ora vedremo, indica nell’autore anche un interesse scientifico, nel senso odierno della parola scienza, e un possesso di dottrine sulla composizione dell’uomo, sul rapporto psico-somatico e sulla terapia, che troveranno esposizione sistematica solo in un’opera delle più tardive ed eccelse del filosofo, che vi si dimostrerà filosofo- scienziato: nel Timeo.

La digressione è all’inizio del Carmide ed offre lo spunto al dialogo.

Socrate è sulla quarantina, reduce dalla Macedonia, dove partecipò alla battaglia di Potidea. Entra nella palestra di Taureas e tutti gli si fanno d’attorno a chiedergli le recentissime del fronte: ed ecco Carmide, preceduto da un gruppo di giovinetti che lo «contemplano come l’immagine magnifica d’un dio». Anche Socrate ne ammira la bellezza eccezionale e condivide il giudizio unanime, ma aggiunge che l’essenziale è che costui sia altrettanto bello nell’anima. «Perché non contempliamo questa sua anima?».

La questione sarà di stabilire se in lui ci sia per davvero quell’armonia d’interiore sanità e quella sapiente temperanza che Crizia asseriva esservi.

Socrate, per dare l’abbrivo al discorso, promette a Carmide una certa pianta e una formula d’incantamento atte a guarirlo dalla cefalea di cui soffriva, precisando che senza la formula nullo era l’effetto della medicina.

«... potrò parlarti più chiaro sulla formula d’incantamento. Poco fa ero incerto sul modo di spiegartene il segreto potere. È, mio Carmide, di natura tale che non soltanto il capo può render sano. Una cosa simile la praticano anche i buoni medici; certo ne hai sentito parlare. Supponi uno va da loro ed è sofferente d’occhi. Gli dicono che non è possibile una cura isolata per gli occhi; e se si desidera che vadano bene gli occhi, è necessario, insieme, curare il capo. Per la stessa ragione si sbaglia se si crede di poter curare il capo a prescindere dall’intero organismo. Partendo da questo principio e tenendo presente nella cura l’organismo intero, cercano di migliorare e di medicar le condizioni della parte insieme col tutto. Non ti sei accorto? Queste sono le loro teorie, e fanno proprio così».

Tali teorie poggiano sul principio dell’olismo medico[1], come possiamo chiamarlo oggi; che era principio già basilare dell’antica medicina ippocratica, per cui le malattie interessano sempre l’intero organismo, anche quando appariscono soltanto a carico d’un solo organo, onde esigono sempre ima cura estesa dalla parte al tutto. Il principio è ripreso dalla medicina dei nostri tempi, la quale ridando importanza alle costituzioni individuali e mettendo un accento sui disturbi della correlazione umorale e nervosa nella patogenesi dei morbi, dai fenomeni immunitari e allergici ai disordini ormonici, dalle disvitaminosi alle alterazioni della crasi sanguigna, ai disturbi neuro-vegetativi centrali e periferici, ha restaurato e ampliato il concetto olistico della malattia o meglio dell’individuo ammalato.[2]

Questa veduta rappresenta una reazione al concetto localistico della malattia, intesa come accadimento limitato al singolo organo o alle singole cellule dell’organo, concetto che ebbe il suo trionfo nella seconda metà del secolo scorso con la patologia cellulare di Virchow, nella medicina in genere, e con la dottrina delle localizzazioni cerebrali estremisticamente interpretate come un mosaico di tessere giustapposte, in neuropatologia.

Il principio dell’olismo medico corrisponde all’analogo principio che si è andato affermando, a un tempo, anche presso l’odierna biologia con la teoria dell’organismo come un «tutto» unitario, in contrasto al concetto materialistico dell’organismo come nient’altro che una somma di frammenti. L’olismo rappresenta pure un allontanamento dal meccanicismo, che vede nell’essere vivente, sano o ammalato, soltanto e nulla più che una macchina costituitasi per caso senza intervento di forze finalistiche, né estrinseche né intrinseche, attraverso il solo giuoco fisico-chimico delle particelle corporee. Di conseguenza l’olismo, sia sotto la specie medica che bio-teoretica, indica un ritorno a quelle posizioni vitalistiche che erano proprie della medicina e biologia pitagorico-ippocratica dell’antica Grecia, successivamente accolte da Platone e da Aristotele, per cui nell’essere vivente è all’opera un quid che lo rende un tutto animato e che lo distingue da una macchina inanimata, fatta soltanto di pezzi. Quid che nell’organismo affetto da malattia si manifesta come potenza mirante al restauro della salute, come forza medicatrice della natura, e che in ogni essere vivente è rappresentato da quella che Platone chiama l’anima concupiscente e Aristotele la potenza vegetativa dell’anima, intesa l’anima come entelechia del corpo vivo.

Ma proseguiamo con il testo di Platone.

«Di tal genere, Carmide mio, è anche la formula d’incantamento. Ho potuto apprenderla al fronte da uno dei medici traci, discepoli di Zalmosside.... Zalmosside così si esprime: come non si deve cercar di curare gli occhi e lasciar stare il capo, né il capo senza l’intero organismo, così nemmeno il corpo senza l’anima. E questo è appunto il motivo per cui i medici in Grecia non arrivano a vincer tante forme di morbi: trascurano l’intero di cui bisogna tener conto. E se questo non va bene, è impossibile che anche la parte vada bene. Diceva che tutti i beni e tutti i mali, per il corpo e per l’uomo nella sua totalità, hanno origine dall’anima. Di là promanano; come dal capo sugli occhi. Bisogna insomma, prima e sopra ogni altra cosa, curare l’anima, se si desidera che il capo e il restante organismo possano andar come si deve».

Ecco dunque introdotto a completare il principio fondamentale olistico un altro principio altrettanto basilare in medicina: quello psico-somatico. Infatti il tutto organismico non comprende solo il corpo vivente ma anche la psiche che in esso si manifesta: corpo e anima insieme costituiscono l’intero.

È tema d’attualità da diversi decenni a questa parte la medicina psico-somatica, che però gli autori del nostro tempo definiscono in duplice modo: alcuni come sinonimo di scienza medica delle correlazioni tra psiche e soma, includendovi perciò anche gli effetti psichici da cause corporee; altri in accezione più ristretta come scienza medica solo degli effetti somatici da cause psichiche. La seconda maniera mi sembra caratterizzi meglio la medicina psico-somatica nella sua propria originalità, come punto di vista che s’aggiunge e integra il punto di vista consueto d’una medicina che s’occupa degli effetti esplicati dalle cause somatiche sia sul corpo che, per suo tramite, sull’anima.

Comunque nel brano platonico è la medicina psico-somatica nell’accezione più ristretta che viene messa in grande risalto, quando il medico di Tracia afferma che tutti i beni e tutti i mali, sia al corpo che alla totalità dell’uomo, provengono dalla psiche e che bisogna curare soprattutto l’anima. In altri termini quest’allievo di Zalmosside si dichiara sostenitore d’un’etiologia esclusivamente psicogena (usando il termine tecnico della scienza d’oggi) e d’una terapia se non esclusivamente psicogena almeno prevalentemente tale.

C’è da obiettare che un siffatto punto di vista, tanto nei confronti dell’etiologia morbosa quanto delle cure, è per lo meno unilaterale e perciò inferiore ai canoni della medicina pitagorico-ippocratica, la quale sapeva riconoscere anche tutta l’importanza delle cause e azioni materiali, sia nel determinismo delle malattie che della guarigione. Ma l’obiezione va piuttosto al medico trace, le cui parole Socrate riporta come tali. Quel che Socrate-Platone accetta da lui e si dimostra disposto a mettere in pratica nel caso di Carmide è il concetto generale della medicina psico-somatica, senza esclusivismi. Infatti a Carmide egli diceva che intendeva dargli una formula d’incantamento insieme con un farmaco vegetale e che la formula «metteva la medicina in condizioni d’agire con sicurezza»: proponeva cioè una cura coniugata farmacologico-psicoterapica, appresa da quel medico straniero.

D’altronde Platone riprenderà in esame nel Timeo, e questa volta non per incidenza, ma in trattazione sistematica, l’argomento della medicina. E darà la giusta parte sia alla medicina somatica che alla psico-somatica. Distinguerà, con veggente anticipazione delle odierne posizioni scientifiche, i morbi psichici che derivano da cause somatiche (cioè le malattie mentali fisiogene, come diciamo oggi) dai morbi psichici che derivano da cause psichiche, vale a dire da fatti psicologici legati ad esperienze di vita vissuta (cioè le malattie mentali psicogene), e terrà altresì distinte le malattie somatiche da cause psichiche, le quali formano appunto l’oggetto specifico dell’odierna medicina psico-somatica, dalle malattie somatiche dovute a influenze fisiche.

Il richiamo a Zalmosside, fatto nel Carmide, non è senza significato riguardo alle fonti delle conoscenze platoniche sulla medicina. La tradizione antica poneva Zalmosside in relazione con Pitagora, sia come maestro che come allievo. E sarà proprio nel dialogo pitagorico per eccellenza, nel Timeo, che Platone riprenderà, come si è detto, il tema della medicina. La quale in Platone discende dalla scaturigine pitagorica, sebbene non manchino certo in lui anche gli influssi del grande Ippocrate, come risulta da un’attenta lettura del capitolo sulle malattie somatiche fisiogene nel Timeo medesimo: d’Ippocrate ch’egli cita come medico per antonomasia nel Protagora, nel quale dialogo è di scena un omonimo del Saggio di Coos.

Il brano del Carmide chiarisce poi, togliendo ogni equivoco, quel dubbio e cancella quella stonatura che mi era sembrato di avvertire nella citazione trovata in epigrafe al trattato americano di medicina psico-somatica. Dall’insieme del contesto è ovvio che Platone non pensa certo a una sola realtà sostanziale dell’organismo, nella quale non si possano separare l’anima e il corpo, in quanto facce inscindibili, sebbene diverse, di cotesta unica realtà. Egli afferma invece che il medico deve tener presente quell’unità composita che è l’intero uomo vivente, costituita dall’unione delle due diverse realtà dell’anima e del corpo, associate durante la vita e interagenti; delle quali realtà la superiore, cioè l’anima, è preminente sull’inferiore, cioè sul corpo.

Torniamo alla pagina del Carmide.

«Aggiungeva inoltre (il medico di Tracia) che l’anima è medicabile soltanto per mezzo di talune formule d’incantamento; e che coteste formule sono i colloqui belli e profondi. Per essi, nell’anima viene a sorgere un’interiore temperata armonia. E quando questa sorge e regna nell’anima, facile è ormai procurar la salute al capo e al resto dell’organismo».

In queste righe è proposto il principio d’una psicoterapia diretta a suscitare armonia nell’anima. Ebbene l’odierna psicoanalisi, freudiana o di derivazione freudiana, la psicologia individuale di Adler, la psicologia dei complessi e degli archetipi dello Jung, la logoterapia di Frankl, la mia analisi olistica con armonizzazione psicagogica, a che altro scopo mirano, sia pure con tecniche tra loro diverse, se non a restaurare o instaurare mediante colloqui una «interiore temperata armonia» tra gli svariati istinti e tendenze dell’anima? I quali colloqui nella psicoanalisi ortodossa di Freud dovrebbero consistere prevalentemente in soliloqui del paziente, ma pur sempre sollecitati dalla presenza del medico, mentre nella psicoterapia dello Jung, o nell’analisi esistenzialista di Frankl chiamata proprio logoterapia, o nel mio metodo d’analisi e armonizzazione, essi comportano in gradi e modo diversi l’autentico dialogo.

Il medico di Tracia ribadiva quindi il suo precetto psicoterapico. «Quando poi m’insegnava l’uso del rimedio e delle formule, non mancava d’osservare: - Bada bene! nessuno mai ti persuada a curare il capo, senza offrirti prima il modo di medicar l’anima per mezzo della formula d’incantamento... Oh sì ! oggi l’errore più diffuso tra gli uomini è appunto di tal genere: esperimentar cure, come fanno alcuni medici, tenendo armonia interiore e salute l’una dall’altra distinte - Mi faceva anzi viva esortazione perché mai nessuno, fosse pur ricco nobile bello, non m’inducesse mai a deviare dal suo precetto. E io allora m’impegnai con un giuramento e debbo ora necessariamente dargli ascolto. Insomma seguirò la sua volontà. Perché, se vorrai obbedire ai precetti del mio amico straniero e vorrai offrirmi l’anima tua per farne incantamento con le formule dell’uomo di Tracia, allora userò pel tuo capo il rimedio opportuno».

E Crizia, ch’era stato a sentire, commentava: «Sarebbe un vero guadagno per il ragazzo questa cefalea! Esser costretto a diventar migliore interiormente per guarire il mal di testa!».

L’accenno al giuramento rivela di scorcio tutta la serietà dell’impegno di fronte alla medicina: il Socrate-Platone del Carmide si palesa nell’occasione un autentico medico-filosofo,[3] alla stregua d’un Ippocrate, anche se in questo l’accento cade evidentemente sulla medicina e in quello sulla filosofia.

La denuncia dell’errore di tener disgiunte nella cura l’armonia interiore e la salute evoca nuovamente insegnamenti assai remoti, che, al di là del concetto ippocratico intorno alla salute intesa come eucrasia, cioè come giusto miscuglio d’umori, e intorno alla malattia come discrasia, cioè sproporzionata mescolanza, risalgono alla pitagorica dottrina dell’armonia e in particolare alla concezione medica del crotoniate Alcmeone; il quale considerava la salute come isonomia vale a dire come equilibrio e giusta proporzione delle forze organismiche, ivi comprese le facoltà e potenze psichiche, e la malattia come monarchia, intesa quale prevalenza di una sola forza e perciò squilibrio, disordine.

Anche a proposito di psicoterapia il legame parentale è dunque con quel medesimo pitagorismo, scientifico e mistico insieme, i cui influssi su Platone si faranno poi sempre più manifesti dal Fedone al Politico al Timeo.

Un nuovo accenno a Zalmosside e un richiamo al mitico Abaride, il quale è anch’egli in rapporto con l’iniziazione pitagorica, riconfermano la tesi. Dice Socrate a Carmide: «Se esiste in te questa sanità d’armonia e questa sapiente temperanza, come afferma, qui, Crizia; e se davvero temperato è il tuo carattere, non hai certo bisogno delle formule d’incantamento di Zalmosside e di Abaride l’Iperboreo. Senz’altro ti posso proporre la medicina per il capo».

Ed è anche per questo implicito contenuto pitagorico che la pagina platonica del Carmide si fa tanto presaga di modernità nei confronti della scienza novecentesca, la quale non certo nella sola medicina, ma soprattutto nella fisica e altresì nella biologia e psicologia, palesa atteggiamenti e occupa posizioni, che si possono chiamare pitagoriche; quasi la nostra scienza avesse ritrovato sul triplice sentiero di physis bios psyché le orme dell’antico maestro dei numeri e dell’armonia, che sapeva guarire i malati con i farmaci, quali la scilla, e con le parole e la musica.

L’argomento della medicina non s’esaurisce però, nel Carmide, con i brani che ho riportati e commentati.».

Dunque un’arte basata sulla scienza! tale è la medicina per Platone. Oggigiorno non possiamo che sottoscrivere.

 

Nota: Beppino Disertori che ho conosciuto personalmente era un eccellente pitagorico. Consiglio la lettura del presente articolo per attingere alla fonte della pura sapienza pitagorica; l’immagine di Pitagora, scultura su legno di Remo Wolf su riprodotta, proviene dal rarissimo libro di Beppino Disertori, Itinerari Pitagorici, Trento. (mystes)

 

 

 

 

 

 



[1] L’approccio olistico prevede una visione della salute unificante che comprende tutte le parti dell’essere umano: corpo, mente e spirito.

[2] Se la pandemia da coronavirus fosse stata affrontata con una visione olistica non avremmo assistito a tutte le aberrazioni e alle violenze fisiche e morali messe in atto da governi e privati cittadini.

[3] Diventa inevitabile e necessario qui un accenno al bellissimo testo di Giuliano Kremmerz sulla terapeutica ermetica.

 

La purificazione

Giuliano Kremmerz, in numerosi passaggi della “Scienza dei Magi” scrive commenta ed insiste in forma perentoria, ma ritualmente saggia ed esemplare, sulla necessità della “purificazione”.

L’obbligo rituale della “purificazione” ha degli antenati notevolissimi negli antichi esercizi spirituali praticati dai filosofi nelle diverse scuole che da Atene a Crotone, la prima sede dell’Accademia, la seconda sede della Schola Italica, si diffusero nel mondo antico.

Questa cosiddetta “parentela” tra le diverse scuole di diversa origine e provenienza deve far riflettere gli aderenti a una Scuola come quella Ermetica, visto che paternità e maternità degli insegnamenti e delle idee, nonché del loro apprendimento ed esecuzione, sono alla base di una corretta realizzazione spirituale.

È un assunto molto serio e non facile da trattare specie in un’epoca come la presente che ha relegato la purificazione, nella migliore delle circostanze, in un degradante livello religioso, quando nella spiritualità e nella religiosità pagana aveva assunto una posizione di altissimo valore e non semplicemente morale, ma essenzialmente e profondamente filosofico e iniziatico.

A sostegno di quanto dico, cito qui un brano di uno scritto tratto dall’opera di Erwin Rhode su Platone: “La «purificazione» per mezzo della quale l’anima si libera dalla deformazione che ha subìto in questa vita terrena, rimette nella sua vera luce ciò che v’ha di divino nell’uomo. Il vero filosofo si è reso già sulla terra immortale e divino; finché può tenersi ad una conoscenza puramente razionale e allo scrutamento dell’Eterno egli vive già qui «nelle isole dei beati». Spogliandosi di tutto ciò che è corruttibile e mortale egli deve divenire in sé sempre più «simile alla divinità», per poter entrare, dopo la liberazione suprema della sua anima dall’esistenza terrena, in ciò che è divino, invisibile, puro, sempre uguale a sé stesso, per poter essere sempre, spirito incorporeo, presso al suo affine. Qui la lingua, che s’esprime solo per immagini sensibili, ricusa il suo aiuto. È posta all’anima una mèta al di là di tutto ciò che è sensibile fuori dello spazio e del tempo, ch’è senza passato e senza futuro: un eterno presente.”.

Imposto al neofito era appunto questo mondarsi delle coscienze aspiranti alla luce da ogni volgare suggestione. Le feste termoforie istituite da Cerere in Grecia prevedevano la preparazione o ritorno alla innocenza. La purificazione spoglia la mente del neofito da tutte le bende delle analitiche ricerche e lo avvia verso il perfetto lume della sintesi. La purificazione di cui tutti gli ordini sacerdotali hanno memoria, è lo stato di ritorno alla primitiva e perfetta innocenza. Mente-anima-corpo, si devono spogliare delle impurità succhiate col latte e prese in contatto con la vita sociale.

E Giuliano Kremmerz, nel suo stile magistrale, denso di insegnamenti, ammonisce; “La preghiera, la castità, i digiuni, sfrondandoli di ogni idea mistica, contribuiscono ad affrancare gradualmente il corpo lunare dalle impressioni sensorie provenienti dal corpo saturniano. E ciò non perché le impressioni sensorie non vengano dal lunare più registrate in arrivo, ma pel fatto che alla ricezione di esse più non risponde una inquietante risonanza affettiva o emotiva. Con la conquista di tale stato di libertà, il nostro corpo lunare purificato non sarà più l’eterno campo di battaglia fra azioni e reazioni, e diverrà solo allora possibile cominciare a intendere la «voce interiore» che parla oggi inascoltata in ognuno di noi”. (Giuliano Kremmerz, La Scienza dei Magi, Mediteranee, Roma).

Ed Arturo Reghini, nel suo stile italico, di filosofo pitagorico, chiaro ed incisivo  spiega cos’è la purificazione: “La purificazione di cui parla Platone nel “Fedone” è la catarsi che constava cerimonialmente di semplici pratiche esteriori, ed in realtà aveva un carattere fisiologico trascendente, senza preoccupazioni moralistiche, e consisteva nel “superare e rimuovere l’anima quanto si può dal corpo, e assuefarla a raccogliersi in sé medesima, e rimanere sola, sciolta dai vincoli di esso, per il tempo presente e futuro” (Fedone, XII). “Ed a scioglierla, molto adoperano a ogni ora quelli soli che filosofeggiano dirittamente, ossia quelli che intendono a morire. Pochi erano dunque coloro che potevano dirsi Bacchi, perché identificatisi con Dioniso-Zagreo per mezzo dell’iniziazione; ed a questi pochi era riserbata la epopteia effettiva che era raffigurata e velata dalle cerimonie del dramma mistico.”

“La preliminare purificazione interiore, in pratica, non si effettua senza un’esperta guida. Occorre a Dante la sapienza di Virgilio, che di servo lo trae a libertade, e lo conduce sino alla catarsi del paradiso terrestre da cui esce rinnovellato di novella fronda, puro e disposto a salire le stelle; ed occorre poi altrettanta sapienza per arrivare a dislegare l’anima sua da ogni nube di mortalità. Questa è la funzione dell’Hermes Psicopompo, di Tot Trismegisto. Occorre dunque un maestro e benché la selva sia oggi non meno aspra, selvaggia e forte di quanto fosse al tempo di Dante, pure noi riteniamo che il pellegrino che vi si smarrisca possa e debba ancor oggi rinvenirvi il suo Virgilio.”

“Come si proceda a questa purificazione ed alla resurrezione è stato esposto, facendo astrazione da ogni scuola, credenza ed allegoria, nel capitolo La resurrezione iniziatica e quella cerimoniale del nostro libro Le parole sacre di passo. In esso è riportato un documento intitolato: La prattica dell‘estesi filosofica, attribuita a Tommaso Campanella, che prescrive e descrive precisa ed esplicita tutta l’operazione.”

“Quest’opera di purificazione e la successiva pratica dell’estasi filosofica (v. Tommaso Campanella, La prattica dell’estasi filosofica) occorre che siano condotte con lo stesso spirito di impersonalità, colla stessa freddezza scientifica con cui si può procedere ad una lunga preparazione in un laboratorio di fisica. Si tratta di ottenere la propria indipendenza dall’istinto, dai pregiudizi, dai sentimenti; non di conformare sé stessi ad un modello di perfezione secondo una determinata morale. Non si tratta di diventare l’uomo perfetto, ma di transumanare. La morale fa parte delle consuetudini, dei pregiudizi, della mentalità della razza o del paese, e non bisogna essere schiavi di essa. La catarsi era presso i greci ed i latini una funzione puramente rituale; la sua degenerazione in purificazione morale, dal punto di vista tecnico della palingenesi, è un errore.”

“Altro errore quello di credere che sia conveniente mortificare, macerare la carne; se bastasse digiunare, astenersi dal mangiare cadaveri e dal bere alcoolici per avviarsi sulla strada della iniziazione, se bastasse togliere il vigore al corpo per acquistare una condizione di coscienza superiore, una carestia dovrebbe dare la stura a migliaia di iniziati. Mentre invece è giusto l’opposto che occorre fare; perché la pratica dell’estasi filosofica, il cui aspetto negativo consiste nell’astenersi dal pensare, ha un lato positivo che richiede un grande dispendio di energia, e dura tanto che pur dedicandole quotidianamente solo quel massimo di tempo che si è in grado di sostenere, finisce coll’esaurire le forze; ed è perciò necessaria la buona salute del corpo e non il deperimento o la fiacchezza.”

Riferimenti: Arturo Reghini, Le parole sacre e di passo, Roma, 1924

Ro Se

 

 

Il mistero della spirale

Scrive Arturo Reghini in “Trascendenza di Spazio e Tempo”: “Per conto nostro non ci è possibile dimenticare l’esperienza veramente eccezionale di cui avemmo la ventura di essere fatti partecipi circa quindici anni or sono. Un iniziato, che designeremo con le iniziali A. A., preso un foglio di carta, vi disegnò sopra una spirale ed accanto ad essa la spirale simmetrica (l’una destrorsa, l’altra sinistrorsa), e poi ci chiese se riuscivamo a concepirne delle altre di altra natura. Rispondemmo naturalmente di no. Ebbene, egli disse: guarda. Guardammo, e la nostra mente vide due altre spirali distinte tra loro e dalle precedenti, come la destrorsa lo era dalla sinistrorsa. Fu un lampo. Per quanto abbiamo cercato, dopo, di riafferrare o di richiamare alia memoria questa visione trascendentale (o se proprio si ritiene vantaggioso di chiamarla cosi, questa allucinazione), non siamo mai riusciti a riportare alia nostra coscienza quello di cui aveva riconosciuto l’evidenza, la naturalezza e la indiscutibilità. Alia nostra richiesta di una seconda rappresentazione, A.A. rispose bastava avere avuto una volta nella vita tale esperienza. Quanto abbiam raccontato, naturalmente, accadde essendo noi perfettamente svegli, sani, a posto, tranquillissimi e in piena vita “normale”. (Arturo Reghini, Paganesimo, Pitagorismo, Massoneria, Messina, 1986).

Scrive Platone “…avviene che l’intuizione e l’intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi che può fare un uomo”. (Lettera VII 341, cd – 344, b c).

Ebbene, quanti e quali sacrifici o meglio quale percorso accidentato abbia dovuto battere Arturo Reghini per giungere all’intuizione e ad intelligere la visione della “spirale” lo abbiamo scritt ne “Il figlio del Sole”, dove abbiamo raccontato la Vita e le Opere del matematico e filosofo pitagorico. (v. Il figlio del sole https://www.amazon.it/dp/1080719105 )

Vediamo adesso di fare un piccolo passo avanti. Non sarà facile e per poterlo fare occorrerebbe possedere se non tutta parte della conoscenza iniziatica dei Maestri. ARA, in una sua celebre Massima (v. Amedeo Armentano, Massime di Scienza Iniziatica, Ancona:  https://www.amazon.it/dp/1081198117 ) ci ha assicurati che è possibile “conoscere” e che per giungere alla sintesi occorre partire dall’analisi. Ossia le cose si manifestano in maniera composta e dal composto si risale all’unità del semplice.

La “risalita” è un’operazione che l’anima può realizzare anche in vita benché si compia in maniera definitiva solo al momento della “separazione” dal corpo materiale, ossia al momento della cessazione della vita. Ed è lo stesso Reghini a ricordarci che l’esperienza può essere fatta “anche” in vita. Esperienza e conoscenza sono inseparabili, “la conoscenza è data dall’esperienza; ed ognuno possiede conoscenza delle cose in proporzione della sua diretta esperienza. Perciò le credenze e le opinioni dei profani dal punto di vista della conoscenza si equivalgono. Credere o pensare la verità non vale molto di più che credere o pensare il falso; perché non si tratta né di credere, né di pensare; ma di conoscere. Una fede vale l’altra, una teoria vale l’altra, la conoscenza è unica,” (op. cit.)

In poche parole conoscere significa, in via prioritaria, aver fatto l’esperienza gnoseologica dell’unità. Ed è qui che le menti e le teorie di molte celebrità della parola scritta sono naufragate sugli ignoti scogli di un periglioso mare.

Nella lunga storia della conoscenza umana sono poche le menti metafisiche che hanno rasentato il vero, a mio vedere si contano sulle dita di UNA mano.

Non pretendo infine di dare una spiegazione su ciò che Reghini si limitava a descrivere come l’esperienza simile a “un lampo” e quindi impossibile da fissare ed esplicare. Quel che è più sorprendente è che il “basta una sola volta” di Armentano è alquanto simile al “non nutrite più speranza” dantesco dal momento che la ricerca dell’“essenza” è più che difficile, è quasi impossibile. Ed è impossibile perché nell’ “essenza” si occulta il mistero della vita e della morte.

Di fronte a questo mistero sia ARA sia Reghini arrestarono il primo la parola, il secondo la curiosità.

Anche se avessimo avuto la grazia di una illuminazione, non sapremmo che parole impiegare sul mistero della vita e della morte, confessiamo la nostra ignoranza, ma leggiamo sempre con passione ed interesse i grandi trattati filosofici che si occuparono dell’argomento.

Infime vogliamo concludere con ciò che diceva Platone sullo stesso argomento (l’unico che ci sembra aver parlato con prudenza scienza e sapienza) in alcune frasi del celebre dialogo del Fedone:

“…credi tu che si conosce la realtà in sé delle cose per mezzo dei sensi del corpo, - chiede Socrate - oppure reputi che colui il quale si propone di conoscere il vero per mezzo dell’attività pura della ragione si avvicinerà più di ogni altro alla perfetta conoscenza di esso? E a questa perfetta conoscenza può pervenire soltanto colui che alla verità si volge con la sola mente, e non sorregge la sua ragione con alcun senso del corpo, ma solo in sé e puro, con la mente pura, cerca di attingere il vero, astraendosi, più che sia possibile, dagli occhi, dagli orecchi, dal corpo tutto, poiché questo sconvolge l’anima e non le permette di acquistare verità e sapienza.”

Socrate conclude con questa solenne dichiarazione: “Pare che ci sia come un sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto estraneo, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si ammala, nuovi impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È ancora il corpo che ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di immaginazioni, di vanità infinite, per cui non ci riesce di fermare il pensiero su cosa alcuna finché siamo in sua balìa. […] Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad essere liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa, ecco che d’un tratto (il corpo) si pianta nel mezzo della nostra meditazione e tutto turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non siamo più in grado di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato che, se noi vogliamo pervenire alla visione pura del vero, dobbiamo distaccarci dal corpo e contemplare le verità con la sola anima.”

Ro Se


Il simbolismo dei numeri

Compendio metafisico

 

Il numero due nasce per partecipazione della dualità: noi sappiamo cosa è il due perché ce lo spiega chiaramente l’aritmetica, il due è il risultato di un’addizione, uno più uno, e la dimostrazione fatta con l’uso del pallottoliere ci mostra una pallina accanto a un’altra pallina, l'unione viene definita simbolicamente con la parola “due”.

Tale rappresentazione però va al di là della semplice aritmetica, interessa la dialettica, entra nel dominio della scienza naturale e contiene un simbolismo, perché a partire da Pitagora all’unione di sassolini sulla spiaggia del mar Jonio in Calabria, fu dato un certo nome, due, tre, quattro ecc. e questa attribuzione di un nome non è altro che una convenzione simbolica, in quanto dire due, tre o quattro serve unicamente a far risvegliare nella mostra mente una certa relazione tra la pronuncia di detto nome e il corrispondente simbolo grafico.

Se diciamo quattro, noi sappiamo in partenza cosa vogliamo dire e a cosa ci riferiamo, la nostra intelligenza rappresenta mentalmente e graficamente il numero quattro, o tradizionalmente ci mostra i quattro sassolini sulla spiaggia posti uno accanto all’altro, ma se diciamo un milione, che è costituito non solo simbolicamente da un insieme molto grande di sassolini, ci domandiamo: per quale motivo la nostra mente balbetta e non è in condizione di tracciare una immagine e ottenere una rappresentazione? Bene che vada, se si tratta di una persona erudita, concepisce quella  cifra con i fatidici sei zeri posti accanto al numero. Bene che vada! Tutto ciò dimostra una cosa sola: che la mente umana è molto limitata. E che nel migliore dei casi la memoria dell’uomo quando viene esercitata può toccare livelli molto elevati, ma non tutti i livelli.

E quindi, procedendo con il ragionamento mi chiedo: in che modo l’uomo può concepire o rappresentare la sua anima? Ammesso naturalmente e in via prioritaria, che sia convinto di due cose: che l’anima (e quindi anche la sua anima) esista e non solo che esista ma che sia immortale.

Visto che l’uomo ha molte difficoltà nella conoscenza della legge dei numeri, la cui scienza regola e spiega numerosi segreti della vita in generale e della vita dello stesso uomo, in che modo l'uomo pretende o come crede di potersi muovere tra le leggi che disciplinano la vita, la morte la sopravvivenza e l’immortalità dell’anima?

Proseguo con altre domande: è l’uomo in condizione di attribuire un numero a quei tre grandi misteri che vennero definiti vita, morte, anima?

È un caso che Pitagora, il più grande di tutti i maestri e da tutti riconosciuti come il più grande, non scrisse trattati filosofici, ma si limitò ad insegnare agli alunni della Schola Italica le leggi dell’aritmetica?

Cosa in realtà si nascondeva dietro il semplice uso di un pallottoliere, o dietro la grafia di segni che videro la nascita dei numeri, nella Schola di Crotone?

Tante volte mi sono chiesto il perché una grande mente come quella di Arturo Reghini espresse il meglio delle sue capacità, in un’opera difficile e colossale come quella “Dei Numeri Pitagorici” ( https://www.amazon.it/dp/B084DFY5MV )e alla quale solo una limitatissima schiera di lettori e di studiosi è in condizione di accedere.

Qualche bene informato potrebbe anche dirmi che Reghini si prodigò con altrettanta energia e sapienza nelle due riviste da lui dirette: Atanòr e Ignis.

Si, è vero, ma la somma di conoscenze e di energie profuse, considerato che Reghini continuò a dedicarsi alla sua opera di matematica negli ultimi anni della sua vita a Budrio, dove si era rifugiato durante la guerra, fu molto alta a favore dell’opera sui numeri aritmetici e geometrici. Reghini non era l’uomo che faceva le cose a casaccio e tutto ciò, secondo me, sulla base della mia conoscenza degli scritti di Reghini,sta tuttora alla base di un mistero. Probabilmente questo mistero ne occulta uno ancora più grande. (Vedi: Roberto Sestito, Il figlio del sole: vedi: https://www.amazon.it/dp/1080719105 )

Ritorno quindi all’assunto di partenza: se Pitagora profuse la sua scienza e la sua filosofia nei numeri rappresentandoli graficamente nella sua Scuola di Crotone, in che modo il pitagorico Reghini ha voluto insegnarci la scienza dell’anima attraverso i numeri?

Non ho la pretesa di rispondere in maniera esauriente a questa domanda: ma qualche accenno si può fare.

L’uno partecipa dell’unità, come il due della dualità, il tre della triade e così via dicendo. Noi abbiamo appreso fin dalle scuole elementari le nozioni basiche dell’aritmetica, ma nessuno ci ha mai spiegato cosa è l’UNO, cosa significa UNO, cosa vuol dire e a che cosa si riferiscono “i numeri interi considerati dall’aritmetica pitagorica (che) sono stati fatti da Dio mentre il resto è opera dell’uomo” come afferma categoricamente Reghini. Indagare quindi la proprietà dei numeri interi è addentrarsi nell’abisso dell’interiorità dell’Essere ossia, come scrive sempre Reghini nel “Simbolismo e Filologia” in quell’essere “che è limitato nella sua unicità. L’unità è unica senza altro né altri. La dualità e la molteplicità sono apparenze che non distruggono l’unicità dell’Essere”.

In parole più contenute l’Uno è l’Essere e nell’Essere si occulta il grande mistero della vita e della morte.

(ro se)

 

 

L’ultimo racconto di Socrate

 

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,

qual si fé Glauco nel gustar de l'erba

che'l fé consorto in mar de li altri dèi.

Dante, Paradiso, I, 67-69

 

Ciò che un uomo ha da dire nelle ultime ore della sua vita merita attenzione, tanto più se quell’uomo è Socrate che, in car­cere, attende la morte conversando con amici pitagorici. Si è già lasciato alle spalle il mondo, il testamento filosofico l'ha già fatto: ora è in quieta comunione con la sua verità. È, questa, la chiusa del Fedone (107 d-115 a) ed è espressa in forma dì mito. Parrà strano, ma innumerevoli commentatori non si sono presi la briga dì analizzarla a fondo, accontentandosi di estrarne qual­che pia affermazione generale sulle ricompense che attendano l'anima. Eppure si tratta di un esposto meditato e complesso, attribuito a un’autorità che Socrate (o Platone) preferisce non nominare e rivestito di una curiosa veste fisica. Vale la pena di accettare il suggerimento di Platone di prestarvi la dovuta at­tenzione. Socrate sta entrando quietamente nel mondo di là, ne è già un abitante, e le sue parole rappresentano, per così dire, un rito di passaggio:

«“E si dice così: che dunque, appena uno cessa di vivere, il suo demone, quello die lo ha avuto in sorte durante la vita, prende a menarlo in un certo luogo; quando poi, quelli che so­no stati ivi radunati, sì siano lasciati giudicare, allora bisogna che di lì passino nell'Ade, e per guida hanno appunto colui al quale è stato assegnato di condurre le anime da codesto luogo nell'Ade. E dopo subita colà quella sorte che debbono subire e aspettato quel tempo che devono aspettare, un'altra guida gli riconduce qua; e questo avviene entro molti e lunghi periodi di tempo. E la strada non è come dice il Telefo di Eschilei

...semplice via conduce all’Ade,

dice colui; e invece a me pare che non sia né semplice né una sola; altrimenti non bisognerebbero guide; né alcuno mai sba­glierebbe per andare in alcun luogo se la strada fosse una sola. In realtà pare ci siano diramazioni e biforcazioni parecchie; e dico questo argomentandolo dai sacrifici e dalle cerimonie che usano qui. Dunque, l'anima buona e intelligente segue il suo demone, o non ignora la sua sorte e condizione presente; ma quella che è tuttavia desiderosa del corpo, come già dissi prima, per lungo tempo è conturbata e agitata dalla passione di quello e della regione visibile; e alla fine, dopo molto lottare e molto patire, trascinata a forza e a stento dal demone che le fu asse­gnato, se ne va via. E, giunta dove sono le altre, l'anima impura e che ha commesso qualche cosa di impuro o perché si sia con­taminata -di uccisioni inique o abbia compiuto altre male azioni sorelle a queste e di anime sorelle; quest’anima, dico, ognuno la fugge e la cansa, e nessuno le vuol essere compagno e guida, e tutta sola se ne va errando in gran pena e incertezza fino a che non siano trascorsi quei certi periodi di tempo dopo i quali per forza è menata via alla sede che le spetta. Invece, l'anima che ha trascorsa la propria vita con purità e temperanza, trovati a com­pagni e guide degli dèi, ecco che sùbito se ne va ad abitare ognu­na nel Luogo che le conviene. Vi sono poi nella terra molti e mirabili luoghi; ed essa stessa la terra, secondo che un tale riuscì a persuadermi, non è né così fatta né così piccola com’è rite­nuta da coloro che ne sogliono ragionare”,

«E Simmia:"Che cosa vuoi dire, “disse” o Socrate, con que­sto? Perché veramente della terra anch’io ho sentito parlare più volte; non però al modo che persuade te. E perciò ascolterei volentieri

«"Ma ai, o S inuma; né credo ci voglia arte di Glauco a espor- ti le cose come io me le figuro, Piuttosto, dimostrare che sono vere, questo mi pare più difficile che se avessi l’arte di Glauco; oltre che, forse, nemmeno sarei capace; e, anche se fossi, la vita che mi rimane, caro Simmia, non credo basterebbe alla lunghez­za della dimostrazione. In ogni modo, dirti la forma della terra quale io ho potuto immaginarmi che sia, e i suoi luoghi, non ho nessuna difficoltà

«“Bene, “disse Simmia” anche codesto mi basta.

«”Io dunque, diss’egli, anzi tutto mi sono persuaso di que­sto, che se la terra è collocata nel mezzo dell’universo ed è sfe­rica ella non ha bisogno, per non cadere, né di aria né di alcun altro appoggio dì tal genere, essendo sufficiente a sostenerla il fatto che l’universo è tutto eguale da ogni pane a se stesso e che la terra è per se stessa perfettamente equilibrata. Infatti, una cosa equilibrata, posta nel mezzo di un’altra che sia eguale a se stessa, non potrà mai inclinarsi né un po’ più né un po’ meno <1a nessuna parte; e, trovandosi sempre in una condizione di perfetta eguaglianza, rimarrà ferma al suo posto senza veruna inclinazione. Anzi tutto, dunque, ” egli disse " io mi sono per­suaso di questo

« “ E con ragione” risponde Simmia.

« " Inoltre, ” disse “ credo che la terra sia qualche cosa di mol­to grande per se stessa, e che noi, dal Fast alle colonne di tracie, abitiamo soltanto una sua piccola parte; e abitiamo intorno al mare Mediterraneo come formiche o rane intorno a una palude; e altra gente molta abita altrove in molti altri luoghi simili a questo. Perché vi sono da ogni parte intorno alla terra molte cavità, e diversissime l'una dall’altra così di forma come di gran­dezza, nelle quali confluiscono insieme l’acqua la nebbia e l'aria: ma essa la vera terra si libra pura nel cielo puro dove sono le stelle, il quale la più parte di coloro che si occupano di queste cose chiamano etere; e l'acqua la nebbia e l’aria sono un sedi­mento di questo ètere, e insieme si riversano continuamente nel­le cavità della terra. Ora, noi che abitiamo queste cavità, non ce ne accorgiamo, c crediamo di abitare in alto sopra la terra: allo stesso modo di imo il quale, abitando in mezzo alla profon­dità del mare, s’immaginasse di abitare su la superficie, c veden­do, attraverso l’acqua, il sole e le altre stelle, credesse cielo il mare; e non essendo mai giunto, per sua inerzia e debolezza, su la superficie del mare, non avesse mai osservato, come avrebbe potuto emergendo dal mare e levando su il capo verso le regioni che abitiamo noi, di quanto queste sono più pure e più belle di quelle dì chi abita nel mare, e non ne avesse mai neanche sentito parlare da altri che le avesse vedute. Ebbene, anche a noi, credo, è capitato precisamente lo stesso: ché, mentre abitia­mo in una cavità della terra, crediamo di abitare in alto sopra rii essa; e l'aria la chiamiamo cielo perché ci pare che attraverso questa, quasi fosse cielo, facciano lor cammino le stelle. Ed è, ripeto, proprio la stessa cosa: anche noi, per nostra debolezza e inerzia, non siamo capaci di passare attraverso l’aria fino alla sua sommità; e infatti, se uno riuscisse a spingersi fin su all’estremo lembo dell’aria, o, messe le ali, vi giungesse volando; colui ve­drebbe, levando il capo fuori dell’aria, allo stesso modo che qui da noi i pesci levando il capo fuori del mare vedono le cose no­stre, così vedrebbe anche le cose di lassù; e se la natura sua fosse capace di sostenere codesta visione, riconoscerebbe che quello è il vero cielo, quella la vera luce e la vera terra. E in verità que­sta terra nostra e le pietre e tutta quanta la regione che noi abi­tiamo, sono guaste e corrose come le regioni di dentro il mare sono guaste e corrose dalla salsedine; e nel mare non nasce cosa alcuna che abbia pregio, e nulla v’è, diciamo pure, che sia perfetto, bensì vi sono scoscendimenti e sabbie e fango senza fine, e pantani dovunque sia anche terra, cose insomma che neppure sono da mettere a confronto con le bellezze dì qui; e a loro volta le bellezze di lassù anche meglio dovranno apparire dì gran lun­ga superiori a queste nostre di qui. Dunque, o Simmia, se anche dire una favola è bello, vai bene la pena che tu ascolti come sia­no le cose sopra la terra sùbito al di sotto del cielo ",

«Ma certo, - rispose Simmia - noi avremo gran piacere di ascoltare questa favola, o Socrate.

«Anzi tutto dunque, o amico, egli riprese, dicono questo, che la vera terra, chi la guardi dal l’alto ha l'aspetto delle nostre palle di cuoio a dodici pezzi, iridescente, e come intarsiata di diversi colori; e di codesti colori perfino quelli che adoprano i pittori qui da noi sono immagini appena. E tutta quanta la terra lassù è colorata di colorì siffatti, c assai più rilucenti e più puri di questi di qui; e parte infatti è porporina, di meravigliosa bel­lezza, parte ha lo splendore dell’oro, parte, tutta quella ch’è bianca, è più bianca del gesso e della neve; e così dico di tutti gli altri colori che la colorano nel rimanente, che sono anche di più e più belli di quanti mai noi ne abbiamo veduti. E le stesse cavità della terra, ripiene come sono di acqua e di aria, presen­tano lassù un loro colorito particolare: cosicché, rilucendo ancor esse tra mezzo la iridescente varietà di tutti gli altri colori, la superficie della terra apparisce alla vista come un’unica ininter­rotta iridescenza. Analogamente a questo suo aspetto crescono ivi i suoi prodotti, e alberi e fiori e i lor frutti; e così medesima­mente le montagne e le pietre vi sono levigate e trasparenti, c quindi i loro colori hanno più vivo splendore; e di codeste pie­tre e montagne anche quelle petruzze che qui da noi hanno sì gran pregio non sono che frammenti, sarde diaspri smeraldi e altre simili; e insomma non c’è niente lassù che non sia della stessa vista di queste nostre gemme e anche più bello di queste. E la ragione è che lassù codeste pietre sono pure, e non rose né guaste, come queste di qui, da putredine e da salsedine a cagio­ne dei sedimenti che qui confluiscono e posano, e che alle pietre e alla terra, come pure agli animali e alle piante, ingenerano deformità e malattie. La terra medesima riceve bellezza da tutti questi ornamenti, come anche dall’oro e dall’argento e da tutti gli altri metalli di simil genere: tanto più che quivi, per loro propria e naturale disposizione, si vedono allo scoperto, e ce n'è gran quantità, e sono grandi e disseminati da ogni parte: cosic­ché a mirarla codesta terra è davvero uno spettacolo di spettatori beati. E vi sono esseri viventi c molti e di specie diverse, e anche uomini; e gli uomini abitano alcuni verso l’interno della terra, altri su le rive dell'aria come noi su le rive del mare, altri in isole non lontane dal continente e circondate tutt’intorno dall’aria; e, in una parola, ciò che per noi, cioè, dico, per la consuetudine nostra, è l’acqua e il mare, per quelli di lassù è l’aria, e dò che per noi è l’aria, per costoro è l’ètere. E le stagioni hanno ivi tal temperanza che non vi sono ammalati; e gli uomini non salo vi campano assai più tempo che qui, ma anche, per la finezza della vista dell’udito dell'intelligenza e in genere di tutte le altre fa­coltà, sono alla stessa distanza da noi che la purezza dell’aria dal­la purezza del l’acqua e la purezza dell'ètere da quella dell’aria. E inoltre vi sono boschi sacri agli dèi e templi dove gli dèi abi­tano realmente; e vi sono oracoli e divinazioni e contatti diretti con gli dèi, e insomma personali comunioni di essi stessi gli uo­mini con essi stessi gli dèi, E anche il sole la luna e le stelle si veggono da codesti uomini direttamente quali sono in realtà; e così essi godono di ogni altra beatitudine che è conseguenza del­le cose sopra dette.

«Dicono dunque che la terra nel suo insieme sia cosi, e così siano le cose intorno alla sua superficie. Dentro di essa poi, tut­t’intorno, e in corrispondenza alle sue cavità, sono molte regio­ni, alcune più profonde e più aperte di questa che abitiamo noi, altre più profonde ma con minore apertura; e ce n'è di quelle che hanno minore profondità di questa nostra e sono più estese. Tutte queste regioni sono perforate in più parti da sotterratici ora più stretti ora più larghi che comunicano fra loro; e vi Mino appunto vie di comunicazione dove scorre molta acqua da una regione all’altra come da un bacino in altro bacino; e vi sono sotto la terra smisurate masse di fiumi perenni e di acque calde e fredde, e molto fuoco, e grandi fiumi dì fuoco, e molti anche di liquido fango, ora più chiaro ora più limaccioso, come in Sicilia quei fiumi di fango che scorrono davanti la lava, ed essa stessa la lava. E di codesti fiumi si empiono via via tutte le regio­ni, secondo che in ogni regione si riversi via via il flutto delle correnti. E tutte queste acque le agita in su e in giù come una specie di altalena che è dentro la terra. E questa altalena c do­vuta, io credo, a questa cagione. Una delle voragini della terra, oltre che fra tutte le altre grandissima, anche attraversa la terra tutta quanta da una estremità all’altra; ed è quella voragine di cui parla Omero quando dice

lungi, sotterra, dove profondissimo un baratro s'apre

e che anche altrove Omero e molti altri poeti hanno chiamata Tartaro. Di fatti in questa voragine confluiscono tutti i fiumi, e da questa di nuovo tutti quanti refluiscono fuori; c ognuno di questi fiumi diviene di volta in volta della stessa natura della terra in cui si trova a scorrere. Ora, la cagione di siffatto confluire e refluire di tutte le fiumane dal Tartaro è questa, che laggiù tutto questo umore non ha né fondo né base; e quindi oscilla e ondeggia in su e in giù, e anche l’aere e il fiato die gli sono d’attorno fanno lo stesso, perché sono tratti a seguirlo sia quando si spinge verso le regioni della terra che sono dalla parte di là, sia quando sì spinge verso le regioni di qua: e, come ac­cade di chi respira che il fiato sempre va e viene fluendo senza interruzione, così anche là questo fiato che oscilla insieme con l’umore produce venti terribili e sterminati entrando e uscendo. Quando dunque la massa d’acqua si ritrae verso la regione che la gente, come sai, chiama giù in basso, ecco che si riversa attra­verso la terra in que’ luoghi lungo le correnti che sono da quella parte, e le riempie come riempiono lor Canali quelli che attingono acqua; e quando poi recede di là e rompe dalla parte no­stra, allora empie le fiumane che sono di qua; e queste, come quelle, riempite, scorrono per i lor condotti attraverso la terra, e, giunte in quei luoghi ai quali ognuna s’è aperta la sua via, formano mari e laghi e fiumi e fonti; e poi di nuovamente si sprofondano giù sotto la terra, et dopo aver percorso, quale re­gioni più estese e di più quale meno estese e di meno, si river­sano di nuovo nel Tartaro, alcune molto più giù del punto da cui l’impeto dell’altalena te sospinse in alto, altre meno, ma tutte sboccano in un punto più basso di quello da cui sgorga­rono; e ce n'è che sboccano dalla parte opposta a quella da taxi ruppero fuori, altre dalla stessa parte; e ce n’è di quelle che, dopo fatto a dirittura tutto intorno il giro della terra, rivolgen­dosi intorno ad essa o una o più volte a modo di spirale come fanno i serpenti, discese il più possibile in giù, imboccano di nuovo nel Tartaro.

«Ed è possibile scendere giù in direzione di una parte e dell’altra fino al centro; ma non oltre il centro; perché, per cia­scuna delle due serie dei fiumi, viene a trovarsi in salita quella parte che discende al centro dal lato opposto.

«Di questi fiumi dunque ce n’è parecchi altri e grandi e di natura diversa; ma, fra questi molti, ce n’è quattro dei quali il maggiore, che scorre tutto intorno alla terra più lontano dai cen­tro, è quello chiamato Oceano; dirimpetto a questo, e scorren­do in senso contrario, c’è l’Acheronte, il quale attraversa luoghi deserti, e poi, inabissandosi, come sai, sotto la terra, giunge alla palude Acherusiade: quivi convengono la più parte delle anime dei morti, le quali, dopo rimaste colà quello spazio dì tempo che a ciascuna è destinato, alcune più lungo altre più breve, sono rimandate di nuovo nel mondo a rigenerarsi in forme di esseri viventi. Un terzo fiume scaturisce nel mezzo tra questi due, e, vicino alla sua scaturigine, dilaga in luogo ampio e riarso da motto fuoco, c’è una palude più vasta del nostro mare, ribol­lente d'acqua e di fango; dì là poi muove in giro, torbido e fan­goso, e, serpeggiando per entro la temi, passa per altri luoghi finché giunge a una estremità della palude Acherusiade, ma sen­za mescolare con quella le sue acque; e, dopo fatti più giri a spirale sotto la terra, imbocca nei Tartaro, ma in un punto più basso della sopraddetta palude. Questo fiume è quello che chia­miamo Piriflegetonte; del quale sono come frammenti anche quelle colate di lava che erompono fuori sopra la terra, dovun­que trovino una via d'uscita. Dirimpetto a questo scaturisce il quarto fiume: il quale dapprima dilaga, come dicono, in una regione orrida e selvaggia e che ha da per tutto il colore del ciano, ed è quella regione che chiamano Stigia; e la palude che fa questo fiume imboccandovi la chiamano Stige. Questo fiume, dopo imboccato in codesto luogo e attinte quivi nell’acqua cer­te sue orribili forze, si sprofonda sotto terra, e, girando a spirale, scorre in senso contrario al Piriflegetonte e con esso s'incontra nella palude Acherusiade dal lato opposto. Neppur questo fiu­me mescola con altra acqua le sue acque; e anche questo, dopo girato in cerchio, si getta nel Tartaro dal lato opposto al Piri­flegetonte. II suo nome, come dicono i poeti, è Cocìto,

«Questa dunque è la forma e la natura della terra. Ora, quando i morti giungono al luogo dove è menato ognuno dal suo demone, per prima cosa si sottomettono al giudizio; e si distin­guono coloro che hanno vissuto bene e santamente e quelli che no. E quelli i quali si riconosca abbiano tenuta nella vita una via dì mezzo, giunti alle rive dell'Acheronte, salgono su quelle navicelle che sono là appunto per loro, e arrivano così alla pa­lude Acherusiade; e quivi dimorano, e, scontando lor pene, sì purificano e sciolgano delle colpe se mai ne hanno commesse, e delle buone azioni ricevono premi ognuno secondo il suo me­rito. E quelli i quali siano riconosciuti in istato di inespiabilità per la gravezza dei loro peccati, come chi abbia commesso sacri­legi molti e gravi, e uccisioni inique e molte e in onta alle leggi, o altrettali misfatti, costoro il meritato castigo li getta nel Tar­taro. e di lì non escono fuori mai più. Quelli invece che siano incorsi in colpe espiabili sì ma gravi, come chi, per esempio, in un impeto di collera, abbia fatto violenza al padre o alla madre e poi se ne sia pentito e abbia vissuto così il resto dì sua vita; o chi sia divenuto omicida per altro motivo simile e allo stesso modo se ne sia pentito; costoro debbono sì, necessariamente, precipitare nel Tartaro, ma poi, trascorso laggiù un anno dalla loro caduta ecco che la marea li ricaccia fuori, gli omicidi lungo il Cocìto, i percotìtori del padre e della madre lungo il Piriflege­tonte; e quando, trasportati da queste fiumane, giungono a livello della palude Acherusiade, quivi allora gridano c invocano, gli uni quelli che uccisero, gli altri quelli cui fecero violenza, e. chiamandoli a nome, pregano e supplicano che li lascino uscir fuori nella palude e che li accolgano; c, se riescono a persuaderli, escono fuori e così hanno pace dai loro mali; se no, sono ripor­teli via un'altra volta nel Tartaro, e dal Tartaro sono ributtati un'altra volta nei fiumi, e mai cessano di patire quest’alterna vicenda se prima non hanno persuaso coloro a cui fecero offesa: perché questa è la pena die da quei giudici fu loro inflitta. Quel­li poi i quali si sono segnalati fra tutti per la santità della vita, costoro vengono a trovarsi senz'altro liberi e sciolti da questi luoghi terreni come da carceri, e giungono in alto nella pura abitazione e abitano su la vera terra. E di costoro quelli i quali siano divenuti al tutto puri c mondi praticando filosofia, questi, per il rimanente tempo, •vivono al tutto senza legami corporei e giungono in abitazioni anche più belle di queste, le quali non è facile descrivere, né basterebbe il tempo nell’ora presente. Così dunque, o Simmia, per tutto quello di cui abbiamo discor­so, giova non tralasciar nella vita cosa alcuna per acquistare virtù e intelligenza; ché -belio è il premio e la speranza è grande.

«Certo, ostinarsi a sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte, non si addice a uomo che abbia senno; ma che sia così o poco diverso di così delle anime nostre e delle loro abitazioni dopo che s’è dimostrato che l'anima è immortale, sostener questo mi pare si addica, e anche metta conto di avven­turarsi a crederlo. E la ventura è bella. E giova fare a sé stesso dì tali incantesimi; e proprio per questo già da un pezzo oramai io tiro in lungo la mia favola.

«Ma qui appunto sta la ragione che timori per la propria anima non deve avere chi nella vita disse addio ai piaceri del corpo e ai suoi ornamenti, sapendo che le sono estranei, e per­suaso che più le possono far male che bene; e si curò invece dei piaceri dell’apprendere, e l'anima adornando non d'ornamenti a lei alieni ma di quelli suoi propri, temperanza giustizia for­tezza libertà verità, attende così preparato Torà del suo viaggio all'Ade, pronto a pigliar su la sua strada appena il destino lo chiami. E cosi, disse " anche tu, o Simmia, e tu, o Cebete, e voi altri tutti, ciascuno alla sua volta quando verrà il momento, prenderete la vostra strada. Quanto a me, ecco, oramai, direbbe un eroe tragico, il destino mi chiama! E credo sia l’ora di andar­mene al bagno. Perché mi par meglio ch’io mi lavi prima, e poi beva il farmaco, e non dia questo fastidio alle donne di lavare il cadavere''.

°°°

Il finale (Le ultime ore di Socrate sono di…) è d'una bellezza insuperabile, calmo, sereno, già acceso del riverbero dell'immortalità pur serbando quella lieve ironia scettica che caratterizza in questo mondo l’«uomo che abbia senno», Essa sigilla con la sicurezza interiore ciò che altrimenti potrebbe essere davvero una formula d’incantesimo che il mori­bondo ripete a sé stesso negli ultimi istanti.

Il lettore insensibile a questa magia sarà tentato di respingere il racconto come puro nonsense poetico. Certo, se Socrate, o me­glio Platone, parla veramente di un sistema di fiumi all’interno della terra, è chiaro che di idraulica non ne sa proprio nulla e ha semplicemente allentato le redini alla sua fantasia. Ma se si di un’altra occhiata allo scenario, s’incomincia a dubitare che egli si riferisca davvero alla terra così come la si intende. Socrate parla di un certo luogo in cui viviamo noi, il quale sembra una palude dentro una cavità o forse il fondo di un lago, pieno di rocce, di caverne e di sabbie e fango senza fine. La «vera terra», che assomiglia a una palla composta di dodici pezzi multicolori, è sopra di noi: verrebbe istintivamente da pensare che Platone si riferisca ai limiti superiori della stratosfera, ma naturalmente non ne aveva mai sentito parlare. Egli si riferisce a un «altro» mondo al di sopra dì noi, il quale, anche se sì fantastica un po’ di paesaggi incantevoli, di animali e di gemme, è situato nell’”etere” come lo intendevano i greci, È un mondo al di sopra di noi e, come il «nostro» (qualunque cosa esso sia), ha per centro il centro del Timi verso. Lassù ì corpi celesti sono diventati chiari alla mente e gli dèi sono già visibili e presenti. Se pos­siedono “templi e case in cui abitano realmente”, queste asso­migliano assai alle «case» dello zodiaco. Anche se alcuni ele­menti vengono mescolati e confusi per mantenere viva l’impressione del prodigioso, viene eia sospettare che si tratti del cielo puro e semplice. Poi arriva il contrassegno di autenticità, ine­quivocabilmente geometrico.

Quel mondo è un dodecaedro:[1] ecco cosa rappresenta la sfera fatta di dodici pezzi; la medesima similitudine compare nel Timeo (55 c), dove si dice inoltre che il Demiurgo aveva fatto decorare le dodici facce con figure che rappresen­tano certamente i segni zodiacali. A.E. Taylor sostenne alquanto prosaicamente che non è possibile immaginare la fascia dello zodiaco distribuita in modo uniforme su una superficie sferica, e avanzò l’ipotesi che Platone (e dopo di lui Plutarco) avesse in mente un dodecagono e parlasse senza sapere quel che diceva. E’ rischioso trattare cosi Platone, e il professor Taylor dovette presto pentirsi della sua suffisance; eppure Plutarco l’aveva mes­so in guardia: il dodecaedro «sembra assomigliare sia allo zo­diaco sia all'anno».


È forse vera l‘opinione dì coloro che pensano che egli abbia attribuito il dodecaedro alla forma sferica allorché dice che il dio si era servito di esso nel decorare la natura del tutto? In­fatti, per il gran numero delle basi e l’ottusità degli angoli, evi­tando ogni “rettitudine”, (il dodecaedro] è flessibile; e se teso all’intorno, come le palle fatte dì dodici pezzi di cuoio, diventa circolare e capiente. Ha infatti dodici angoli solidi, ciascuno dei quali è contenuto da tre piani ottusi» e ciascuno di essi con­tiene un angolo retto più una quinta parte. Ed è connesso in­sieme e composto da dodici pentagoni equiangoli ed equilateri, ciascuno dei quali consiste dì trenta dei primi triangoli scaleni. Perciò sembra assomigliare sia allo zodiaco sìa all'anno, essendo diviso nello stesso numero di parti di quelli.

In altre parole, esso è il numero 12 in termini stereometrici, e anche il 3O e il 360 («gli elementi che si producono quando ogni pentagono viene diviso in cinque triangoli isosceli e cia­scuno dì questi in sei triangoli scaleni»): in altre parole, la se­zione aurea. Ecco cos’è il pensare da pitagorici.

Platone non sì dava troppo pensiero dei futuri critici professionisti, si limitò a dare un'immagine dilettosa e li lasciò a sbro­gliarne Li senso da soli. Ma ciò che resta saldo è la terminologia. Narra il Timeo che dopo che il Demiurgo ebbe usato i primi quattro corpi perfetti per gli elementi, gli rimase il dodecaedro, che usò come struttura per avvolgere il tutto. Non occorre en­trare nelle ragioni geometriche e numerologiche che rendono adatta a quel ruolo la «sfera dai dodici pentagoni», come la si chiamava. Ciò che conta qui è il fatto che ci si riferisse al tut­to, al cosmos. Platone era rimasto fedele alla tradizione pitago­rica originaria che chiamava l’ordine del sole, della luna, dei pianeti, con tutto quanto vi era compreso. L'anima che vaga libera lo può guardare “dall'alto”. (Nell'Arenario, Archimede usa ancora il termine cosmos più o meno in questo senso, perlomeno in omaggio all'uso antico).

Concludiamo: la “vera terra” non era altro che il cosmo pi­tagorico, e i fiumi che scorrevano dalla superficie al suo centro e viceversa non possono certo venir immaginati come strettamente terrestri; non sorprende, peraltro, che, con quel curioso intrec­ciarsi arcaico di terra e cielo ormai divenutoci familiare e che fa scorrere grandi fiumi dal cielo alla terra, ci siano correnti infuocate «vere» come il Piriflegetonte, connesse al fuoco vul­canico. Ma dov’è lo Stige? Certo non qui da noi, con quel suo paesaggio soffuso di blu! Anche l'immenso abisso del Tartaro spaz­zato dalle tempeste non è una caverna sotterranea: appartiene a qualche regione dello spazio «esterno».

Questo è tutto il mondo dei morti, da cima a fondo, da un capo all’altro, altrettanto difficile da collocare quanto il mondo infero di cui si parla nella Repubblica. I fiumi dai percorsi a spirale che trasportano i morti per ritornare poi sui loro passi sanno più di astronomia che non di idraulica. L’oscillazione ad “altalena” della terra (sì noti bene: deve trattarsi della «vera terra») potrebbe benissimo essere l’oscillazione dell’eclittica e del cielo nel corso delle stagioni. Non occorre entrare ora nei disorientanti particolari, terrestri o infernali che siano, della de­scrizione, se non per sottolineare che Numenio di Apamea, im­portante esegeta di Platone, afferma nettamente che i fiumi del­l'altro mondo e lo stesso Tartaro sono la «regione dei pianeti». Proclo invece, esegeta ancora più importante ed erudito, si op­pone nettamente a Numenio. Conosciamo abbastanza, anzi più che abbastanza, la congerie di tradizioni orientali sui Fiumi del Cielo con il loro sconcertante miscuglio dì immagini astrono­miche e biologiche, tradizioni culminate nell’idea anassimandrea dell’"Apeiron”, il «flusso infinito», per capire da dove la Grecia arcaica attinse il suo sapere. Lasciamole stare, per ora. Socrate però cita una versione orfica (donde il suo ritegno a nominare le sue autorevoli fonti), e le strane entità che vi compaiono, come Okeanos e Chronos, meritano la nostra attenzione. Qui non s’in­tende infatti Kronos-Saturno, bensì proprio Chronos-Tempo. Per quanto riguarda Okeanos, la stessa Jane Harrison, cui non si vorrà certo imputare una propensità a cercare gli dèi altrove che sulla superficie o all’interno della terra, ha dovuto ammet­tere: «Okeanos è molto di più di Oceano, e altra è la sua nasci­ta». Essa vede in lui un “daimon dell'aria superiore”, conces­sione importante che potrà forse portarci assai lontano.

Tralasciamo per il momento l’imponente opera di Eisler, Weltenmantel und Himmebzelt, filone inesauribile, ma più ric­co di dati che di indicazioni sulla via da percorrere, e passiamo a The Origìns of European Thought di Oniaus, che offre una valutazione più recente: Okeanos vi viene paragonato all’Acheloo, il fiume primordiale che «veniva concepito come un ser­pente con le coma e la testa lunaria». Il testo prosegue:

«In un qualsiasi corpo, l’elemento procreatore era la psiche, che appariva in forma di serpente. Okeanos, come ci è dato ora di capire» era la psiche primordiale, e questa sarebbe stata concepita come un serpente in rapporto al liquido procreativo Così vediamo come per Omero — il quale allude all'opinione condivisa dai suoi contemporanei — l'universo abbia la forma di un uovo cinto da “Okeanos, che è la generazione di Tutto. “Possiamo forse comprendere meglio anche [...] perché in questa versione orfica [fr. 54, 57, 58 Rem] il serpente venisse chiamato Chronos e perché Pitagora» interrogato su che cosa fosse Chronos, rispondesse che era la psiche dell'universo. Se­condo Ferecide, fu dal seme di Chronos che sì produssero fuoco, aria e acqua».

La grande entità orfica era Chronos Aion (l'avestico Zurvan akaratia), comunemente inteso come «Tempo infinito»; in Aion il professor Onians ravvisa «il fluido procreativo con cui veni- va identificata la psiche, il midollo spinale che si pensava assu­messe la forma dì un serpente»; e può benissimo essere così, dal momento che si tratta di idee antichissime vive ancor oggi nei culti ofìdici e nella kundalini dello Yoga indiano. Ma è in­dubbio che Aion significasse «periodo di tempo» ed età, donde « età del mondo » e piu tardi * eternità », né sì ha motivo di ri­tenere che il significato biologico debba esser stato antecedente e dominante. È noto che per gli orfici Chronos era il paredro di Ananke, la Necessità, la quale, secondo i pitagorici, circonda an­eli essa l'universo. Tempo e Necessità che cingono l’universo: ecco una concezione piuttosto chiara e fondamentale: è collegata ai moti celesti indipendentemente dalla biologia e porta diret­tamente all’idea platonica del tempo come «immagine mobile dell’eternità»,

Sarebbe utile cosa se gli storici del pensiero arcaico presentas­sero innanzi tutto i semplici dati, senza comprimere e costrin­gere il loro materiale in una forma che riflette la conclusione preconcetta che le immagini biologiche, come tutto quanto con­cerne la generazione, siano le prime ad apparire nella psicologia ‘primitiva’.

Chi vuole della psicologia può tornare a Socrate in un’assai diversa fase della sua vita, quando egli parla davvero di psico­logia: «Omero [...] quando dice “e Oceano origine degli dèi, e madre Teti "non ti sembra forse intendere che tutte le cose sono progenie del flusso e del moto?» (Teeteto, 152 e). Ci si può chiedere: l'oceano sarebbe un’immagine di flusso se non ci fossero le maree? Ma l'Egeo di Socrate non aveva maree. L’im­magine gli viene in realtà dalla descrizione esiodea di Okeanos (Teogonia, 790 sggd: «Con nove vorticose correnti argentate si avvolge intorno alla terra, e all'ampio dorso del mare, indi cade nel pelago; ma quella che sola scorre dalla roccia [la decima], è grande sventura agli dei». Questa temuta decima corrente è il fiume di Stige, Jane Hanison aveva ragione: «altra» da quella del nostro Oceano è la nascita di Okeanos.

L’autorevole analisi di Berger può ricostruire l’immagine. Gli epiteti di Okeanos nei testi sono «profondo-fluente», «ri­fluente su sé stesso», «instancabile», «placidamente fluente», «senza marosi». Queste immagini, nota Berger, suggeriscono silenzio, regolarità, profondità, quiete, rotazione: tutte cose che in realtà appartengono al cielo stellato. Successivamente, il no­me venne trasferito a un altro concetto, più prettamente terre­stre: il mare vero e proprio, che si pensava circondasse la terra da ogni lato. Ma l’esplicita e più volte ripetuta distinzione tra esso e “pelago” dimostra che questa non fu mai l'idea origi­naria. Se Okeanos è un fiume «dalle vorticose correnti argen­tate», con molte diramazioni che evidentemente non sono mai state in mare o in terra, allora nemmeno il pelago è il mare (pontos) deve trattarsi delle «Acque superne».

L’Okeanos del mito conserva queste maestose caratteristiche di lontananza e di silenzio; era l’unico che poteva restarsene per conto proprio quando Zeus imponeva la presenza nell’Olimpo di tutti gli dèi. Fu lui a mandare le proprie figlie a piangere su Prometeo proscritto e incatenato, lui a offrire la propria pos­sente mediazione in suo favore. Egli è il Padre ilei Fiumi; anzi, appare nebulosamente come l’originario dio del cielo di un lon­tano passato. In un inno orfico viene presentato come «diletto limite della terra, signore del Polo», e in quella famosa opera lessicografica del l’antichità che è l’Etymologicum magnum il suo nome viene fatto derivare da «cielo».

 

Giorgio de Santillana - Hertha von Dechend Il mulino di Amleto Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adeplhi. 1983



[1] Il dodicesimo numero è divino, perché serve a misurale i cieli e aiuta a governare i suoni celesti e gli spiriti dato che lo zodiaco ha dodici segni a cui presiedono dodici angeli principali, sorretti dal gran nome di Dio. Giove compie il suo ciclo in dodici anni e la Luna percorre dodici gradi in un giorno. Il corpo umano ha dodici giunture principali, ossia nelle mani, nei gomiti, nelle spalle, nelle cosce, nelle ginocchia, nei piedi. Il potere del numero dodici è anche grandissimo nei misteri divini. (E.C. Agrippa, La filosofia occulta o la magia, Vol. II)

Jupiter, questo sconosciuto


Dichiaro subito, a scanso di equivoci, di non essere un a-theos (un senza dio), nonostante questo “dio” sia stato e continua ad essere un gran dolore di testa per filosofi e letterati.

La filosofia greca, nella sua serenità ed impassibilità, se l’era cavata molto bene. Aveva identificato nel Monte Olimpo la sede privilegiata degli dei e là, in cima alla divina montagna, sedeva imperterrito, severo  e sovrano Zeus, Jupiter in latino, circondato e coccolato da una schiera di divinità, ad ognuna delle quali il Padre aveva assegnato un compito ed una funzione: c’era chi si occupava dell’amore e chi della guerra, amore e guerra coesistevano sicure e tranquille nelle loro funzioni, sicure di adempiere al meglio le loro attribuzioni, tranquille e consapevoli del fatto che il genere umano non poteva fare a meno né dell’amore, né della guerra.

Senonché, l’uomo non aveva ancora scoperto la scissione dell’atomo, e alla divina potestà di Zeus preferì la sovranità del fungo atomico, Zeus allora si ritirò sulla cima della montagna in solitaria meditazione, ordinando alle sue divinità subordinate di fare altrettanto.

L’uomo rimase solo ed ebbe paura dell’amore e della guerra.

In lontananza il fungo atomico sbirciava dal suo atollo al centro dell’oceano consapevole del fatto che avrebbe potuto suscitare nell’uomo un unico sentimento: quello del terrore, al solo ricordo di quel fungo atomico l’uomo sarebbe rimasto terrorizzato.

Amore e guerra si ritirarono contriti e frustrati: Zeus di fronte ai loro piagnistei rimase pensieroso e in silenzio.

Quando Jupiter si ritira in silenzio fe meditabondo sulla cima del monte, l’uomo resta solo, e quando l’uomo resta solo ha paura, ha paura di tutto, dell’amore e della guerra.

Ha paura dell’amore ed inventa la trasgressione dei sentimenti e della natura, ha paura della guerra ed inventa il terrore e la barbarie.

Quando l’uomo aveva la guerra, generava guerrieri fedeli ai propri ideali di rispetto, di stile, di tradizione, quando l’uomo aveva l’amore, amava una donna le era fedele ed era da questa riamato e da tale sentimento nascevano figli orgogliosi, forti, sicuri di poter continuare la tradizione dei padri.

Gli uomini diedero allora a questo sistema un nome: TRADIZIONE, tradizione di famiglia, tradizione di costumi, tradizione di culti.

Jupiter dall’alto dell’Olimpo si sentì rasserenato e scagliò un fulmine di soddisfazione, smentendo i solidi idioti e i soliti presuntuosi che il fulmine annunci e preceda solo la guerra. Parlano così perché non conoscono il fulmine, il fulmine della pace. (r. s.)

 

 

Ascesa e Immortalità

(Arturo Reghini alla Torre Talao)



 

Platone definisce la filosofia come un esercizio di morte e il filosofo come l'uomo che non teme la morte perché contempla la totalità del tempo e dell'essere

Per l’Ascesa spirituale sono necessari:

1)         la Purificazione

“La purificazione di cui parla Platone nel “Fedone” è la catarsi che constava cerimonialmente di semplici pratiche esteriori, ed in realtà aveva un carattere fisiologico trascendente, senza preoccupazioni moralistiche, e consisteva nel “superare e rimuovere l’anima quanto si può dal corpo, e assuefarla a raccogliersi in sé medesima, e rimanere sola, sciolta dai vincoli di esso, per il tempo presente e futuro” (Fed. XII). Ed a scioglierla, molto si adoperano a ogni ora quelli soli che filosofeggiano dirittamente, ossia quelli che intendono a morire. Pochi erano dunque coloro che potevano dirsi Bacchi, perché identificatisi con Dioniso-Zagreo per mezzo dell’iniziazione; ed a questi pochi era riserbata la epopteia effettiva che era raffigurata e velata dalle cerimonie del dramma mistico”. (A Reghini, Le parole sacre e di passo, Roma, 1924)

“La preliminare purificazione interiore, in pratica, non si effettua senza un’esperta guida. Occorre a Dante la sapienza di Virgilio, che di servo lo trae a libertade, e lo conduce sino alla catarsi del paradiso terrestre da cui esce rinnovellato di novella fronda, puro e disposto a salire le stelle; ed occorre poi altrettanta sapienza per arrivare a dislegare l’anima sua da ogni nube di mortalità. Questa è la funzione dell’Hermes Psicopompo, di Tot Trismegisto. Occorre dunque un maestro e benché la selva sia oggi non meno aspra, selvaggia e forte di quanto fosse al tempo di Dante, pure noi riteniamo che il pellegrino che vi si smarrisca possa e debba ancor oggi rinvenirvi il suo Virgilio”. (A Reghini, Le parole sacre e di passo, Roma, 1924)

“Come si proceda a questa purificazione ed alla resurrezione è stato esposto, facendo astrazione da ogni scuola, credenza ed allegoria, nel capitolo La resurrezione iniziatica e quella cerimoniale del nostro libro “Le parole sacre di passo”. In esso è riportato un documento rinvenuto alla Biblioteca Magliabecchiana, intitolato: La prattica dell‘estesa filosofica, attribuita a Tommaso Campanella, che descrive precisa ed esplicita tutta l’operazione.”

“Quest’opera di purificazione e della successiva pratica dell’estasi filosofica occorre che siano condotte con lo stesso spirito di impersonalità, colla stessa freddezza scientifica con cui si può procedere ad una lunga preparazione in un laboratorio di fisica. Si tratta di ottenere la propria indipendenza dall’istinto, dai pregiudizi, dai sentimenti; non di conformare sé stessi ad un modello di perfezione secondo una determinata morale. Non si tratta di diventare l’uomo perfetto, ma di transumanare. La morale fa parte delle consuetudini, dei pregiudizi, della mentalità della razza o del paese, e non bisogna essere schiavi di essa. La catarsi era presso i greci ed i latini una funzione puramente rituale; la sua degenerazione in purificazione morale, dal punto di vista tecnico della palingenesi, è un errore". (Rif, idem)

Altro errore è quello di credere che sia conveniente mortificare, macerare la carne; se bastasse digiunare, astenersi dal mangiare cadaveri e dal bere alcoolici per avviarsi sulla strada della iniziazione, se bastasse togliere il vigore al corpo per acquistare una condizione di coscienza superiore, una carestia dovrebbe dare la stura a migliaia di iniziati. Mentre invece è giusto l’opposto che occorre fare; perché la pratica dell’estasi filosofica, il cui aspetto negativo consiste nell’astenersi dal pensare, ha un lato positivo che richiede un grande dispendio di energia, e dura tanto che pur dedicandole quotidianamente solo quel massimo di tempo che si è in grado di sostenere, finisce coll’esaurire le forze; ed è perciò necessaria la buona salute del corpo e non il deperimento o la fiacchezza”. (Rif: AReghini, Le parole sacre e di passo, Roma, 1924)

2)         l’Intuizione

“L’ Intuizione è la facoltà trascendente la ragione ed indica il volgere dello sguardo verso un mondo interiore, l‘intueri. L’intueri è dunque una funzione che non ha nulla a che vedere col mondo fenomenico.

La stessa metafora si trova nella radice sanscrita gah, da cui gahayati (penetrare, intelligere) e nella parola iniziare da initium, in-ire, andare verso l’interno.

L’etimologia fa dunque consistere l’iniziazione nell’andare verso quella modalità dell’essere che in opposizione alle cose esteriori, ex-istenti, si può chiamare il mondo interiore (v.), verso l’intrinseca essenza del mondo nascosta dalla ex-trinseca parvenza come l’interno di un oggetto è nascosto dalla superfice.

La superficie non è che l’aspetto, l’apparenza (lat. facies) delle cose, ed anche quest’illusorio aspetto delle cose non sarebbe possibile senza la retrostante realtà (lat. res, cosa) come una superficie non può esistere materialmente che come limite esterno di oggetti aventi uno spessore, non può sussistere senza una consistenza”. (Rif. AReghini, Simbolismo e Filologia. Roma, 1914)

L‘intuizione umana dello spazio consente di concepire lo spostamento del punto, e di ottenere in tal modo un altro punto, e quindi la coppia di punti ed il segmento individuato da essi. Aritmicamente si ottiene così il due, e filosoficamente si ha la diade, la dualità, il dualismo, la differenziazione. Se ora consideriamo l’aggregato del punto e del segmento di due punti, otteniamo una figura piana composta di tre punti. Operando analogamente nello spazio, cioè aggregando il punto col triangolo composto di tre punti, sottoponendo il triangolo al punto, si ottiene una figura solida composta di quattro punti, ossia la piramide. Se ci si attiene alla via puramente geometrica è necessario arrestarsi ai numeri piramidali, perché l’intuizione umana dello spazio è tridimensionale.

3)         la Contemplazione

Contemplazione: la parola contemplazione trae l’odierno significato metafisico da un antico senso divinatorio e magico.

Templum, infatti, contrazione di tempulum, diminutivo di tempus, indicava, secondo Varrone, una porzione separata e specialmente lo spazio che l’augure segnava nei cieli colla sua bacchetta al fine di circoscrivere un dato limite dentro il quale faceva le sue osservazioni sul volo degli uccelli, ed anche significò una porzione di campo consacrato dall’augure e destinato a fini religiosi. Da questo primitivo significato etrusco-romano è passato all’odierno in modo affatto simile alle parole desiderare, considerare (v.), passate dal senso astrologico a quello sentimentale e razionale. (AReghini, Simbolismo e Filologia, Roma,1914)

Per poter contemplare è necessario non farsi dominare dai sensi (v.), perché chi ne è schiavo od anche è semplicemente incapace di astrarre da essi, non può assorbirsi nella contemplazione. Questa libertà va conquistata rimanendo nei sensi e non fuggendone; accettandoli e non combattendoli; adoperandoli e non rinnegandoli. (ARA, Massime di scienza iniziatica, Ancona, 2004)

«Pur sorvegliando la propria salute, non potrà essere del tutto privo dellesperienza della malattia. Non vorrà nemmeno restare privo dellesperienza delle sofferenze. E se non capitano, desidererà conoscerle da giovane; ma arrivato alla vecchiaia, non <vorrà> essere turbato né dalle sofferenze né dai piaceri, né da una qualsiasi delle cose di quaggiù, sia essa piacevole oppure il suo contrario, per non <essere costretto> a prestare attenzione solo al corpo». Cfr. I, 4 [46], 14, 21-26. Nel suo volume, Plotino o la semplicità dello sguardo, cit., p. 77, P. HADOT commenta al riguardo: «Plotino, come si vede, non ricerca la malattia, la sofferenza, la bruttura di per sé. Non combatte il corpo, ma un eccesso di vitalità fisica che rischierebbe di sbilanciare lanima nel suo slancio verso la contemplazione del Bene. Bisogna abituarsi a non fare più caso alle sensazioni fisiche, diventare indifferenti al piacere e al dolore per non venire distolti dalla contemplazione», e nota che tanto questo come altri aspetti dellascesi, si trovano in maniera simile negli «esercizi spirituali». (per questi ultimi, cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit.). (Mystes)

  

Contemplazione e Conoscenza

   

Massima n.77 - È possibile conoscere?

- È possibile.

- Come?

- Dominando il pensiero, facendo a meno di credere e liberandosi dalle passioni e dalla paura del nulla.

78 - La contemplazione dà la conoscenza.

79 - Per contemplare è necessario essere libero nei sensi.

80 - Per essere libero nei sensi adopera i sensi liberamente.

“Benché il testo nella lapidaria sua concisione…” Con queste parole Reghini inizia il suo straordinario e inimitabile Commento alle Massime di Scienza Iniziatica di Amedeo Armentano.

Reghini ha perfettamente ragione: il testo “nella sua lapidaria concisione” dice tutto quel che occorre sapere sulla “conoscenza” per cui sarebbe inutile aggiungere una qualsiasi parola in più. Mi allontano pertanto dalla tentazione esegetica, per avvicinarmi a una visione prettamente metafisica, la stessa che avrebbe usato il grande maestro pitagorico.

In realtà cosa sappiamo noi della “conoscenza” e in prima istanza, prima di azzardare una teoria della conoscenza, ci domandiamo “cos’è la conoscenza?” Al di là delle non facili risposte e spiegazioni di cui sono pieni i libri e i manuali teorici, quale senso diedero a questa parola i padri della filosofia?

Platone, di solito bene informato, nella sua complessa descrizione della “conoscenza” chiarisce:

“…la conoscenza è anámnesis, cioè un ricordare ciò che già si trova nell’interiorità della nostra anima. E poiché l’anima, ci avverte Platone, è immortale, non vi è nulla che non abbia imparato, avendo visto tutte le cose dell’aldilà e dell’aldiquà nel corso delle sue innumerevoli esistenze. Così Platone nel Menone: «[…] nulla vieta che chi si ricordi di una cosa – ciò che gli uomini denominano apprendimento – costui scopra anche tutte le altre, purché sia forte e non si scoraggi nel ricercare: infatti, il ricercare e l’apprendere sono in generale un ricordare».”

Platone usa poche parole e non ha bisogno di perdere molto tempo per far capire cos’è la “conoscenza”: Platone, dall’alto del suo sapere, la sapeva lunga, ma noi, modesti mortali, da quale lato dobbiamo collocarci per entrare e quindi percorrere il labirinto della “conoscenza”?

Se la “conoscenza” è un ricordare, è inutile nascondere che entriamo in un meandro di concetti e di definizioni filosofiche dove riconosciamo la parola “metempsicosi” risvegliatasi subito dopo quella di “ricordare” e dove la vediamo dominare incontrastata.

Armentano, come riconosce Reghini suo discepolo, è lapidario! Afferma: è possibile conoscere!

Segue la conferma, si è possibile, e se è possibile, quali sono gli strumenti di tale conoscere? Sono il ricordo e solo il ricordare? Torniamo punto e a capo!

Ma anche Platone è perentorio: conoscere è ricordare! Quel verbo ricordare si affaccia su un emisfero di dubbi e di domande alle quali non è facile rispondere anche con l’aiuto dei Maestri che hanno trattato l’argomento.

Andiamo per gradi e iniziamo dalla contemplazione che sembra essere l’azione chiave per ottenere la “conoscenza”. Vediamo la definizione che Reghini da della contemplazione: “la parola contemplazione trae l’odierno significato metafisico da un antico senso divinatorio e magico.

Templum, infatti, contrazione di tempulum, diminutivo di tempus, indicava, secondo Varrone, una porzione separata e specialmente lo spazio che l’augure segnava nei cieli colla sua bacchetta al fine di circoscrivere un dato limite dentro il quale faceva le sue osservazioni sul volo degli uccelli, ed anche significò una porzione di campo consacrato dall’augure e destinato a fini religiosi. Da questo primitivo significato etrusco-romano è passato all’odierno in modo affatto simile alle parole desiderare, considerare, passate dal senso astrologico a quello sentimentale e razionale.

Per poter contemplare è necessario non farsi dominare dai sensi, perché chi ne è schiavo od anche è semplicemente incapace di astrarre da essi, non può assorbirsi nella contemplazione. Questa libertà va conquistata rimanendo nei sensi e non fuggendone; accettandoli e non combattendoli; adoperandoli e non rinnegandoli.”

La contemplazione è associata quindi a una pratica magica di divinazione. Noi sappiamo che la sorte sinistra toccata a questa parola come a tante altre, stando l’origine sacra delle parole, precipitate col tempo, subito dopo l’avvento del cristianesimo, in un baratro di volgarità e di incomprensione, ha colpito numerosi vocaboli, tra cui conoscenza, il cui uso mantrico e sacrale era attribuito ai soli collegi sacerdotali che si occupavano dei sacrifici e dei rituali magici.

Manlio Magnani autore del “Supremo Vero”, nel citare l’Opus Magicum di Luce espone in modo molto chiaro l’uso dei “Nomi” nel senso magico o sacro: “Il Nome è il suono prodotto dalla forza sottile che genera, o costituisce, una cosa o un essere, però non quale risuona nel mondo fisico, ma quale è colto direttamente e incondizionatamente dallo spirito in un etere interiore libero da spazio e tempo, non sub specie di una serie di vibrazioni materiali, sibbene di movimento-in-se, di suono puro, continuo, omogeneo. Per conoscere cotesto stato è necessario saper identificarsi con esso: è altissima realizzazione iniziatica”.

La chiarezza di Magnani è fuori discussione, ma è opportuno aggiungere, per concludere, alcune nostre parole di spiegazione. La filosofia di Magnani ha carattere magico ed ermetico senza disdegnare la elevata componente metafisica. Questa componente, nelle sue parole e nelle sue spiegazioni, fa eco alla grande dottrina dei “mantra” del mondo indù e delle parole di potenza dell’antico Egitto.

La sola spiegazione è la seguente: dal grande trono dell’antica spiritualità sul quale sedevano sacerdoti e magi e facevano uso dei mantra per evocare le forze divine, le parole sacre sono state destituite e svuotate dal loro autentico e antico significato e ridotte a un semplice suono vocale senza più quelle vibrazioni e quella profondità attraverso i quali la divinità si manifestava all’uomo.  (Mystes)

 

Mistero cosmogonico del padre 

Da qualche giorno ho cominciato a farmi l’idea che molti commentatori di testi di filosofia platonica e in special modo quelli del “Fedone”, il dialogo dove Platone parla della vita, della morte e dell’immortalità dell’anima, sono degli emeriti ignoranti o in alternativa sono in mala fede, con le ovvie dovute e nobili eccezioni.

Spiego subito in che modo e il perché sono giunto a questa conclusione.

Il fatto che il filosofo debba “esercitarsi a morire” non significa e non c’è scritto da nessuna parte che il filosofo, “disprezza i piaceri del corpo” e, “reputa senza valore la vita” e “deve rompere ogni comunanza con il corpo, in modo che la sua anima possa acquistare la Verità” come ho letto recentemente in alcuni trattati di filosofia.

Sono valutazioni di carattere strettamente personali gabellate per lezioni di filosofia e quel che è peggio di filosofia platonica.

Esamineremo per un momento quel che ha scritto ARA sullo stesso argomento nelle “Massime di Scienza Iniziatica”, e lo metteremo a confronto con le affermazioni fatte da un presunto e presuntuoso filosofo “platonico”:

Massima n. 261 - Che cosa è la morte?

- Se vuoi sapere della morte abbandona i sogni.

Massima n. 262 - Esiste un problema della morte?

- I vivi sono vita e della vita si occupano: solo i morti pensano alla morte.

La sentenza del Maestro pone una pietra lavica sulla tesi del “disprezzo della vita per acquistare la verità e la sapienza” e rappresenta la giusta e retta condanna di una visione funerea della vita, visione che giudica la vita in modo manicheo come il contrario della morte.

Sapendo il grande interesse che avrebbe suscitato, l’occuparsi e parlare della morte è stato fin dall’antichità il trastullo di alcuni filosofi. Ma io nego, nella maniera più chiara e inoppugnabile, il fatto che la morte sia la negazione della vita. L’unica realtà di cui noi abbiamo scienza e conoscenza è la vita anche perché tutte le teorie filosofiche formulate dagli antichi saggi sono l’espressione della loro forza vitale e della loro intelligenza, nonché della capacità che hanno dimostrato, da vivi, di formulare tutte le teorie filosofiche, da quelle più elevate di Platone, a quelle più strampalate dell’ultimo filosofastro moderno.

Il pensiero umano, ai livelli più alti, non è l’espressione della materia, semmai si serve di una serie di supporti materiali, tra cui il corpo e la mente umani, per manifestarsi ed affermarsi nella forma migliore, dai temi della filosofia, a quelli più comuni ed ordinari della letteratura colta.

Chiarito ciò devo riconoscere che nessun essere umano, filosofo o dilettante del sapere, è stato in grado di spiegarci i misteri della morte e dell’aldilà: Omero, per esempio, ricorse ai miti e alle leggende e lo stesso Platone, il filosofo che più di ogni altro si è inoltrato nel suddetto mistero, fa dire a Cebete, nel Fedone, che solo gli insensati potranno compiacersi del destino mortale umano:

«Ma quello che mi sembra assurdo è il fatto che proprio i filosofi debbano desiderare la morte se, come dicevi poco fa, di noi si prendono cura gli dèi e, anzi, noi stessi siamo un loro possesso. Infatti non riesco proprio a capire come costoro, che sono i più saggi, non debbano dolersi di liberarsi, con la morte, da questa tutela che impedisce loro di continuare a servire i migliori padroni che ci siano, cioè gli dèi. Infatti, non è possibile credere che un uomo con la testa sulle spalle possa pensare di star meglio, una volta libero; soltanto un pazzo potrebbe avere una simile idea e credere che sia un bene fuggire dal proprio padrone, senza pensare che è, invece, un grosso errore e che è un bene, al contrario, restar legati, quanto più è possibile, al buon padrone: chi ha un po' di senno, desidera restare sempre con chi è migliore di lui.» (Platone, Fedone, 62d)

Un uomo ragionevole non può sentire soddisfazione di un tale destino. Nonostante ciò Socrate opporrà un ragionamento col quale proverà che un vero filosofo deve desiderare la morte e «esercitarsi a morire».

Tre sono le principali motivazioni che Socrate adduce a sostegno della sua tesi:

1. Se la morte è separazione dell’anima dal corpo, il filosofo, che disprezza i piaceri del corpo, reputa senza valore la vita.

2. Se il filosofo tende alla verità, e i sensi sono d’impedimento al pieno possesso della Verità, egli disprezza il corpo e cerca di allontanarsi da esso, in maniera che la sua anima se ne stia tutta in sé raccolta, nella pura contemplazione del vero.

3. La «realtà in sé», non è percepibile con i sensi, ma solo col puro pensiero.

La morte, come liberazione definitiva dal corpo, permette all’anima del filosofo di poter godere della visione piena della Sapienza.

Ciò facendo, si abbandonano i bisogni del corpo e si allontana la nostra anima dal mondo sensibile; ed è in questo senso che la filosofia è un prepararsi a morire, dove per morire si intende lo stato in cui corpo e anima sono distaccati.

Senonché, sottolineo senonché, questa esperienza della separazione dell’anima dal corpo che la maggioranza dei filosofi identifica con lo stato di morte può essere sperimentata e vissuta in vita senza che subentri nell’uomo la cessazione della vita. Ho usato il verbo “vivere” per confermare che non si tratta di una prova di morte, ma di una conferma della vita.

Arturo Reghini che trattò nei suoi scritti con scienza e sapienza questo argomento, alla voce “morte” del Dizionario Filologico dice: “La morte è un passaggio da una modalità della vita, la vita corporea, ad un’altra. Siccome tutto ciò che è non può cessare di essere, la morte non arreca la distruzione o l’annichilimento in nessun caso. Ma nel caso dell’uomo ordinario, l’individualità umana finisce, con la morte, col rientrare nello stato non manifestato, e quindi scompare e cessa di esistere in quanto individualità; non è annientata, ma “trasformata”.” Si tratta quindi di un passaggio, di una mutazione! E al filosofo spetterebbe un solo compito: spiegare ai colti e agli incolti le modalità e le finalità di tale passaggio. È chiaro?

                                                                                          &&&

Manlio Magnani ha trattato l’argomento con la sua consueta lucidità pitagorica. Riproduciamo dal Dizionario Filologico ( https://www.amazon.it/dp/168818063X ):

“La morte o mistero cosmogonico del padre è espressione della tendenza al ritorno all’Uno Unissimo.

L’uomo chiama morte la fine di una forma nell’aspetto fenomenale percepito dai suoi sensi. Mentre invece quella non è la morte, ma il segno, il riflesso, il simbolo della morte, potremmo dire un aspetto analogico della morte. Morte pertanto deve intendersi la fine rispetto alla manifestazione fenomenale, la cessazione dello stato di necessità o di “ordo” proveniente dal caos. Quindi è parola non da riferire solamente a un’esistenza effimera. Forse per questo gli antichi davano l’attributo dell’immortalità a tutto ciò che concepivano come superiore all’uomo e al fisico, per esempio gli dei o dio. Nelle iniziazioni si parlava di morte dell’iniziando per rinascere immortale quando iniziato; perché l’iniziato ha realizzato la coscienza dell‘essere, ha superato il caos, sebbene porti tuttavia attorno la pesante appendice fenomenale e formale della umana e fisica esistenza. Ecco il significato pieno della parola morte.”

E Magnani così prosegue: “Precisamente nel fine visibile delle forme e delle vite singole, degli aggregati, delle cose composte e delle cose semplici, in una parola in ciò che gli uomini chiamano morte è il segno visibile tangibile di un limite insorpassabile da parte del caos. La cosiddetta morte in quanto dissolve una esistenza, di qualunque ordine essa sia, ha valore e significato di negazione e di opposizione alla fissità o alla stabilità del divenire fenomenale, del processo della molteplicità, dell’impulso del caos: quindi è come espressione di un tendere verso il ritorno allo stato anteriore al caos e al verbo stesso, cioè a quell’unicità in molte tradizioni indicata con la parola padre. Ecco perché la morte fu detta "mistero cosmogonico del padre”

(Manlio Magnani., Supremo Vero, Ancona, 2003).

                                                                                                                                                        Mystes

 

IL MIO COMMENTO AI VERSI D’ORO

Se la saggezza, come dice Socrate, si incontra solo “colà” ossia solo quando l’anima sarà separata dal corpo, sorge spontanea la domanda: lo stato in cui noi ci troviamo, ossia di unione col corpo, è uno stato di ignoranza?

Si, risponderebbe il saggio, e quindi noi, nello stato di unione col corpo ossia quando siamo in vita, siamo destinati alla perenne ignoranza! A meno che non ci sia la possibilità di produrre volontariamente in vita la separazione dell’anima dal corpo, ossia di sperimentare in vita lo stato di morte. In tal caso occorre essere in grado non solo di produrre il viaggio di andata (la separazione dal corpo) ma soprattutto avere in tasca il biglietto di ritorno, giusto il verso degli Aurei Detti:

Così, se, il corpo lasciando, nell’etere libero andrai,

Spirito Nume immortale, non più vulnerabil sarai”. (versione A. Reghini).

Il verso di Pitagora, sottoposto ad un’attenta analisi, presenta diverse situazioni che l’anima deve affrontare. Esaminiamole separatamente e brevemente:

“…Così, se, il corpo lasciando …” si riferisce al momento stesso della cessazione della vita fisica, quando si è dato l’ultimo respiro, ossia nel preciso istante in cui il movimento di liberazione ha inizio. Tale processo di liberazione non è un fatto scontato, si presume che avvenga nell’istante in cui l’uomo passa da uno stato di coscienza integrato al corpo, ad uno stato di coscienza fuori del corpo, ossia quando il corpo ha cessato di vivere. Il primo è ben noto all’uomo, il secondo è letteralmente sconosciuto. È quindi, a mio avviso il momento più difficile in quanto la coscienza deve essere pienamente consapevole del fatto di dover abbandonare un corpo che l’aveva ospitata in tutti gli anni in cui è stato in vita e se la coscienza non ha la lucidità, la prontezza e la consapevolezza di decidere quale direzione prendere rischia di essere risucchiata e annichilita da un corpo in cui sono attive le larve della putrefazione.

“… nell’etere libero andrai …” in queste poche ma espressive parole i Versi mostrano la loro potenza espressiva e danno una certezza al discepolo pitagorico che si è già liberato di un mondo fatto di dubbi e di incertezze. L’uso del verbo “andrai” garantisce che il concetto dell’ascesa ossia la promessa che il Maestro aveva fatto al Discepolo quando era ancora in vita non era la promessa vana di una vana speranza, ma il primo passo, il passo decisivo e definitivo in vista dell’indiamento il fine ultimo e sublime al quale aspira il discepolo pitagorico. Ma non basta la sola ascesa. Il verso seguente promette e garantisce il giusto trofeo che si riceve al termine dell’accidentato percorso.

“… Spirito Nume immortale, …”

Il sostantivo “immortale” non si riferisce a una semplice promessa, fornisce al discepolo una certezza, la certezza che al termine del viaggio il discepolo sarà nella giusta condizione di concludere quella palingenesi iniziata quando sedeva sui banchi della Scuola Pitagorica, proseguita al riparo della sua abitazione, durante il giorno con una vita sana e salutare, e soprattutto la notte nelle ripetute prove ed esperienze e nelle visioni beatifiche di una compiuta realizzazione spirituale.

“… non più vulnerabil sarai

Questo verso è il più difficile da intendere e da commentare. A mio vedere, il verso implica una promessa, la più significativa, la più ambita. Come dire, se avrai rispettato a puntino e osservato scrupolosamente le istruzioni contenute nei versi precedenti, non andrai incontro a una “semplice” morte, non sarai più vulnerabile, come vulnerabili sono i comuni mortali ma sarai capace, sarai in condizione di vincere la morte.

A mio avviso la vulnerabilità nel senso etimologico e filologico della parola sottintende la fragilità non solo fisiologica dell’uomo, bensì la sua instabilità di carattere, le ripetute debolezze che l’uomo dimostra nei passaggi più difficili della sua vita ed infine in quello più decisivo e misterioso, il momento della “morte”, momento in cui la vulnerabilità dell’uomo si fa più marcante: quando Pitagora richiede fermezza, e soprattutto rispetto di se stesso, l’uomo si dimostra debole e ostile verso se stesso.  “Qui si parrà la tua nobilitate”, disse Dante dialogando con la sua Mente. Verso più consono non si potrebbe citare per suggerire all’uomo che sta per intraprendere il suo viaggio di risalita: “E’ ora il momento di dimostrare chi sei, o chi dici di essere…”

1 - continua

 

 

Atanor: 100 anni fa la rivista di studi iniziatici di Arturo Reghini

https://www.youtube.com/watch?v=KGIzpB_wRPU&t=677s


 

HYGIEIA



Se il tuo genio ti venisse in sogno e ti chiedesse di esprimere tre desideri, cosa risponderesti? Risponderei: l'amore, per primo, subito dopo la realizzazione spirituale e al terzo posto metterei la salute.

Ma come potresti ottenere i primi due, senza la salute? Ergo, devi invertire l'ordine delle priorità, replica il genio.

Bene, risponderei la salute, la realizzazione spirituale e per ultimo l'amore.

E di nuovo il genio interviene: come pensi di ottenere salute e spiritualità, senza la potenza e la grazia dell’Amore? Infine dovetti ammettere ancora una volta di aver sbagliato e definii la priorità nel modo giusto, in primo luogo la salute, subito dopo l’amore e infine la realizzazione spirituale. La salute infatti non è solo un bene del corpo, ma soprattutto un bene dell'anima e per poter aspirare all'elevazione dell'anima e alla sua immortalità a seguito della separazione dal corpo, occorre si amare, ma l'amore si manifesta se i tuoi organi sensori e le tue antenne spirituali sono intatti ed efficienti, per cui occorre la salute.

Per concludere è lei YGEIA la regina della nostra vita, la via verso la luce e verso l'immortalità.


 

 

 

ULTIMO TRENO DELLA NOTTE



Scrive Giovanni Reale: “Le questioni metafisiche più importanti e le loro possibili soluzioni sono legate al grande problema della generazione, della corruzione e dell'essere delle cose, e sono particolarmente connesse all'individuazione della "causa" che funge da fondamento.”

Ossia il perché sono nato, il perché ho vissuto gli anni che ho vissuto, il perché dovrò esalare l’ultimo respiro e fondamentalmente il perché di tutto questo che si vede intorno a me e che esiste lontano da me.

Ebbene, se saprò dare una risposta o meglio una spiegazione coerente e convincente a tutti questi perché, potrò considerarmi un essere intelligente e meritevole di aver vissuto bene la mia vita, diversamente dovrei considerarmi simile se non uguale a qualunque animale stupido o intelligente che vive sulla terra. Con l’unica differenza: che a me è stato dato il dono della parola, della quale forse non ho saputo fare un buon profitto, se non quello preposto ai bisogni alimentari e riproduttivi.

Perché le cose si "generano", perché si "corrompono", perché "sono"?

La risposta più ovvia e più ingenua: nel mio caso sono stato generato da mia madre in seguito a una copula feconda con mio padre. L’aggettivo “fecondo” ha una sua importanza: non basta copulare, “l’animaletto” come lo avrebbe chiamato Gigi Proietti, deve poter colpire il bersaglio.

Tutto ciò rappresenta un “inizio” che prelude a una “fine”: l’animaletto, dopo esser diventato grande, un giorno dopo l’altro si corrompe, comincia a perdere pezzi (i primi ad andarsene sono i denti, i più importanti, perché senza denti non puoi mangiare) mi correggo, i primi sono i capelli e dopo tutto il resto, e quel poco che ti resta se ne va al diavolo in un processo indefinito di corruzione, che i più hanno chiamato vecchiaia alla segue inesorabilmente la morte. La chiamano morte quando quella nuvoletta che parte dai polmoni e che definiamo respiro prende “l’ultimo treno della notte”  in un viaggio di andata, senza ritorno, che non si sa bene dove va a parare.

Ma il buon Reale, grande filosofo e grande furbacchione, al termine della sua frase scrive “perché sono!”

E no, caro il mio filosofo, se tu cominci a tirare in ballo il verbo “essere” i conti non tornano più, c’è qualcosa che non va o che va in modo molto diverso.

“Ego sum qui sum” disse il conte Cagliostro; “Ehyeh”, lo affermò Mosè e non vedo perché non devo credergli.

E dunque, caro il mio furabacchione, mi consenta (lo diceva il grande Berlusca) di fare qualche ingenua domanda: perché “sono”?

Per non farla tanto lunga e per non annoiare i lettori di Cdc che hanno tante cose da leggere, concludo con alcune affermazioni del “napoletano” Plotino (un ottimista) che sul verbo “essere” la sapeva lunga.

Plotino è quel sapiente che riuscì a prendere “l’ultimo treno della notte” per ben quattro volte durante la sua breve esistenza trovando sempre all’arrivo il treno per il ritorno (sul tipo del pendolare Milano-Garbagnate) e quindi la doveva sapere lunga.

Infine Porfirio biografo di Plotino ha raccontato “che In verità, anch'io, Porfirio, posso attestare di essermi accostato e unito a Lui una volta sola: ed ora ho sessantotto anni. 'Apparve', dunque, a Plotino e gli 'si pose proprio accanto, il Fine supremo'. Meta, infatti, e Fine, per lui, si era l'accostarsi e l'unirsi col Dio che è al di sopra di tutto; ma egli raggiunse ben quattro volte, a quel ch'io mi so, nel tempo in cui gli ero vicino, questo Fine, con un atto ineffabile.”

Mi è bastata questa frase di Porfirio per comprendere che quel “ego sum qui sum” ha un grande significato solo se lo fai accomodare sull’ “ultimo treno di mezzanotte” in viaggio verso la stazione del “Fine supremo” dal cui primo binario forse sarà lecito, un giorno, prenotare un biglietto per il treno diretto a quel “Dio che è al disopra di tutto”. Plotino ci riuscì per ben quattro volte, io non pretendo tanto, ma di grazia se ci fosse un posticino libero, gradirei anch’io avere la fortuna di salire su quel fortunato “ultimo treno della notte”.

 

 

 

 

Emile BREHIER

L'ANIMA

 

Per Plotino la vera realtà è una vita spirituale unica che parte dall'Uno e termina nel mondo sensibile. È la vita spirituale ipostatizzata. Da qui il suo approccio al problema filosofico: spiegare una forma di realtà è determinare il punto esatto in cui essa si inserisce nella corrente spirituale; è reintegrarla in quella corrente, determinare quanto è lontana dal centro e qual è la serie di intermediari che la collegano ad esso.

Se ogni forma fosse compresa nel flusso della realtà solo in modo statico, come le parti di un'unica linea, la continuità del flusso esisterebbe per un osservatore esterno, ma non per ciascuno dei suoi frammenti. Per partecipare efficacemente alla vita spirituale, ogni forma di realtà deve essere per così dire dilatata o, in termini plotiniani, "assimilata" alla realtà superiore. La continuità sarebbe solo una parola se non si realizzasse all'interno di ogni forma successiva.

Da ciò si deduce il doppio aspetto di ciascuna delle ipostasi di Plotino e, in particolare, dell'Anima.

Infatti, da un lato, l'Anima ha un posto particolare nella catena delle ipostasi. "È l'ultima delle ragioni intelligibili e delle ragioni del mondo intelligibile; è la prima di quelle dell'universo sensibile, e per questo è in relazione con entrambe". (Enneade IV, 6, 3) "Ha una posizione intermedia tra gli esseri; ha una parte divina; ma, posto all'estremità degli esseri intelligibili e nei confini della natura sensibile, quest'ultima gli dà qualcosa di sé". (Enneade IV, 8, 7)

D'altra parte, l'anima è la potenza capace di passare da un capo all'altro della catena delle realtà e di assimilarsi a ciascuna di esse attraverso una serie di trasformazioni. "L'anima possiede molteplici poteri, in virtù dei quali occupa il principio, il mezzo e la fine delle cose". (Da un certo livello è sempre possibile salire a un livello superiore di vita spirituale che costituisce per essa un ideale o, come dice Plotino nel suo linguaggio metaforico, un demone. "Se riusciamo a seguire il demone che è al di là di noi, ci eleviamo noi stessi, vivendo la sua vita; quel demone a cui tendiamo è allora la parte migliore di noi stessi... Poi prendiamo per guida un altro demone, e così via, fino a raggiungere colui che è più alto. Perché l'anima è molte cose; è tutte le cose, quelle superiori e quelle inferiori, e si estende su tutto il dominio della vita. Ognuno di noi è un mondo intelligibile; legati alle cose inferiori dal corpo, tocchiamo le cose superiori con l'essenza intelligibile del nostro essere. "( Enneade III, 4, 3.)

Come sostiene Inge, l'anima è il grande viaggiatore nel paese metafisico. Per l'immaginazione realistica di Plotino, essa è l'espressione stessa della continuità che esiste tra le forme più umili della vita psichica e quelle più elevate della vita spirituale. Più che altro è slancio e movimento.

La psicologia plotiniana studia i vari livelli in cui si trova l'anima, dal più alto - l'estasi e la comunione con l'Uno, dove l'anima non è più un'anima" (VI, 7, 35) - al più basso, dove è una forza organizzatrice del mondo sensibile. Tra questi due punti si colloca quella che chiamiamo propriamente psicologia, cioè lo studio delle facoltà umane di comprensione, memoria, sensazione e passioni, facoltà che compaiono a un certo livello nella vita dell'anima.

Da qui l'ordine da seguire nello studio della psicologia di Plotino: prima tratterò della funzione propria dell'anima come intermediaria tra il mondo sensibile e quello intelligibile e come organizzatrice del primo; poi del viaggio dell'anima attraverso le varie regioni della realtà e del suo

destino; infine, mi soffermerò sui problemi psicologici in senso stretto, che riguardano le funzioni della coscienza.

Ma prima di affrontare il primo punto, e come necessaria introduzione, devo sottolineare il contrasto che, nel pensiero di Plotino, esiste tra l'anima concepita come forza organizzatrice dei corpi e l'anima concepita come sede del destino. Dal primo punto di vista, il contatto dell'anima con il corpo è il risultato della sua normale funzione, è buono e necessario. Al contrario, dal secondo punto di vista, il contatto dell'anima con il corpo è il risultato della sua impurità e dei suoi vizi.

Secondo l'azzeccatissimo suggerimento di Inge, questo contrasto è dovuto al fatto che in Plotino si scontrano due diverse tradizioni riguardo alla natura dell'anima: quella animistica, rappresentata dagli Stoici, che considera l'anima come una forza organizzatrice, e quella orfico-pitagorica, che giudica l'ingresso dell'anima nel mondo sensibile come una decadenza.

Va aggiunto, naturalmente, che Plotino ha trovato questa contraddizione in Platone, e che la cita espressamente. Dopo aver indicato i filosofi che hanno parlato dei rapporti tra l'anima e il corpo, aggiunge: "Ci resta il divino Platone, che ha detto molte cose belle sull'anima... e speriamo di ottenere qualcosa di chiaro". Che cosa dice dunque questo filosofo? Sembra che non dica sempre la stessa cosa. Da un lato, dice che essa è nel corpo come in una prigione e in una tomba... Nel Fedro, la perdita delle ali è la causa della sua caduta? Quindi, secondo tutti questi passi, l'ingresso dell'anima nel corpo è qualcosa di riprovevole. Ma, parlando nel Timeo dell'universo visibile, egli loda il mondo e lo dichiara un dio benedetto; l'anima è un dono della bontà del Demiurgo, destinato a introdurre l'intelligenza nell'universo. Perciò l'anima dell'universo è stata inviata da Dio nell’universo, così come l'anima di ciascuno di noi, affinché l'universo sia perfetto". (Enneade IV, 8,1.)

Ma in Plotino questo contrasto non era solo il risultato di un conflitto di tradizioni; egli ne aveva un vivo sentimento interiore. Come può l'anima, quell'essere vile che, ammirando le cose sensibili, "riconoscendosi inferiore ad esse, si pone più in basso delle cose soggette a nascere e a perire, e si ritiene la più spregevole e la più mortale delle cose che onora", essere la stessa "che ha creato tutti gli animali infondendovi la vita, che ha creato il sole e l'immenso cielo e vi ha messo ordine conferendogli un regolare moto rotatorio?" (Enneade V, 1, 2).

Questo conflitto è solo una manifestazione particolare del grande conflitto che ho evidenziato nel pensiero di Plotino: l'universo rappresentato come ordine razionale e l'universo rappresentato come luogo del destino. Esso viene risolto con una duplice elaborazione: da un lato, trasformando la dinamica dell’anima in senso favorevole alla sua visione del destino; dall'altro, cercando un accordo tra il pensiero greco e la teoria dell’anima. Gli ultimi grandi rappresentanti di tale teoria prima di Plotino, gli Stoici, cercarono tuttavia di restringerla e di mostrarne i limiti precisi. Tra le forze motrici della natura ammettevano l'esistenza di potenze inferiori all'anima, come la forza coesiva nei minerali o la forza vegetativa nelle piante. Nel senso preciso del termine, l'anima ha due caratteristiche specifiche: la rappresentazione e la tendenza, e può essere attribuita solo agli animali.

Al contrario, Plotino conferisce all'anima un'estensione illimitata. Ogni forza attiva in natura è un'anima o è legata a un'anima. Non solo il mondo ha un'anima e le stelle hanno un'anima. Anche la terra ha un'anima, grazie alla quale "dà alle piante il potere di generare"; a causa di quest'anima "una zolla di terra estratta dal terreno non è più la stessa di quando c'era; è evidente che le pietre aumentano di dimensioni finché sono attaccate al terreno e che smettono di crescere non appena vengono estratte dal terreno". (E. IV, 4, 27) Non esistono esseri inanimati nell'universo; se crediamo il contrario, è perché siamo ingannati da un'illusione: "diciamo che qualcosa non vive perché vive senza ricevere dall'universo un movimento accessibile ai nostri sensi, perché la sua vita ci sfugge; l'essere la cui vita è percepibile ai nostri sensi è composto da esseri che vivono in modo impercettibile alla nostra vista, ma i cui meravigliosi poteri si esercitano sulla vita dell'animale composto. L'uomo non potrebbe muoversi in tanti modi se il suo movimento derivasse da poteri interiori del tutto privi di anima; e l'universo sarebbe privo di vita se ognuna delle cose che lo compongono non vivesse di vita propria.... Ogni essere possiede una potenza efficace in quanto è stato fatto e formato nell'universo; ha quindi una parte di anima che gli proviene dall'universo". (E. IV, 4, 36, 37; cfr. anche E. VI, 7, 11).

A causa della sua fiducia nella vita, Plotino accettò con particolare attenzione la teoria stoica delle ragioni seminali. La ragione seminale è la forza che contiene in uno stato indivisibile tutte le caratteristiche che si svilupperanno separatamente e successivamente in un essere vivente; è qualcosa come la legge di sviluppo di quell'essere. Plotino la presenta spesso come un intermediario tra l'anima e l'essere vivente: "la ragione sarebbe in un certo senso uno degli atti dell'anima, un atto che non può esistere senza un soggetto agente. Tali sono le ragioni seminali; esse non esistono nell'anima e non sono semplicemente anime". (E. VI, 7, 5.) Ma a volte la ragione viene identificata con l'anima: "Le anime, nell'universo, non sono che frammenti della ragione universale. Tutte le ragioni sono anime". (VI, 2, 18.) Quindi la ragione seminale è solo un lato dell'attività dell'anima e non designa una forma di essere diversa dall'anima.

Questo vitalismo intemperante, questo panpsichismo, la cui eco risuona chiaramente nei pensatori del Rinascimento e persino in Leibniz, in Plotino non è altro che un mezzo per portare le forze della natura nella grande corrente della vita spirituale. E in effetti, essendo l’anima una forza naturale non è solo una forza motrice e attiva, confusa con la materia che comanda; è anche un'attività contemplativa che porta in sé l'ordine che impone, poiché ha contemplato questo ordine nell'Intelligenza. Da un lato, l'anima è in contatto con l'Intelligenza che è l'ordine stesso; dall'altro, è in contatto con la materia che ubbidisce e organizza.

È una forza organizzatrice nella sua parte inferiore solo perché, nella sua parte superiore, è un'attività contemplativa. Se Plotino attribuisce l'organizzazione e la contemplazione a due anime distinte o a due parti dell'anima, e se a volte oppone queste due parti come l'anima in senso stretto alla natura, queste differenze di espressione non alterano fondamentalmente le sue idee. In tutti i casi Plotino afferma che l'azione organizzatrice presuppone una contemplazione immutabile dell'ordine. "La parte principale dell'anima è in alto; sempre vicina alla vetta, in eterna pienezza e illuminazione, vi rimane e partecipa all'intelligibile; l'altra parte dell'anima che partecipa alla prima, agisce eternamente, seconda vita che proviene dalla prima vita, attività che si proietta ovunque e che è presente ovunque. L'anima, procedendo, lascia la sua parte superiore nel luogo intelligibile che la sua parte inferiore ha abbandonato; infatti, se la processione le facesse abbandonare quella parte superiore, non sarebbe più in tutto, ma solo dove la processione conduce." (E. III, 8, 5.)

È così che la produzione di cose sensibili non danneggia la vita spirituale dell'anima, che rimane intatta. Non significa né fatica né inquietudine per l'anima; "il corpo non danneggia l'anima che lo comanda, poiché essa sussiste nelle altezze intelligibili, amministrando tutto. L'universo animato è nell'anima che lo contiene; non c'è nulla in esso che non partecipi all'anima; è come una rete gettata nel mare: vive interamente permeata dall'acqua, ma non può appropriarsi dell'acqua in cui vive. E la rete si allarga il più possibile insieme al mare.... Così l'anima è sufficientemente grande per natura e può abbracciare in una sola e medesima potenza tutta la sostanza corporea; non ha una quantità limitata; ovunque si estenda un corpo, lì si trova; se non ci fossero corpi, la sua immensità non sarebbe intaccata; rimarrebbe così com'è". (E. IV, 3, 9).

L'anima del mondo assomiglia, quindi, a un oceano spirituale che bagna la realtà sensibile; non è come un operaio che ricorda, calcola e combina. In questo senso, la dottrina dell’anima di Plotino è lontana da qualsiasi antropomorfismo: come potrebbe Zeus, l'anima del mondo, ricordare i periodi passati del mondo, se ce ne sono un numero infinito? Ma "vede che questa infinità è una, e che c'è una sola scienza e una sola vita". (IV, 4, 9) "L'ordine del mondo è l'atto di un'anima che dipende da una sapienza permanente, la cui immagine è l'ordine interiore di quell'anima. E poiché questa sapienza non cambia, non deve cambiare nemmeno l'ordine, perché non c'è momento in cui l'anima distoglie lo sguardo da essa; se cessasse, l'anima cadrebbe nell'incertezza". (IV, 4,10).

Secondo quanto è detto, le forze all'opera nell'universo sono forze immutabili perché sono la contemplazione di un ordine immutabile. Esse non agiscono "come il medico che parte dall'esterno e procede parte per parte, che tenta e delibera a lungo, ma come la natura che guarisce partendo dal principio e senza bisogno di deliberare". (IV, 4, 11.)

La produzione di cose diverse, lungi dal significare un attacco alla loro immutabilità, la presuppone. "Il principio regolatore del mondo conosce il futuro come conosce il presente, con la stessa certezza e senza ragionamenti. Se non conoscesse il futuro che produce, non lo produrrebbe con cognizione di causa e secondo un modello; la sua produzione sarebbe accidentale e lasciata al caso. Quindi, nella misura in cui produce, è immutabile. Se è immutabile nella misura in cui produce, produce solo secondo il modello che porta in sé; produce tanto, in un solo e medesimo modo; perché, se cambiasse il suo modo di produrre a ogni istante, cosa impedirebbe il fallimento della sua creazione? Il governatore del mondo non deve mai sbagliare, non deve mai variare, anche se a volte si pensa che il governo del mondo sia una fatica. Ci sono difficoltà solo quando si lavora in un lavoro strano e dove non si è il padrone. Ma quando si è il padrone, e l'unico padrone del proprio lavoro, si ha bisogno solo di sé stessi e della propria volontà". (E. IV, 4, 12.)

Si vede chiaramente che la dottrina dell’anima di Plotino è quella di trasmutare le forze cosmiche in attività spirituali. Ora, esiste una parte inferiore dell'anima, al di sotto della parte dell'anima che contempla l'ordine intelligibile, che possa avere una propria attività creativa? Assolutamente no. Quella parte inferiore, produce solo perché è una ragione della natura, cioè "una contemplazione e un oggetto di contemplazione.... L'essere che contempla produce un oggetto di contemplazione. I geometri, per esempio, producono figure mentre contemplano. Ma io (è la natura che parla) non ne disegno nessuna; contemplo, e le linee dei corpi si disegnano come se scivolassero dal mio petto". (E. III, 8, 3, 4).

La potenza che, per produrre, si volge verso l'opera che compie, è, per così dire, solo un caso limite in cui la contemplazione è indebolita all'estremo; "l'azione non è che un'ombra della contemplazione e della ragione". È facile scoprire le intenzioni di Plotino in questa trasformazione della teoria animica. Per lui l'unica vera realtà è un ordine spirituale.

L'unica cosa che rimane dell'essere spirituale che si riflette, della legge o della ragione che si esprime, è il non-essere, la materia, il luogo vuoto della realtà in cui l'ordine si realizza. Un ordine o una ragione non possono esistere in quanto tali se non come oggetto di contemplazione o di scienza; anche nel mondo sensibile l'unica forza reale è la contemplazione e il suo oggetto. Le uniche forze efficaci sono di natura spirituale. La natura è come un sogno di questo ordine riflesso nella materia.

Questa dottrina spiritualista è quanto di più radicalmente opposto si possa concepire a tutta la fisica meccanicistica dello spirito. I suoi principi sono: Non considerare mai le parti come i veri elementi del tutto, ma come le produzioni del tutto; di conseguenza, considerare l'idea o la produzione del tutto come più reale delle parti stesse. Questi principi portano a stabilire relazioni di natura puramente spirituale tra le parti dell'universo; in questo modo il mondo sensibile diventa trasparente allo spirito e le forze che lo animano possono entrare nella grande corrente della vita spirituale.

L'intero sistema di Plotino nasce dallo sforzo di sopprimere tutto ciò che può essere opaco per la vita dello spirito nella realtà. L'anima non è che un barlume della vita spirituale. È l'espressione concreta, vivente, rappresentativa della forza che genera ordine nelle cose sensibili grazie alla sua contemplazione dell'ordine intelligibile.

L'ordine delle cose sensibili è rivelato dalla contemplazione dell'ordine intelligibile.

Ma c'è un evidente contrasto tra la vita universale e ordinata del mondo così come si rivela, in particolare nelle leggi dell'astronomia, e l'esplosione spontanea di molteplici vite che appaiono in disordine sulla terra. Da un lato, dunque, un ordine fisso; dall'altro, generazione e corruzione, vite in formazione e in decadenza.

Dopo Aristotele, questo contrasto è stato oggetto di gran parte della speculazione fisica e metafisica dell'antichità. Molti filosofi si sono proposti di far rientrare le molteplici vite, i destini particolari, nell'ordine dell'universo. Sappiamo, in particolare, come lo stoicismo risolse la questione.

Le singole anime sono frammenti dell'anima universale e sono soggette a un unico ordine, il Fato, che è la "connessione delle cause". Nonostante il declino dello stoicismo ai tempi di Plotino, la teoria della connessione delle anime nel sistema cosmico sopravvisse nelle credenze propagate dall'astrologia. Il culto del Sol invictus, che Aureliano istituì a Roma, comprendeva una teologia in cui la relazione delle anime con il cosmo era uno degli articoli principali: "Il sole, dio supremo", dice Franz Cumont, "fuoco dotato di ragione, è il creatore di ragioni particolari che dirigono il microcosmo umano. A lui si attribuisce la formazione delle anime; il suo disco splendente, emettendo i suoi raggi, è in grado di creare un'anima.

Egli invia costantemente particelle di fuoco nei corpi che risveglia alla vita e, dopo la morte, li riporta a sé. . . Nei bassorilievi mitraici, uno dei sette raggi che circondano la testa del Sole invitto si estende al toro, l'animale cosmogonico". Alcuni neoplatonici del II secolo, come Numenio, accettarono queste opinioni e, secondo la testimonianza dello stesso Plotino, possiamo vedere come cercarono di accordarle con i testi di Platone (IV, 3, 1). Plotino comprese anche molto bene l'intima relazione tra le credenze astrologiche, la tesi stoica del Fato e il riassorbimento delle anime individuali nell'anima universale (III, 1, 2, 7).

A questo insieme di credenze si oppone una concezione dell'anima completamente diversa, già presente nei miti platonici e sostenuta dagli gnostici conosciuti da Plotino. Essa ritiene che l'anima non sia di questo mondo; è solo per caso che viene coinvolta nell'ordine visibile e, per sua sfortuna, come risultato di una caduta. Per l'anima caduta si è formato l'ordine sensibile; ma l'anima ha una sua spontaneità radicale che le permette di riscattarsi.

Plotino attribuisce un'importanza fondamentale a questo conflitto di idee. Infatti, se la nostra anima fosse una porzione dell'anima universale, come il nostro corpo lo è del suo corpo, il nostro destino si limiterebbe a "subire l'influenza del moto circolare del cielo" (IV, 3, 7, fine). (IV, 3, 7, fine)

Perché le dottrine che concepiscono la nostra anima sono una porzione dell'anima universale, quest'ultima si frappone come uno schermo opaco tra noi e il mondo intelligibile.

D'altra parte, come possiamo ammettere che le anime siano isolate e separate l'una dall'altra, e non sentiamo una reciproca simpatia delle anime che garantisce la loro unità? "Noi uomini abbiamo in comune la sofferenza e la gioia, e sperimentiamo naturalmente l'attrazione dell'amicizia, e l'amicizia nasce dall'unità delle anime. Se gli incantesimi magici ci avvicinano e comunicano a grandi distanze, è grazie all'unità dell'anima. Le frasi pronunciate a bassa voce producono affetti lontani e sono udite a distanze immense; e questo permette di comprendere l'unità di tutte le cose che deriva dall'unità dell'anima" (E. IV, 9, 3).

Ma, stando così le cose, non sarebbe necessario negare la reale esistenza di una molteplicità di anime, e non ricadiamo nella dottrina che fa dei nostri pensieri "i pensieri di un altro essere...? Eppure è necessario che ciascuno sia sé stesso, che i nostri pensieri e le nostre azioni siano nostri, che le nostre azioni, buone o cattive, vengano da noi" (III, 1, 4.). (III, 1, 4.) In una parola, come si concepiscono le relazioni delle anime particolari con l'anima totale?

Le anime parziali sono parti dell'anima totale, e in che senso va intesa la parola parte? Se si immagina l'anima dell'universo come una massa corporea frammentata, si otterranno, è vero, anime multiple, ma a costo dell'unità. "L'anima si consumerebbe in un'infinità di punti". (IV, 9, 4) "Questo sarebbe distruggere l'anima (una) e ridurla a un semplice nome; se mai è esistita, è come il vino diviso in molte anfore, dicendo del vino che è in ciascuna delle anfore che è una parte dell'intera massa del vino". (IV, 3, 2.)

Le singole anime sono "parti dell'anima totale nel senso in cui, in un animale, si direbbe che l'anima dell'alluce è parte dell'anima del piede"? Accettando questa nuova ipotesi si manterrebbe l'unità della vita universale, ma non si spiegherebbe in alcun modo la molteplicità delle vite particolari. Infatti, secondo questa ipotesi "è necessario che l'anima sia la stessa dappertutto, che esista nella sua interezza dappertutto, una e la stessa in molti esseri allo stesso tempo. Ma allora non si può dire che da una parte c'è l'anima universale e dall'altra le parti di quest'anima". Si può forse aggiungere che la diversità dei poteri che l'anima universale esercita nelle diverse parti dell'universo non basterebbe a spiegare la molteplicità delle anime? Per esempio, l'anima universale si manifesta qui come potenza vegetativa, là come potenza sensibile. Questo però non spiega nulla, perché allora ogni anima, identificata con una potenza particolare, non possiederebbe, come invece possiede, almeno di diritto, le stesse potenze dell'anima universale. "Ciascuna delle parti, da sola, sarebbe incapace di pensare; solo l'anima universale ne sarebbe capace, oppure la pretesa parte sarebbe un'anima dotata di ragione, dotata di ragione quanto l'anima universale, e quindi sarebbe un'anima dotata di ragione quanto l'anima universale totale, diventando così identica a quest'anima e non una sua parte". (E. IV, 3, 3.)

Così, o si afferma l'unità a scapito della molteplicità, o la molteplicità a scapito dell'unità. È necessario concepire questa molteplicità e questa unità in modo totalmente diverso. In primo luogo, dobbiamo insistere sul fatto che le anime multiple sono omogenee tra loro e che hanno tutte, per così dire, la stessa capacità e possibilità di elevarsi a una vita spirituale. "Le nostre anime si elevano verso gli stessi oggetti dell'anima del tutto, e la loro funzione intellettuale è simile" (IV, 3, 1.). (IV, 3, 1.) "La nostra anima è della stessa specie dell'anima degli dèi; quando la consideriamo a parte e senza l'eccedenza che la avvolge, la troviamo preziosa come l'anima del mondo". (V, 1, 2) Ogni anima è in potenza in tutti gli esseri, e quindi è in unità con le altre anime. Poiché "anche gli altri, come noi, sono esseri, noi siamo tutti esseri, essi e noi siamo esseri; tutti insieme siamo esseri; tutti noi, dunque, non siamo che uno". (VI, 5, 7) Questa unità non è l'unità astratta di un punto. È l'unione delle anime che, attraverso la loro parte superiore, partecipano tutte alla stessa contemplazione intelligibile. Ma noi ignoriamo la nostra unità perché guardiamo fuori dall'essere da cui dipendiamo. Siamo tutti come una testa con molte facce rivolte verso l'esterno che non si rendono conto che all'interno della testa c'è n’è una sola. Se fosse possibile tornare spontaneamente, o se avessimo la fortuna che "Atena ci tiri fuori dalla testa", saremmo in grado di tornare spontaneamente, o se avessimo la fortuna che "Atena ci tiri fuori dalla testa i nostri capelli" vorremmo vedere sia Dio stesso e l'essere universale. Poiché non c'è alcun punto in cui porre i propri limiti per dire: "Questo è quanto sono", dobbiamo rinunciare a separarci dall'essere universale.

Non si può quindi dire, citando Plotino, che un'unica anima sia frammentata in più anime. Il problema della molteplicità delle anime si risolve facendo appello alla vita spirituale, nel cui massimo grado le anime raggiungono un tale stato di unione che non si può più parlare di molte anime. È uno stato di unione che si ipotizza in un'unica anima che precede tutte le altre. O, se si preferisce, l'anima singola è come un sistema la cui unità corrisponde a quella del sistema di idee intelligibili che contempla. "Le anime hanno, ciascuna, un legame di dipendenza con un'intelligenza e sono le ragioni delle intelligenze… Corrispondendo ciascuna a un intelligibile meno diviso di loro, hanno tuttavia la volontà di dividersi, ma non possono raggiungere il fine di questa operazione; conservano la loro identità con la differenza; ciascuna sussiste come essere, ma tutte insieme non formano che un solo essere. Ecco il punto principale della nostra tesi: tutte le anime procedono da un'unica anima; queste molteplici anime che procedono da un'unica anima sono come intelligenze; sono separate e non separate". (E. IV, 3, 5).

La moltiplicazione delle anime non consiste nella creazione di nuovi esseri, ma in un allentamento della tensione dei legami che le legavano all’anima universale e in un'accentuazione della particolarità di ogni anima. Mentre alcune anime "non hanno abbandonato l'anima universale, loro sorella" (IV, 3, 6) e "nascondono nell'universalità del mondo intelligibile ciò che possiedono di particolare, ve ne sono altre che, per così dire, balzano fuori dall'essere universale in un essere particolare in cui dirigono un'attività particolare" (VI, 4, 16.) Ogni anima o è universale in atto e particolare in potenza, oppure è "una con l'anima universale in atto e particolare in potenza". (VI, 4, 16.) Ogni anima o è universale in atto e particolare in potenza, essendo allora una cosa sola con l'anima universale, oppure, "deviando la sua attività, diventa un'anima particolare, anche se in un altro senso (in potenza) conserva la sua universalità". (Ibid.)

Infine, la molteplicità delle anime è quella di una vita spirituale che gradualmente diminuisce e svanisce dallo stato di unione a quello di dispersione. Tutte le immagini che Plotino utilizza per esprimere il suo pensiero tendono a mettere in primo piano l'idea di continuità tra i vari livelli della vita delle anime. È, dice riferendosi all'unica anima da cui tutte le anime procedono, "come se una città avesse un'anima. Ha degli abitanti, ciascuno dotato di un'anima, ma l'anima della città è più perfetta e più potente, anche se nulla impedisce alle altre di essere della sua stessa natura". O ancora: "Da un'unica anima derivano anime molteplici e diverse, così come da un unico genere derivano le specie superiori e inferiori". (IV, 8, 3).

Secondo questa teoria, il mondo delle anime è sottratto al dominio di un destino interiore del mondo, ed è direttamente collegato all'ordine intelligibile.

Plotino si trovava in presenza di una difficoltà analoga, ma molto più grande. In definitiva, la moltiplicazione delle anime termina con la loro dispersione nella materia e con la loro unione con corpi particolari ai quali conferiscono la vita. È un effetto naturale e necessario della legge della processione, della progressiva diffusione del potere spirituale. Un corpo vive perché ha ricevuto "come un'illuminazione o un'eccitazione" il segnale dell'anima che era preparato a ricevere. Di conseguenza, non c'è nulla che non sia un fatto naturale e necessario.

Ma, d'altra parte, i miti di Platone e le credenze religiose prevalenti al tempo di Plotino rappresentavano la caduta dell'anima nel corpo come il risultato di un'azione spontanea dell'anima, un'azione cattiva in sé, conseguenza e principio allo stesso tempo di tutte le disgrazie dell'anima. Plotino si chiede: come si può conciliare questo con quello? "Se l'anima (che illumina i corpi) non è cattiva in sé, se questo è il suo modo di entrare e di essere presente nei corpi, che senso hanno le periodiche ascese e discese delle anime? Perché le punizioni? Perché la trasmigrazione nei corpi di altri animali? Questi sono insegnamenti ricevuti dai filosofi antichi che meglio si sono occupati delle questioni dell'anima; è conveniente mostrare che la nostra tesi concorda, o almeno non è in disaccordo, con la loro". (E. VI, 4, 16.)

Per quanto buona possa essere la volontà di Plotino in questo senso, dobbiamo sottolineare che nella sua teoria permane un persistente contrasto tra le due concezioni. Da un lato, la produzione di corpi viventi e animati è considerata una funzione naturale dell'anima. "Le anime non devono esistere da sole senza che i prodotti della loro attività si manifestino; è insito in tutta la natura il prodursi e lo svolgersi da un principio indivisibile - una specie di seme - in un effetto sensibile.... Essendo la materia eterna, è impossibile, dal momento che esiste, che non partecipi del principio che dà il bene a tutte le cose, nella misura in cui esse sono in grado di riceverlo". (E. IV, 8, 6) “L'animazione dei corpi entra nell'ordine universale. Tutto nel mondo è determinato dalla sottomissione a un'unica ragione; tutto è regolato: la discesa e l'ascesa delle anime, così come tutto il resto. La prova dell'armonia delle anime con l'ordine universale, la prova che esse non agiscono isolatamente ma coordinano le loro discese e si accordano con il moto circolare del mondo, è che le loro condizioni, le loro vite e le loro volontà sono simboleggiate dalle figure che formano i pianeti e si armonizzano in un unico tema melodico. Non potrebbe essere così se nell'universo non ci fossero azioni e passioni in corrispondenza con questa vita delle anime, e se non ci fossero volontà in corrispondenza con…i loro periodi, le loro disposizioni e la loro vita nel corso che seguono". (E. IV, 3, 12.)

L'anima tende, senza riflettere prima, verso il corpo che l'anima del mondo le ha destinato; "si muove verso il corpo che più le assomiglia... Quando arriva il momento scende, come al suono di un araldo". (IV, 3, 12, 13 e VI, 7, 7.) L'anima si estende così naturalmente, in virtù di una processione necessaria, dal mondo intelligibile dove rimane sempre la sua parte superiore, alla pianta che stimola e anima. "Sembrerebbe che l'anima si estenda alle piante; e in effetti si estende, poiché il principio vegetativo appartiene all'anima. Ma non si estende con tutti i suoi poteri; arriva fino alle piante perché, scendendo nella regione inferiore, produce un'altra esistenza nella stessa processione, per benevolenza verso gli esseri inferiori; ma lascia che la sua parte superiore connessa con l'intelligenza, e che è la sua stessa intelligenza, rimanga immobile in sé stessa". (E. V, 2, 1.)

Ma in altre parti della sua opera Plotino si esprime diversamente, e l'orgoglio e l'audacia dell'anima sono allora le cause della sua caduta in un corpo. "Le anime contemplano la loro immagine riflessa come nello specchio di Dionisio e si scagliano su di essa dall'alto". (IV, 3, 12) L'anima non si accontenta di irradiare luce, ma è attratta dal riflesso che essa stessa produce. Mentre alcune rimangono immobili, altre sono attratte dal riflesso brillante che producono nelle cose che illuminano.... Trattenuti nei loro corpi, i legami magici li incatenano e le sollecitazioni proprie della natura del corpo le possiedono interamente. (E. IV, 3, 17)

Non si tratta più dell'eterna processione con cui l'anima si estende, ma di una decisione positiva e momentanea con cui l'anima si esclude dalla corrente della vita spirituale e ne viene posseduta. "Le anime passano dall'universo alle loro parti; ognuna vuole esistere da sola, si stanca di vivere con gli altri e si separa. Quando rimane a lungo in questo allontanamento e in questa separazione dal tutto senza dirigere lo sguardo verso l'intelligibile, diventa un frammento, si isola... attratta da un solo oggetto sottratto al tutto, si estranea da tutto il resto. Si concentra su quest'unico oggetto, che subisce l'azione distruttiva di tutti gli altri, si esclude dal tutto, governa con difficoltà il suo oggetto particolare con cui è ora in contatto; lo preserva dagli oggetti esterni, è presente in esso e infine lo penetra in larga misura. Questa è l'origine di ciò che si chiama perdita delle ali". (E. IV, 8, 4)

È infatti necessario distinguere tra l'atto naturale e necessario con cui l'anima avvolge un corpo e l'atto con cui aderisce volontariamente, per così dire, al corpo. Al momento della riflessione nella materia (il corpo vivente) "essa è ancora al suo posto, nella regione intermedia. Ma riflette di nuovo l'immagine; in questo secondo sguardo le ha già dato una forma e, gioiosa, scende verso di essa" (III, 9, 3). (III, 9, 3.)

Così vediamo che, nel mito della discesa, l'anima va "al di là del necessario", cioè al di là di ciò che è richiesto dalla legge di processione. Una volta completata la processione, l'anima ha nell'intelligibile la sua parte superiore, più giù un riflesso di sé nella materia, e tra la parte superiore e il riflesso, una parte intermedia. Solo allora avviene la "discesa": la parte superiore rimane nell'intelligibile, ma la parte intermedia dell'anima si precipita nel suo riflesso.

Tra queste due rappresentazioni c'è un'innegabile contraddizione. Plotino non fornisce i mezzi per superarla, ma forse è possibile spiegarla. La teoria della processione presenta l'anima come un'attività spirituale ipostatica che si estende dal mondo intelligibile a quello sensibile. Ma questa ipostasi che costituisce la nostra anima non è noi stessi, o almeno non del tutto. A questa realtà che esiste in sé e costituisce la nostra anima si aggiunge il nostro atteggiamento nei suoi confronti; possiamo infatti essere in essa su livelli diversi, separati dalla sua parte superiore.

Ora, che cos'è il noi che si differenzia dall'anima, ma non del tutto? Plotino sembra talvolta avere l'intuizione di un'attività propriamente soggettiva che non può essere trasformata in cosa e ipostasi. La nostra anima si estende davanti a noi come un oggetto e, propriamente, non è l'anima ad essere dotata di un movimento discendente, ma è il corpo che si avvicina ad essa per essere illuminato. Siamo in grado di identificarci con il riflesso e anche di separarci, e in questo modo introduciamo una sorta di scissione tra noi e la parte superiore della nostra anima, una scissione che solo per il bene della nostra stessa anima possiamo essere in grado di identificarci con il riflesso.

Esistiamo senza rompere la continuità tra il mondo intelligibile e quello sensibile. In altre parole, il nostro io, ciò che siamo, non si adatta alla nostra anima. "Essendo padroni di cose così grandi", si chiede Plotino dopo aver enumerato le proprietà dell'anima, "perché non le percepiamo? Perché non esercitiamo queste attività per la maggior parte del tempo? Perché alcuni uomini non le esercitano affatto? Queste cose importanti sono sempre in attività, sia l'intelligenza che il principio primo? Anche l'anima è animata da un movimento eterno, ma non percepiamo tutto ciò che è nella nostra anima. Solo ciò che noi percepiamo attraverso la sensazione ci raggiunge; finché un'attività non si trasmette alla sensibilità, non passa attraverso tutta l'anima. Poiché abbiamo la facoltà di percepire, ignoriamo il fatto che non siamo un frammento dell'anima, ma l'anima intera. Ogni parte dell'anima vive e agisce sempre secondo la propria funzione, ma noi la conosciamo solo nella misura in cui ne abbiamo comunicazione e percezione (ossia nel contatto col sensibile)".

Così vediamo che, nonostante la logica del sistema della processione, la nostra stessa attività, il nostro atteggiamento spirituale soggettivo - se possiamo usare questa espressione - tende, in Plotino, a staccarsi da quell'attività spirituale trasformata in ciò che è l'ipostasi. Sebbene sia l'ordine stesso delle cose a fornirgli le immagini di questa attività, sebbene non sia esso stesso a stabilirle, non è del tutto imprigionato, poiché può muoversi.

"Questo principio già citato domina l'intera psicologia di Plotino, intesa nel senso speciale del termine. Negli stati spirituali superiori, il sentimento della personalità scompare, così come l'attenzione alle cose esterne. L'uomo che ha raggiunto il mondo intelligibile non conserva un ricordo completo di sé; non ricorda che è stato lui, pinco pallino, a contemplare; non sa se è un'intelligenza o un'anima. Pensiamo a quegli stati di contemplazione molto profonda che a volte si verificano quaggiù, dove il pensiero non si ripiega su sé stesso. Noi possediamo noi stessi, ma tutta la nostra attività è diretta verso l'oggetto contemplato, diventiamo quell'oggetto, ci offriamo ad esso come materia che esso plasma; non siamo più noi stessi se non in potenza".

Le normali funzioni dello spirito, il ragionamento, la memoria, la sensibilità, non sono il centro, ma derivazioni, limitazioni della vita spirituale. Per Plotino, la coscienza, lungi dall'essere l'essenziale, è un accidente, qualcosa di simile a un rilassamento. Quando l'anima è meno cosciente, possiede le proprie qualità in modo più forte (IV, 4, 4). Pensiamo sempre però non sempre percepiamo il nostro pensiero. (IV, 3, 30) "Questa azione (del pensiero) sfugge quando non è in relazione con un oggetto sensibile, perché solo attraverso la sensazione è possibile mettere in relazione la sua attività con gli oggetti intellettuali.... L'impressione sembra aver luogo quando il pensiero si ritira in sé stesso, e quando l'essere in azione nella vita dell'anima diventa, per così dire, invertito, come l'immagine in uno specchio quando la sua superficie lucida e brillante è immobile.... Se la parte di noi stessi in cui si manifestano i riflessi della ragione e dell'intelligenza non viene scossa, i riflessi sono visibili, e allora non solo l'intelligenza e la ragione conoscono, ma si ha anche una sorta di conoscenza sensibile di quell'azione. Ma se lo specchio si frantuma a causa di una sovrastante agitazione dell'armonia del corpo, la ragione e l'intelligenza agiscono senza riflesso, e allora c'è pensiero senza immagini.... Anche nella veglia si possono trovare attività molto belle, meditazioni e azioni non accompagnate dalla coscienza. Chi legge, per esempio, non è necessariamente consapevole di leggere, soprattutto se legge con attenzione".

Da ciò consegue che l'anima, nel più alto grado di vita spirituale, non ha memoria, perché l'anima è al di fuori del tempo, non ha sensibilità, perché l'anima non ha relazione con le cose sensibili, e non ha ragionamento o pensiero discorsivo, perché "non c'è ragionamento nell'eterno". Tra le funzioni normali della coscienza e della natura intima dell'anima c'è una contraddizione.

La spiegazione di Plotino consisterà nel mostrare come queste funzioni dell'anima nascano da un graduale declino della vita spirituale. A causa dell'abbassamento del livello dell'anima nella realtà metafisica, vediamo sorgere in essa la memoria, la sensibilità e la comprensione. La psicologia consiste nel determinare il livello preciso di una determinata funzione. La psicologia è molto frammentaria in Plotino, ma egli dedica lunghe indagini alla memoria, che è proprio ciò che studierò per primo.

A che livello ha origine la memoria? La memoria, come pensavano gli stoici, è una funzione della parte dell'anima legata al corpo? Assolutamente no, perché la memoria ha luogo una volta che l'impressione sensibile è svanita. D'altra parte, non c'è memoria solo delle cose sensibili, ma anche delle conoscenze acquisite dalla scienza (IV, 3, 25.).

La risposta è che la memoria esiste solo nell'anima legata al corpo? Senza dubbio. Ma, per prima cosa, l'impressione prodotta dall'oggetto sensibile non è qualcosa di materiale; l'anima non è una "superficie con uno strato di cera". L'impressione è una "specie di intellezione" nell'anima, anche nel caso delle cose sensibili. Inoltre, se la memoria è qualcosa di che si conservi, è a causa di certe caratteristiche dell'anima e che "non è una delle cose che sono in perpetuo divenire". E infine, il corpo è un ostacolo alla memoria: bere non porta forse alla dimenticanza? (Ibidem, 26).

La memoria, dunque, è qualcosa di proprio dell'anima finché non è legata al corpo. Ma quale livello occupa nell'anima? È necessario attribuire a ciascuna facoltà il ricordo degli oggetti corrispondenti, dicendo, per esempio, che è grazie alla facoltà di desiderare che ricordiamo gli oggetti desiderati? Assolutamente no. È vero che, come risultato di un desiderio soddisfatto, si produce una modificazione nella facoltà di desiderare che viene conservata; ma questa modificazione è una semplice disposizione o affetto presente, e non è la memoria stessa. (Ibidem, 28.)

La memoria non è nemmeno la persistenza dell'impressione sensibile. L'esperienza ci dimostra che non esiste il legame necessario, che dovrebbe esistere in questo caso, tra una buona memoria e una percezione precisa e raffinata. Si tratta di fatti di ordine diverso. La memoria, almeno quella delle cose sensibili, ha come oggetto proprio l'immagine, alla quale tende la sensazione, ma la cui conservazione dipende dall'immaginazione (Ibidem, 28).

Si potrebbe obiettare che questo spiega la memoria delle cose sensibili ma non quella delle cose intellettuali. Plotino risponde che, se c'è, propriamente parlando, memoria di esse, è solo nella misura in cui le cose intellettuali sono legate alle immagini sensibili. Se, come dice Aristotele, un'immagine accompagna ogni pensiero, la persistenza di questa immagine, che è come il riflesso della concezione del pensiero, spiegherà il ricordo dell'oggetto conosciuto. Alcune di queste immagini hanno un'importanza del tutto particolare: sono le formule verbali che accompagnano ogni pensiero. Il pensiero è un indivisibile; finché non si esprime all'esterno, finché rimane interiore, ci sfugge. Svelandolo e facendolo passare dallo stato di pensiero a quello di immagine, il linguaggio riflette il pensiero come uno specchio. Ed è così che il pensiero viene percepito; viene conservato e ricordato". (IV, 3, 30).

Si vede così qual è il luogo proprio della memoria: è nell'anima, ma non nell'anima purificata da ogni contatto con il corpo. Man mano che avviene la purificazione, la memoria viene gradualmente eliminata. "Quanto più l'anima tende all'intelligibile, tanto più dimentica le cose di quaggiù; e, in questo senso, si può dire che l'anima buona che è un’anima smemorata". (Ibid., 32) Quando si trova nella regione intelligibile non conserva più ricordi. "Quando il pensiero si applica alle cose intelligibili, non si può fare altro che pensarle e contemplarle; e il pensiero attuale non comporta il ricordo di aver pensato". Non si può obiettare che il pensiero intellettuale è un movimento che comprende momenti successivi come la divisione del genere in specie e, quindi, ad ogni movimento, è il ricordo dei momenti precedenti. Si tratta, infatti, di un'anteriorità e di una posteriorità logiche che hanno a che fare con l'ordine e non con la successione nel tempo. Né l'ordine di dipendenza delle parti di una pianta impedisce di coglierla con un solo sguardo (IV, 4, 1.).

Da questo stato superiore si può vedere come nasce la memoria nell'anima. Nasce nel momento in cui l'anima lascia l'intelligibile e tende a distinguersi dal resto. Allora non c'è più completa assimilazione tra l'anima e il suo oggetto. È questa distanza tra l'anima e il mondo intelligibile che determina il fatto che l'anima non possiede altro che immagini. "L'anima possiede ancora tutte le cose, ma le possiede secondariamente, e quindi non può essere perfettamente tutte le cose". L'immagine nasce, dunque, da una penetrazione incompleta dell'oggetto, che basta, tuttavia, a disporre l'anima in conformità a quell'oggetto (Ibid., 3).

Si potrebbe ora obiettare: la vita delle anime, compresa quella delle anime superiori come le anime delle stelle, non è forse soggetta alla durata? L'anima della stella non agisce nella durata per dirigere il suo corpo stellare e non deve, nonostante la sua superiorità, conservare il ricordo dei momenti passati della sua attività? Ma la memoria di questi momenti presupporrebbe che un momento possa essere distinto e isolato dagli altri. Ma non è sempre così. La vita di una stella non è divisa in frammenti che possono essere separati. "Distinguere nel periodo di una stella un ieri e un ultimo anno, equivale a pretendere di dividere il movimento di un piede che fa un passo in molte direzioni, e come se si vedesse in questa singola impulsione una moltitudine di impulsi singoli e successivi". La durata della vita di una stella è indivisibile; siamo noi che, dal nostro punto di vista, distinguiamo i giorni e le notti e le parti del tempo (E. IV, 4, 7).

Le considerazioni precedenti ci mostrano meglio a quali condizioni la vita nel tempo è accompagnata dalla memoria. È a condizione che la durata temporale perda la sua unità e si frammenti. La memoria dipende allora dall'atteggiamento dell'anima. Essa rivive il passato solo quando è interessata a farlo rivivere. Non accoglie nella memoria certe sensazioni provocate da vari oggetti quando non le interessano. In particolare (e questo è il caso della stella), se dobbiamo compiere sempre la stessa azione nelle stesse condizioni, non conserveremo il minimo ricordo della successione del tempo. Quando si ripete sempre lo stesso atto, è inutile conservare il ricordo di ogni dettaglio di questo atto, perché è sempre lo stesso". (La memoria, quindi, ha luogo solo in una vita frammentata, incessantemente assalita da nuove impressioni e da bisogni che rinascono continuamente.

Lo studio di Plotino sulla memoria è uno dei più appropriati per dare un'idea del metodo che segue nelle indagini psicologiche. Vediamo come ha applicato questo metodo al problema del piacere e del dolore.

Il livello del piacere e del dolore è inferiore a quello della memoria. Non appartengono interamente all'anima, ma anche al corpo che si aggiunge ad essa e al composto di anima e corpo. Nel corpo inanimato non c'è affetto che sia indifferente alla dissoluzione delle sue parti, perché la sua sostanza rimane. Ma quando il corpo si unisce all'anima, forma con essa "un'alleanza pericolosa e instabile", che genera difficoltà. Il corpo, infatti, è soggetto a ogni sorta di modificazioni, più o meno compatibili con la presenza della vita che gli viene dall'anima. Quando la sua organizzazione viene intaccata, "si verifica una regressione del corpo, che rischia di essere privato dell'immagine che possiede dell'anima" e, nel preciso momento in cui viene intaccata, si verifica il dolore. Ecco perché il dolore viene sperimentato e localizzato nella parte malata. Solo il corpo soffre. Al contrario, il piacere si verifica nel momento in cui la modificazione corporea è di natura tale da permettere al corpo di ricevere nuovamente l'influenza dell'anima.

In una parola, il piacere è un aumento e il dolore una diminuzione della vitalità corporea. Da distinguere dal piacere e dal dolore è la percezione dell'anima, che avviene a un livello superiore. "La sensazione, in quanto tale, non è sofferenza, ma conoscenza della sofferenza; ed essendo conoscenza, è impassibile". (IV, 4, 18-19).

Il desiderio è, secondo Plotino, un fenomeno complesso che si svolge a diversi livelli. Il corpo vivente è il corpo vivente. "Non è l'anima che cerca i sapori dolci o amari, ma il corpo, ma un corpo che non vuole essere un semplice corpo" e che li cerca per aumentare la sua vitalità. In questo grado, il desiderio è inclinazione o pre-desiderio; dipende dallo stato attuale del corpo. In un secondo grado, il desiderio è in natura, cioè in quella parte emanata dall'anima che mantiene in vita il corpo. Delle inclinazioni del corpo, la natura accetta solo quelle che possono essergli utili; si unisce ai desideri del corpo solo quando si tratta di desideri che non dipendono dall'interesse momentaneo dell'organo interessato, ma che tendono alla conservazione dell'organismo. In un terzo grado, infine, il desiderio raggiunge l'anima. "La sensazione presenta l'immagine dell'oggetto; in base a questa immagine l'anima, secondo il suo ruolo, o soddisfa il desiderio, o lo resiste, lo sopporta, senza badare né al corpo, da cui è partito il desiderio, né alla natura che lo ha desiderato in seguito". (IV, 4, 20-21).

Anche nell'ira Plotino distingue ciò che proviene dal corpo - l'agitazione della bile e del sangue - e ciò che proviene dall'anima. Prima c'è l'immagine dell'oggetto che ha causato la rivoluzione organica, poi la prontezza dell'anima ad attaccare e a difendersi. Ma c'è anche "un'ira che viene dall'alto"; la rappresentazione dell'oggetto e la disposizione morale sono quindi precedenti alle modificazioni fisiologiche (IV, 4, 28).

Questi esempi bastano a rivelare l'ampiezza del metodo di Plotino in materia psicologica e l'intuizione, forse più precisa di qualsiasi altro filosofo dell'antichità, dell'importanza dei fenomeni organici nella vita dell'anima.

Plotino ritiene che la comprensione sia il livello proprio e normale dell'anima, intermedio tra l'intelligenza e il mondo sensibile. La comprensione equivale a noi stessi, mentre il corpo, da un lato, e l'intelligenza, dall'altro, sono solo nostri.

La comprensione ha tre funzioni principali: innanzitutto, compone e divide partendo da immagini derivate dalla sensazione. Dispiega, ad esempio, l'immagine di Socrate, dettagliandola con l'aiuto dell'immaginazione. In secondo luogo, adegua i dati della sensazione a quelli che riceve dalle idee intelligibili: giudica se Socrate è buono, non in base ai meri dati sensibili, ma secondo la regola del bene. Infine, cerca la corrispondenza tra le immagini presenti e recenti e quelle passate, cioè riconosce; nella persona che gli viene presentata, riconosce Socrate.

Secondo Plotino, la comprensione ha una funzione discorsiva e relazionale. Essa "sa di essere discorsiva, cioè cerca di capire le cose esterne". Ma, in questo sforzo di comprensione, sale verso l'intelligenza e riceve l'illuminazione (V, 3, 2-3.).

Fraintenderemmo questa psicologia se pensassimo che le facoltà inferiori si aggiungono all'anima quando questa scende di grado. Sarebbe come ammettere che, lungi dall'impoverirla, tale discesa la arricchisce, la fa progredire mettendo in azione poteri fino ad allora latenti. In realtà le facoltà inferiori non sono che un'espressione impoverita e una forma carente di ciò che è eternamente contenuto nell'anima. La facoltà di sentire dell'uomo sensibile è, per esempio, il riflesso di una facoltà di sentire superiore che "l'uomo intelligibile", cioè la parte superiore dell'anima, possiede. "Gli esseri intelligibili possono essere chiamati senzienti, perché sono, a loro modo, oggetti di percezione. Qui sotto, la sensazione che chiamiamo sensazione perché è legata ai corpi, è più oscura della percezione che avviene nell'intelligibile, e solo in apparenza è più chiara. Chiamiamo l'uomo di quaggiù sensibile perché percepisce meno perfettamente e percepisce immagini inferiori ai suoi modelli; le sensazioni sono pensieri oscuri e i pensieri intelligibili sono sensazioni chiare". (VI, 7, 7.)

 

N.B – I brani delle Enneadi di Plotino citati nel testo sono una traduzione di quelle riprodotte nel volume di Brehier “Storia della Filosofia” dal quale è tratto il presente articolo.

 

(Traduzione dal francese di Mystes)

 

 

INCANTAMENTI MAGICI

 

“Tuttavia, quando mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa, risposi a fatica che lo conoscevo.
«Qual è allora?» chiese.
E io risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c'era una formula magica; e se veniva cantata mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire completamente; senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilità.
E quello di rimando: «Allora trascriverò la formula da te».
«Se mi persuaderai o anche se non mi persuaderai?», dissi io.
Scoppiato a ridere dunque disse: «Se ti persuaderò, o Socrate».
«E sia», conclusi; «e tu conosci bene il mio nome?» «Sarei colpevole, se non lo conoscessi», disse, «si fa non poco parlare di te tra i giovani della mia età, ma io poi mi ricordo che quando ero ancora un fanciullo eri in compagnia di Crizia qui presente».

«Ben fatto», dissi io, «ti parlerò così più liberamente della formula magica, di cosa si tratti: poco fa non sapevo in che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide, la sua natura e tale per cui non è in grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai già sentito da bravi medici, quando uno va da loro perché è malato agli occhi, dicono che non è possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme anche la testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per sé stessa senza il corpo intero è una follia totale. In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di curare e di sanare con il tutto la parte; o forse non ti sei accorto che dicono questo e che le cose stanno così?» «Certo», rispose.

«E pensi che parlano bene e accetti questo ragionamento?» «Assolutamente», rispose.

E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio e a poco a poco si risvegliò di nuovo in me l'arditezza, mi ravvivai e dissi: «Tale dunque, o Carmide, è anche il caso di questa formula magica.

Io l'imparai laggiù, nell'esercito, da uno dei medici traci di Zalmoxis, dei quali si dice che sanno rendere immortali. Questo Trace diceva che i Greci facevano bene a dire quel che io dicevo poco fa, ma Zalmoxis, continuava, il nostro re, che è un dio, dice che non bisogna cercare dì guarire gli occhi senza la testa né la testa senza il corpo, allo stesso modo il corpo senza l'anima, ma questa sarebbe anche la causa del fatto che molte malattie sfuggono ai medici greci, perché trascurano il tutto, di cui bisognerebbe aver cura; e se il tutto non sta bene, è impossibile che la parte stia bene. Disse che infatti dall'anima muove ogni cosa, sia i beni sia i mali, al corpo e all'uomo intero, e da qui fluiscono come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare l'anima in primo luogo e in massimo grado, se vuoi che anche le condizioni della testa e del resto del corpo siano buone. Disse che l'anima, mio caro, va curata con certi incantamenti: questi incantamenti sono i bei discorsi; in seguito a tali discorsi appare nell'anima la assennatezza, per la comparsa e la presenza della quale è ormai più facile procurare la salute e alla testa e al resto del corpo.

Nell'insegnarmi dunque il rimedio e gli incantamenti, aggiunse "Che nessuno ti persuada a curare la propria testa con questo rimedio, nessuno che non abbia prima consentito a far curare l'anima da te con questa formula magica. E infatti ora", continuò, "è diffuso questo errore tra gli uomini: alcuni cercano di essere medici separatamente dell'una e dell'altra, della assennatezza e della salute". E mi comandò con molta decisione che non dovesse esserci nessuno così ricco né nobile né bello, che mi persuadesse a fare diversamente. Io allora - infatti gli ho prestato un giuramento e devo necessariamente obbedirgli - obbedirò dunque, e a te, se, seguendo gli ordini dello straniero, vorrai consentire in prima istanza a che l'anima venga incantata dalle formule magiche del Trace, fornirò il rimedio per la testa; altrimenti non sapremmo cosa fare per te, caro Carmide».

Dopo aver ascoltato le mie parole, Crizia disse: «Sarebbe un colpo di fortuna per il giovanetto, o Socrate, il mal di testa, se sarà costretto a diventare migliore anche nel pensiero per via della testa. Ti dico tuttavia che Carmide ha fama di eccellere tra i giovani della sua età non soltanto per la bellezza, ma anche per questa stessa cosa per la quale dici di possedere la formula magica: tu intendi l'assennatezza, o no?» «Certamente», dissi io.

«Dunque sappi bene», continuò, «che ha fama di essere di gran lunga il più assennato di quelli di adesso, e in tutto il resto, per l'età che ha raggiunto, non è inferiore a nessuno».

Ho citato in apertura di questo mio scritto un brano del dialogo di Platone intitolato “Carmide” nel quale il celebre filosofo tratta, sia pur brevemente ma di maniera molto efficace, il tema della malattia e della cura.

La terapeutica, fin dall’antichità, è stato sempre un tema importante, per l’argomento, ma soprattutto perché la salute dell’uomo è la materia su cui si sono cimentati un po' tutti.  Alcuni lo hanno fatto e lo fanno ancora oggi con estremo rigore e competenza, appoggiandosi sulle conoscenze trasmesse loro dai grandi maestri della medicina e sulle proprie esperienze, altri di maniera empirica e approssimativa.

Questi ultimi si sono limitati a esprimere solo opinioni o a dare modesti consigli che lasciano il tempo che trovano.

Il brano di Platone è di una importanza straordinaria e spiego subito il perchè: prima di tutto Platone è il padre della filosofia mentre il brano su citato deve essere classificato come una lezione di terapeutica magica e non come una lezione di filosofia. Cosa significa? Che Platone oltre ad essere il padre fondatore della filosofia deve essere considerato simile a un Hermes Trismegisto padre della scienza dei magi?

Sulla posizione storica di Hermes Trismegisto crediamo di avere le idee chiare, e anche su Platone filosofo, mentre sul Platone terapeuta abbiamo la necessità di fare e ricevere alcuni chiarimenti.

Pierre Hadot, per esempio, uno dei maggiori esperti di Platone, nelle sue opere sulla filosofia antica, ha richiamato l'attenzione su alcuni aspetti pratici della vita filosofica concepita nell'antichità. La filosofia antica si caratterizzava per essere la proposta di uno stile di vita che prevedeva basicamente la pratica di esercizi spirituali finalizzati all'assimilazione della dottrina filosofica e alla trasformazione della stessa vita del filosofo, definito in taluni casi un iniziato. Il fine ultimo di queste pratiche o esercizi era quello di realizzare un cambiamento radicale di vita nel filosofo e il fine ultimo del filosofo, come è noto, è l’immortalità dell’anima.

Chi ha dimestichezza con gli scritti e gli insegnamenti di Giuliano Kremmerz, fondatore della Fratellanza Terapeutica Magica di Myriam, sa benissimo l’importanza che il Maestro di Portici dava alle “pratiche” della Scuola, considerate la linfa vitale nella vita e nelle realizzazioni della via ermetica.

Chiarisce Alcinoo nel Didascalico: “Raggiungiamo la divinità per natura e con l'ausilio di uno stile di vita e di esercizi secondo la tradizione, nonché il più importante: la parola, l'insegnamento e la trasmissione delle cose contemplate, in modo da allontanarci dalla maggior parte degli affari umani ed essere sempre vicini all'intelligibile”.

Ma cosa vuol dire Alcinoo quando si riferisce all’uso della “parola”?

Ce lo spiega Manlio Magnani nel capitolo “Mantra” del Supremo Vero: “La Parola anzitutto è una massa di suono puro, di energia radiante, che gli indù chiamano "vajra-âkâçâ", un etere "rigido e di fulmine". Questa parola primigenia, ha un senso, cioè un artha; ha un "dentro" cioè un "svârupa", questa folgoranza che non ha forma, e esso è appunto il Brahman supremo ed occulto. I due sono uno, dualità-unità. Non vi è luogo per una "pratyaya", cioè apprensione o appercezione. E perciò quello stato è chiamato falera anche "il senza suono, l'ineffabile, l'immobile", perché non vi è stato o condizione di apprensione o appercezione. La rivelazione in tale stato è autorivelazione, perché l'espressione è rivelazione, identità, spirito, senso eterno; "artha" e "çabda" sono una sola cosa. Nel simbolismo Indù questa Parola così rivelantesi è detta la dea "Çakti", (che corrisponde a la Aisha o forza volitiva efficiente di Aish, di Mosé), femmina ardente che vibra e si muove scostandosi e tornando all'amplesso sul corpo "fisso" "ghiaccio" del maschio "Çiva" che essa avvolge (corrisponde all'Adamo - Aish di Mosé)”.

Nel linguaggio filosofico l’ineffabile può essere identificato con ciò che nella letteratura magico-terapeutica è considerata la realizzazione oggettiva del rito terapeutico praticato come atto di amore. Un atto magico se eseguito con regolarità ossia nel rispetto delle regole dell’incantamento così come definito da Carmide può avere solo il risultato perseguito e rappresentato nel segno magico e dalle parole che lo racchiude e lo simbolizza.

Esaminando più da vicino il dialogo del Carmide, la nostra attenzione si è soffermata soprattutto su queste parole: “…poco fa non sapevo in che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide, la sua natura è tale per cui non è in grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai già sentito da bravi medici, quando uno va da loro perché è malato agli occhi, dicono che non è possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme anche la testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per sé stessa senza il corpo intero è una follia totale. In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di curare e di sanare con il tutto la parte…”

Leggendo con calma mi sfolgoravano in mente gli insegnamenti della scuola ermetica.

Infatti, ogni qual volta si parla di curare un dolore e una malattia, non si può e non si deve prescindere dallo stato generale dell’ammalato, sicchè pur rendendosi necessario intervenire ritualmente sulla parte ammalata, non si può e non si devono ignorare le condizioni generali e spirituali della persona che si rivolge alla Fratellanza in cerca di aiuto.

Come possiamo meglio definire il senso occulto di questa magica parola: “amore”?

In latino “amore” recita “AMOR” e “amor” è l’anagramma di “ROMA”. Su questa spiegazione sono state scritte tante cose e non è mia intenzione ripeterle né rievocarle. Vorrei andare un poco più oltre e per farlo cerco di nuovo l’aiuto di Manlio Magnani.

Amore – scrive nel capitolo del “Supremo Vero” dedicato all’amore - è causa dei fenomeni, esso dà origine all’energia e alla materia, ai processi chimici e fisici, all’organizzazione dei corpi materiali, all’organizzazione vitale del regno vegetale e del regno animale, all’istinto nelle specie zoologiche e nell’uomo dà pure origine all’IO, alla coscienza, alla cosiddetta volontà, ai sentimenti ecc.

In ciascuno di tali stati o condizioni il suo procedere è apparentemente diverso, ma sostanzialmente è unico.

Qui lo chiamiamo pensiero o sentimento, là attrazione e ripulsione perché sono differenti i campi dove osserviamo le sue opere, ma è sempre la stessa cosa.”

L’amore, inteso nel senso platonico e dantesco, come aspirazione all’unione con Dio, può attuare l’identificazione (con Dio) e - secondo Dante - l’indiamento (ossia il rendersi simile a Dio o a un dio).

L’amore è il desiderio che ci porta verso la bellezza, ma soprattutto verso la bellezza nascosta, quel bello considerato da Plotino una delle ipostasi e di cui le bellezze sensibili non sono altro che un’immagine.

L’Amore ha la capacità di sottrarre al sonno ed alla morte, dando al Fedele d’Amore una vita nuova. Ciò si raggiunge per gradi di perfezionamento successivo.

Ma secondo la concezione filosofica vi sono quattro specie di furore divino, e la quarta che è di Venere e di Amore, è la migliore e la quale Venere Urania, dice Platone, non è lasciva manco per ombra.

Per concludere, diciamo che il nome e il suono prodotto dalla forza sottile che genera, è una “formula magica se viene cantata mentre si fa uso del farmaco” o costituisce, una cosa o un essere, però non quale risuona nel mondo fisico, ma quale è colto direttamente e incondizionatamente dallo spirito in un etere interiore libero da spazio e tempo, un incantamento non sub specie di una serie di vibrazioni materiali, sebbene di movimento-in-se, di suono puro, continuo, omogeneo.

“Per conoscere cotesto stato – afferma Magnani - è necessario saper identificarsi con esso: è pura realizzazione iniziatica”.

 


 

INVERSIONE DI VALORI

 

Età del ferro – Pietro da Cortona.

                                                                              Sala della Stufa, Firenze 1641

Recenti espressioni di malcostume e non mi riferisco agli antichi mali che da sempre affliggono l’Italia ma ad alcuni fenomeni che si distaccano dai codificati parametri di illeciti e perversioni a tutti noti, specialmente nella sfera della sessualità e della moralità dell’uomo, mi danno l’opportunità di scrivere la presente nota.

A parziale ma non giustificata comprensione c’è da dire che tanti eccessi sono la naturale reazione specialmente italiana alla repressione dei costumi operata per molti secoli dal cristianesimo, specialmente contro la donna, e contro le naturali leggi dell’amore e i naturali istinti dell’attrazione fisica, per qui quella che doveva essere la religione dell’amore e della carità, si è trasformata nella religione della repressione e dell’intolleranza. Tutto ciò ha pesato e tuttora pesa sul cambiamento (in peggio!)  delle regole di vita, sul modo di pensare, o come io credo, sul decadimento dei costumi.

Una cosa però è certa: l’etica e la sensibilità del genere umano, quello maschile come quello femminile, sono le manifestazioni della natura, e sono questi che registrano i maggiori attacchi, dal che si giunge alla semplice constatazione che qualcosa di maligno e di velenoso è all’opera, come un cancro, per distruggere non più una classe sociale o una ideologia, o un governo, ma l’intero genere umano o una buona parte d’esso. Questo tarlo, infine, nel mondo moderno ha i suoi apostoli, configurabili nelle varie ideologie di morte, nel modo in cui si sono espressi e si esprimono tuttora nei due settori più sensibili della società: la politica e la salute. Mi limito a questi due, senza tirare in ballo la religione, sulla quale il discorso è sicuramente più lungo e delicato.

Tutto ciò si riassume in quella visione mitica che Esiodo ripartì e riassunse nelle età del mondo. Nell’età del ferro, che per Esiodo coincide con il presente, classificare e giudicare le azioni degli uomini diventa molto difficile: in esse si mescolano, a un tempo, giustizia e ingiustizia, armonia e discordia. Gli uomini hanno il compito, - aggiunge Esiodo in forma poetica - siano essi agricoltori guerrieri o sacerdoti, di realizzare il trionfo di Dìke (Giustizia) all’interno di ogni ambito sociale. È una speranza per Esiodo, per noi è il simbolo di un fallimento.

Infatti, guarda caso, in questa ultima e finale età della terra, a mancare è soprattutto la giustizia, la stessa idea di giustizia, soffocata dall’arbitrio, dal crimine, dalla corruzione, dall’egoismo, dalla droga, dal sesso (di questi ultimi si serve la politica per plagiare la coscienza dei giovani).

Inoltre, la quinta età, quella del ferro, è l’età a cui Esiodo ha dato maggiore attenzione ed è caratterizzata dalla ‘hybris’ e dall’angustia.

Leggiamo nella Teogonia:

‘Ora infatti è la stirpe di ferro né mai di giorno

né di notte smetteranno da fatica e dolore

di venire consumati; e gli dei infliggeranno loro dure angustie.’

(w. 176-178)

E prosegue profeticamente con qualche espressione enigmatica:

‘Zeus distruggerà anche questa stirpe di uomini mortali,

nel momento in cui alla nascita appariranno canuti sulle tempie;

né il padre avrà più lo stesso sentire dei figli né i figli del padre,

né l’ospite all’ospite o l’amico all’amico,

né il fratello al fratello sarà caro come prima;

disprezzeranno i genitori non appena questi invecchiati,

se ne lamenteranno usando dure parole,

sventurati, neppure consapevoli dello sguardo degli dei; né essi

ai genitori vegliardi vorranno dare, a loro volta, cibo.’

(w. 180-188)

E poco più avanti:

‘Nessun favore si accorderà a chi è fedele alla parola data né al giusto

né al virtuoso: di preferenza l’autore di misfatti e la tracotanza

fatta uomo apprezzeranno; la giustizia sarà nelle mani e il pudore

non esisterà; il malvagio nuocerà all’uomo nobile

ricorrendo a parole tortuose e per di più giurerà;

la competitività invidiosa tutti quanti i poveri umani,

col suo sguardo sinistro, accompagnerà, chiassosa e compiaciuta del male’

(w. 190-6).

L’uso del futuro, in tono oracolare, per annunciare la decadenza e il trionfo del male, che prelude, probabilmente alla sparizione della quinta stirpe, fa capire che, seppure il processo sia in atto, è però proiettato in un tempo a venire, o almeno sono proiettati in un tempo a venire i segni di una più marcata e irrimediabile decadenza, cui farà seguito la fuga di Aidos (un personaggio della mitologia greca che corrisponde alla divinità della vergogna, della modestia, del rispetto e dell’umiltà) e Nemesi dal mondo (Nemesi, nella mitologia, provvedeva soprattutto a metter giustizia ai delitti irrisolti o impuniti). Senza queste divinità, che sono personificazioni di precise condizioni psichiche e umane, non ci saranno più, dice il veggente Esiodo, le condizioni dell’armonia e dell’ordine (cioè di Dike, la dea della giustizia) e prevarrà il male. Inversamente, senza Dike non può esserci pudore o rispetto e non c’è la reazione al male che si trasforma in giusta punizione del malfattore.

Mancanza di pudore e di decenza come persecuzione contro i giusti e gli onesti per favorire i criminali e i corrotti è una caratteristica del tempo che viviamo e ne abbiamo visti esempi, anche eclatanti, nel nostro Paese.

Stupisce ed addolora che il regno di Jupiter, (latendum in latium) che trionfò infine sull’informe, sul mostruoso e, noi diremmo, sull’irrazionale, si trovi a registrare la progressiva e forse irrimediabile decadenza del genere umano, e che il poeta Esiodo racconta bene con dettagliate intuizioni, con illuminazione nonché coerenza nella Teogonia di cui sto parlando.

È un’antica convinzione, quella secondo cui il mondo conosce cicli, morti e rinascite epocali; in ogni modo, le cinque stirpi non vanno intese tanto come fasi che si succedono cronologicamente, per quanto Esiodo sembri suggerirlo in vario modo, quanto come esempi fuori del tempo a somiglianza del mito teogonico. Dunque, non deve stupire il fatto che sotto il regno di Zeus (età dell’oro) ci siano crisi e involuzioni, per quanto questa affermazione sia temperata dalle sagge parole secondo cui anche per quelli dell’età del ferro ´si troveranno beni mescolati ai mali’.

Emerge, com’è nella natura stessa fortemente personale ed esortativa del poema, la funzione del poeta, amato dalle Muse, che conosce, sia pure oscuramente, la mente di Zeus che è al fondo però imperscrutabile, e quindi indica la strada all’umanità, quella del meglio ovvero della virtù, cioè della responsabilità, delle scelte consapevoli, in un’epoca in cui si è spenta la stirpe gloriosa degli eroi.

Il punto di partenza della storia umana è l’età dell’oro, cioè quell’epoca quando «comuni erano le mense, comuni le adunanze per gli dèi immortali e per gli uomini mortali: un’epoca distinta da tutte le altre generazioni, per la mancanza assoluta di fatiche, di affanni e di miseria per gli uomini che vivevano al pari degli dèi, e passavano la vita con l'animo sgombro da angosce, fuori dalle fatiche e dalla miseria; né la triste vecchiaia incombeva su loro, ma sempre con lo stesso vigore nei piedi e nelle mani godevano nelle feste, lontani da tutti i malanni».

La causa della scomparsa di questa vita serena e felice, e dell'avvento di un'età considerata di gran lunga inferiore alla prima, è insita nella natura umana, ed è affiorata spontaneamente nella seconda età - quella d’argento -, quando gli uomini crescevano felici e beati per cento anni nella loro innocenza, però dopo, «poco tempo essi vivevano, con angosce nell'animo, a causa della loro stoltezza, dacché non riuscivano a tenersi lontani dalla tracotante violenza nei loro rapporti, cessarono di venerare gli dei immortali che è pio dovere degli uomini, secondo le tradizioni locali».

La stirpe mortale è stata stolta, dacché non ha saputo approfittare della sua condizione beata; e la sua cattiva volontà l’ha portata ad azioni di forza nei rapporti umani, al disprezzo del culto degli dei, che è in realtà la prima espressione della comunità umana. Violenza e disprezzo hanno determinato la scomparsa della beatitudine umana; gli uomini sono caduti sempre più in basso. La terza generazione, che Esiodo chiama «quella del bronzo», esprime in maniera diversa dalla seconda le medesime doti di violenza e di empietà, e giunge alla stessa fine: «sopraffatti dalle loro stesse mani – dice Esiodo - se ne andarono alla squallida dimora del terribile Ade, ingloriosi, ché la nera morte li rapi, quantunque terribili, ed essi abbandonarono la luce splendente del sole».

 Con la quarta generazione si entra nel campo della storia, la stirpe «più giusta e più buona, la stirpe divina degli uomini eroi, che vengono chiamati semidei, la stirpe che ha preceduto la nostra”.

Alla generazione che segue, spetta il nome di «età del ferro» ; gli uomini vivono nella miseria e negli affanni; pochi sono i beni, che essi possono godere, e molte le angosce; ma quando Zeus deciderà di fare scomparire anche questa età ferrea, ciò che avverrà nel mondo sarà immensamente peggiore: gli uomini nasceranno già vecchi « con le tempie canute »; i figli non saranno simili al padre; non vi sarà più rispetto per i genitori, non più fedeltà al giuramento né piú differenza di funzioni e di sesso. L'umanità avrà così compiuto l'intera parabola della sua degradazione, cominciata con il disprezzo della divinità e delle sue leggi, e terminata con il disprezzo del prossimo e delle norme del viver comune.

Esiodo conclude infine con la dea Giustizia che trionfa sempre nel tempo, e con la visione di due città: la città della giustizia e quella dell'ingiustizia. Ai due quadri segue la necessaria, logica conclusione di tutto il discorso esiodeo: un invito ai sovrani, ai giudici, perché seguano sempre la giustizia, con la mente rivolta agli dei, i quali vogliono sulla terra le opere giuste: «Tre decine di migliaia sono infatti sulla terra gli immortali, occulti custodi da parte di Zeus degli uomini mortali. Essi stanno a guardia della giustizia e delle opere scellerate, vestiti di tenebra, aggirandosi per ogni luogo della terra».

Ma più significativi ancora sono gli ultimi tre versi, che concludono tutto il poema di Esiodo: «Felice e fortunato chi tutte queste cose conoscendo lavora senza colpa di fronte agli immortali, osservando i presagi ed evitando gli errori». Qui è condensata tutta la saggezza, espressa attraverso i miti, i moniti, i precetti etici, religiosi, pratici, del Poema sulle Cinque età del mondo: felice e fortunato deve considerarsi chi lavora con giustizia; nel rispetto della giustizia e rendendo onore agli dèi

 

SPOSTATI, MI FAI OMBRA!

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Parafrasando le celebri parole di Plutarco quando narra l’incontro del grande Alessandro con il filosofo Diogene:

Essendosi radunati i Greci all’Istmo, e avendo decretato di fare una spedizione militare contro i Persiani con Alessandro, fu nominato comandante in capo. Essendogli andati incontro molti uomini politici e filosofi e congratulandosi con lui, sperava che anche Diogene di Sinope avrebbe fatto la stessa cosa, dal momento che dimorava presso Corinto. Ma poiché quello, avendo una scarsissima considerazione di Alessandro, se ne stava in ozio nel Craneo, si recava personalmente da lui; ed egli si trovava ad essere sdraiato al sole. Allora si sollevò un po’, visto che sopraggiungevano tanti uomini, e rivolse lo sguardo ad Alessandro. Ma quando egli, dopo averlo salutato e dopo avergli rivolto la parola, gli chiese se per caso avesse bisogno di qualcosa, disse: “Spostati un po’ dal sole”. Davanti a questa risposta si dice che Alessandro fu così colpito dalla fierezza e la grandezza di quell’uomo, pur essendo stato disprezzato, che, mentre quelli intorno a lui lo deridevano e sbeffeggiavano quando se ne andavano, disse: “Ma io, se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene”.

Parafrasandolo, vorrei dire poche parole riferendomi ad alcuni personaggi moderni, ad alcuni cosiddetti grandi della terra che fanno ombra agli esseri umani, ai semplici esseri umani non investiti di poteri e di responsabilità come lo sono loro, ma portatori dei valori di libertà di pensiero e di parola. Gli uomini, è vero, che nascono liberi e che in tante occasioni vengono soggiogati, dai meccanismi sociali moderni, a un ruolo umiliante di lavoratori stanchi e mal pagati, di mariti umiliati da un femminismo insensato e crudele, di padri sottomessi ai capricci di figli viziati dal consumismo e dal libertinaggio incontrollato, senza parlare degli abusi di alcool e del consumo illecito di droghe.

E su questo ultimo tasto vorrei evidenziare la defezione assoluta dello stato (fatto di governi, parlamenti e forze armate, politicanti con sogni autoritari di aspiranti dittatorelli da strapazzo, codardi e crudeli: se fanno qualcosa la fanno male e col risultato di nuocere) che ormai è stato piegato e sottomesso dalla mafia, dal crimine (era post Falcone e Borsellino, vittime designate con la complicità di uno stato inetto e forse connivente!)

Innanzitutto, di brutte controfigure di capi di stato come Alessandro (non oso dire imperatori!) ai tempi d’oggi se ne contano a profusione, mentre non si vede l’ombra di uomini fieri, orgogliosi, sicuri, virili consapevoli del ruolo e soprattutto del destino che ricoprono per decisione propria per sorte divina o per volontà popolare. Dal modo come si comportano gli uomini politici moderni sembrano pensare che la carica che ricoprono è come se fosse dovuta, non si capisce se in virtù di quale sentenza divina e non di una democratica volontà popolare, effimera e transitoria e che perciò può cambiare alla prima occasione. 

Sono tentato di dire a molti personaggi come questi o simili a questi che operano nel mondo politico, culturale, dello spettacolo, dell’informazione: mettetevi da parte, spostatevi, perché state facendo ombra, voi stessi siete un’ombra sui valori veri della cultura, della libertà di informazione, di parola, sui valori dello stato, della nazione, della sovranità politica ed economica, della volontà popolare, della giustizia, soprattutto della giustizia, siete l’ombra funesta che non solo appanna e oscura, ma corrompe, adultera, imputridisce quei principi di base che nel passato hanno consentito a uomini e donne di poter governare e convivere in pace e prosperità in quella che viene chiamata società civile e sulla quale innumerevoli sociologi e letterati hanno scritto e sul cui destino non sempre furono felici e buoni profeti.

Ebbene, spostatevi, soprattutto nel vostro interesse, rinunciate ai facili guadagni, ai lauti compensi, ai quattrini sporchi, agli ideali dispotici che vi dominano, alle parentele ong-organizzative che vi guidano e controllano, fatevi da parte, perché, nonostante tutto, nonostante il progresso, la tecnologia, la guerra nucleare che incombe come una sinistra minaccia sulle teste di tutti, prima o poi qualche nazione, o qualche gruppo organizzato, o qualche setta fra quelle che non hanno bisogno di coprire la testa col cappuccio, muniti dei cosiddetti “c…” gonfi all’inverosimile, potrebbe svegliarsi una mattina e dire alto e forte: adesso basta, avete abusato “patientiae nostrae” e, tanto faremo, tanto penseremo, tanto ci organizzeremo, fino a quando ve la faremo pagare cara e non sarà solo una Bastiglia, sarà molto, molto di più, tanto di più da farvi dire che “la Bastiglia fu solo una passeggiatina di vecchietti e vecchiette che marciarono su una carrozzella per invalidi!”

Questo testo non vuole essere una minaccia, ma una semplice esortazione, simile a quella di Diogene che rivolto al grande Alessandro disse: spostati, stai oscurando il sole e mi fai ombra! Come dire: mettiti da parte grande imperatore perché neanche a te è permesso di sottomettere i popoli liberi e non ti sarà possibile distruggere il libero pensiero e la felicità della gente

 

 

L’importanza della preghiera magica

  

Tutti gli uomini portano nell'anima un'impronta o un principio del sacro. I rituali della Fratellanza Hermetica, utilizzando "simboli ineffabili", come i nomi misteriosi usati nelle invocazioni, attiva l’elemento divino in noi e, attraverso la corrispondenza col pianeta presente nell’astralità, permette al fratello in preghiera di assumere un ruolo preciso.

Giamblico, citato da Manlio Magnani in un suo celebre scritto sui “Mantra o nomi magici”, alla fine del libro Vº del De Mysteriis, descrive una teoria piuttosto sintetica con distinzioni tecniche sulla preghiera la cui opera consiste nello stabilire un rapporto di amicizia col mondo superno, svolgendo una funzione anagogica, che porta alla perfezione e alla completezza, ma soprattutto preservando il legame dell'anima con il mondo divino nella misura in cui le è stato originariamente concesso.

Tuttavia, è importante ricordare che, sebbene la preghiera, sia stata profondamente influenzata dalla tradizione teurgica, il concetto di preghiera rimane quel che è sempre stato fin dalle origini. La preghiera magica si avvicina a quella dei papiri magici, che prevedono l'uso di nomi magici, parole sacre e soprattutto sequenze vocaliche da pronunziare in maniera corretta.

La preghiera si recita normalmente durante il rito, a volte anche alla fine di esso, ma in ogni caso nessun rito può avere successo senza la recita della preghiera prevista nello stesso rituale ermetico.

Dato il suo ruolo, il contributo della preghiera magica è tutt'altro che mediocre: Le preghiere contribuiscono al massimo compimento dei riti; è attraverso di esse che le  richieste vengono rafforzate e rese efficaci, che si produce un contributo alla catena magica e si entra in una indissolubile comunione ieratica con il mondo divino.

L’iniziato alla scuola distingue tre momenti della preghiera:

1) il primo è di preparazione, ed è caratterizzato dall'imprimere un avvicinamento e una realizzazione della realtà divina; è il momento dell'illuminazione della mente.

2) Il secondo, a sua volta, è congiuntivo, e si caratterizza per regolare una comunione intellettuale tra l'uomo e la realtà occulta; è il momento dell'azione congiunta con il mondo divino; la concessione dei benefici, soprattutto di quelli terapeutici, richiesti nel corso del rito avviene ancor prima che la ragione pensi e ancor prima che l'intelletto ne prenda coscienza, un'affermazione molto importante in cui si ribadisce la superiore intelligenza del rito e l’assimilazione col mondo divino.

3) Infine, nel terzo momento si verifica l'ineffabile unificazione con l´entità invocata nella preghiera, caratterizzata da un totale abbandono all'autorità divina, che fornisce nei simboli sacri un riposo per la nostra anima; questo è il momento della perfetta congiunzione col genio invocato nel rito iniziatico.

Tutto indica che le preghiere magiche sono un appello a entitá specifiche che accompagnano rituali specifici e servono ad aiutare l'invocazione e l'interiorizzazione dell´entità chiamata. L'appello magico ha lo scopo di introdurre un lavoro iniziatico in cui si avvia uno stadio di elevazione e un processo universale vissuto in privato, individualmente o in catena con la corrente magica.

Una pratica abituale e ricorrente come quella in uso nella Fratellanza Hermetica nutre il nostro intelletto, amplia enormemente la ricettività dell'anima verso la realtà divina, rivela ai fratelli il segreto della pratica magica, abitua alla luce della candela e ai segreti che il suo  tremolio nasconde e porta a un'imminente perfezione della nostra genialità attiva nella corrente, fino a raggiungere la vetta delle nostre capacità; eleva tranquillamente le nostre disposizioni spirituali, suscita la persuasione, la comunione e una fratellanza indissolubile; accresce l'amore, afferma l'elemento superiore dell'anima, espelle le contrarietà presenti nel corpo lunare del fratello e ne favorisce la purificazione, allontana dall'aura mercuriale tutto ciò che di torbido la circonda e che appartiene alla generazione, perfeziona la fede nella luce e, in breve, rende i fratelli uniti e solidali per la finalità suprema della Scuola pro salute populi.

La preghiera si rivela strettamente per la finalità insita in essa, ma si ripercuote sull'intera struttura dei quattro corpi dell'uomo, mettendo ordine e armonia nel corpo mercuriale e purificandolo dagli elementi legati all’elemento saturniano.

I riti magico\teurgici sono al di là di ogni spiegazione razionale, e tra le motivazioni della pratica vi è soprattutto l'assimilazione di un'intimità del nostro essere col mondo segreto e in seguito al lavoro individuale il rafforzamento della catena ermetica con la partecipazione all’antico ideale egizio, lontano dal dominio della materia. Inoltre, non è solo la volontà individuale, ma la volontà collettiva degli iniziati che illumina i fratelli in catena e li unisce nella realizzazione della finalità suprema.

La preghiera, come descritta dai nostri Maestri, è una forma di comunicazione dell’uomo con la parte già purificata della sua individualità, un linguaggio sacro attraverso il quale lo spirito umano può elevarsi verso il divino e infine unirsi ad esso. In questa prospettiva, la preghiera si presenta come una forma di mediazione tra l'anima umana e il mondo degli eoni e dei geni dell’ermetismo magico.

Anticamente le preghiere erano ancora soggette a un'intermediazione (tra l'uomo e gli dei) da parte della volontà dei demoni, che ricevevano le richieste dagli uomini e le esaudivano (o meno). Specialmente nel mondo egizio e nei papiri magici esiste un ricchissimo repertorio di nomi e di simboli sacri che successivamente attraverso la mediazione dei maestri italici vennero utilizzati con finalità magico-terapeutiche.

I "nomi sconosciuti" usati nei nostri rituali implicano un processo in cui il genio personale del discepolo  comunica e si assimila col genio magico rappresentato nel simbolo ermetico. Soggetto e oggetto in un certo senso si assimilano.

Tuttavia, il divino mantiene la sua trascendenza e la sua superiorità causale: nella metafisica ermetica, i geni sono contemporaneamente trascendenti e immanenti.

L'ascesa al mondo divino è la possibilità per l'uomo di partecipare al potere e all'attività divina attraverso l'assimilazione e la somiglianza con il livello più alto grazie all'uso efficace dei riti dei simboli e dei “nomi occulti" contenuti nelle varie forme rituali di cui la Scuola Hermetica è dotata.

Salilus


Amo i miei giorni

 

Amo i miei giorni uguali

E le mie notti dense di sogni

Amo fissarti negli occhi e dirti sempre ti amo

Amo viaggiar col pensiero e ciò che mi resta

nella vita sedentaria affollata di ricordi

E nella rimembranza di chi ero

Amo l’infantile attesa della morte

Come un giocattolo della befana

Che il mattino dopo scartavo deluso

Sperando di trovarne uno più bello

Cosa ci può esser più bello di un sogno

Quando il sonno tarda a venire?

Amo i miei mattini luminosi

E le tue stoviglie rumorose in cucina

Amo il giardino fiorito

Che mi sorride languido e puro

E il tuo sgambettare monotono

Di spalle alla pentola sibilante

Il mio mondo mi parla

Sornione mi osserva e sorride

Amo questa terra salmastra

Che profuma di basilico in fiore

E che racchiude nel grembo

Il mistero dell’eterno ritorno

Del trascorso passato dell’incerto futuro

Del presente vibrante e sereno

 

Amo i miei giorni

Che risuonano nel tuo Bluthner avito

Il diluvio dei sensi sopiti

Il risveglio di immagini antiche

Le parole sublimi e severe

La rutilante nostalgia di un tempo passato

La struggente certezza di un presente che vive

Nei cuori e nelle anime nostre future.

 

Nel giorno di Jupiter di un anno qualsiasi

 

 

 

 

 

LONGEVITÀ. LA SCIENZA PUÒ SCONFIGGERE LA MALATTIA?

In un recente programma televisivo di Canale Italia intitolato "Longevità. La scienza può sconfiggere la vecchiaia?" gli intervistati hanno discusso con un alto grado di preparazione e di buona volontà un argomento che a mio avviso è stato collocato in maniera errata.

Personalmente, se fossi stato io il programmatore, avrei consigliato l’intervistatore, il bravo Vito Monaco, di formulare la domanda in maniera diversa.

https://www.youtube.com/watch?v=7n23ZfFEzBM&t=195s

Avrei domandato: "La scienza può sconfiggere la malattia?"

Il motivo è molto semplice: nessuno vorrebbe diventare centenario, se sapesse che gli ultimi dieci o venti anni della sua vita potrebbe passarli entrando o uscendo da un ospedale, o dallo studio del medico di famiglia, o peggio ancora su una sedia a rotelle.

Ecco perché sostengo che il problema é stato posto di maniera errata e che la domanda corretta avrebbe dovuto essere: "La scienza può sconfiggere la malattia?" e quindi mantenere la discussione sulla "longevità" ma concentrandola sulla malattia che ci impedisce di essere sani e longevi, nel migliore dei casi perché ci costringe di stare a casa o a letto e nel peggiore a entrare e ad uscire da un ospedale.

Ora, tutti sappiamo fin dall’antichità, da Alcmeone di Crotone, per giungere al nostro buon Paracelso, passando dalle cure magiche e "miracolose" di un Cagliostro, che la cura e la guarigione dalle malattie è stato sempre la priorità assoluta della scienza sacra e profana.

Ecco come la pensava Paracelso, considerato uno dei padri della moderna medicina. Paracelso in uno dei suoi primi Trattati affermava esplicitamente:Poiché dunque il fondamento della medicina sta nella filosofia, dobbiamo soprattutto sapere come questo fondamento può essere ricavato dal­la filosofia. Ma prima che sia data notizia di ciò, è necessario spiegare la falsa filosofia che mi po­trebbe a questo punto opporre resistenza”.

L’intera opera di Paracelso deriva da questa premessa, cioè dalla necessità di un corretto modo di pensare al quale deve seguire un corretto modo di operare. Non è mia intenzione fare critiche alla medicina moderna, ma tutti noi siamo a conoscenza delle difficoltà che i medici incontrano per esercitare la loro arte e professione conosciuta col nome di “medicina” con fondamento e sapienza.

La medicina ha registrato grandi progressi negli ultimi tempi per la cura di "alcune" malattie, mentre peró ne curava alcune, se ne diffondevano rapidamente altre e tanto per fare un esempio, se nel secolo scorso si poteva morire facilmente di una febbre malarica (fino a che non fu scoperto il chinino che veniva fornito gratis alle famiglie dai "Monopoli" col nome di “Chinino di Stato”) era raro morire di cancro, mentre oggi ci si ammala facilmente e frequentemente di cancro e si muore raramente di malaria. Alcuni dicono che il motivo principale va cercato nel benessere e nell’alimentazione…Mah!

A parte altre considerazioni che farò in seguito, in via preliminare voglio affermare che la vita detiene nelle sue mani una sorta di bilancia: da una parte la vita e dall’altra la cessazione della vita che tutti noi chiamiamo morte.

L’Italia, nella medicina e nella terapeutica in generale, vanta una tradizione antichissima ed una cultura che all’estero ci hanno sempre invidiato e se non fosse per l’insulsaggine e l’intromissione della politica la nostra cultura medica potrebbe proseguire anche oggi sulla scia di un passato illustre ed essere di esempio al mondo. A questo proposito voglio ricordare un semplice nome, un personaggio legato a un gruppo terapeutico misterioso che si distinse a Napoli per le ricerche sulle cure del colera.

Parlo di Giustiniano Lebano il quale scrisse nel raro trattato sul Cholera: “Del morbo oscuro” (Napoli, 1884) le seguenti parole: “L’attuale medicina empirica non è ancora scienza perché fondata sopra sistemi. Quanti sono i medici in Europa, tutti hanno un particolare sistema, o scuola. Chi è Bruniano, chi è Felicettiano, chi è Omiopatista, chi Controstimolista Rosario, o Brussuista, chi Boeravio, chi Galenico… chi di qua, chi di la; per modo che gli infiniti sistemi non sono altro che tante opinioni che si distruggono a vicenda. E la scienza attuale della medicina? È un argine rotto dal torrente devastatore delle opinioni e degli interessi. Se dunque non vi ha scienza, ed i farmachi che si apprestano agl´infermi essendo veleni, poiché la voce Farmacon in greco corrisponde alla nostra voce Tossico, e Veleno, la medicina che gli dispensa nella insipienza dell’Arte Medica è più nociva alla vita umana che tutt´i morbi riuniti insieme, perché non ha basi scientifiche – teoriche – matematiche”.

Ripeto: era l’anno 1884 e non il 2022 quando in Europa imperversava la pandemia da Covid 19 con tutte le conseguenze che conosciamo e che abbiamo ben documentato e denunciato nei nostri recenti scritti.

La vita non ha paura della morte e alla vita non importa molto di sapere in che modo il regno animale cessa di respirare ed entrare così nel regno dei morti (l’antico Ade), perché l’equilibrio generale dell’essere e del cosmo si conserva mantenendo equilibrati i due pesi e lo fa seguendo un’intelligenza che è quella generale della natura.

I problemi metafisici sono soltanto umani, ed è solo l’uomo che si pone mille perché ai quali pretende dare mille risposte sensate ed intelligenti, dimenticando molto spesso che le risposte ai suoi grandi quesiti sulla vita, sulla morte e sulla malattia sono già insite e presenti nelle domande ed è solo la sua ignoranza a non vederle e a non tenerle in conto.

Chi può rispondere alla domanda: perché l’uomo vive mediamente 80-90 anni e non 200 anni? La risposta può essere di carattere filosofico o scientifico: se filosoficamente rispondiamo con Platone che visse fino ad 81 anni, scientificamente siamo obbligati a continuare con una domanda senza risposta perché le risposte vengono date dai numerosi scienziati e dai numerosi laboratori di ricerche che trattano la questione: ossia nessuno di loro ha una risposta univoca sicura e incontrovertibile. Voi mi direte: è qui che sta la bellezza della scienza, sono d’accordo, ma l’uomo la bellezza la cerca in Donatello, dalla scienza vorrebbe risposte soddisfacenti e positive che ancora non ha avuto.

Alcuni scienziati sono convinti che la medicina sia in grado di sconfiggere la vecchiaia. Non dico che sia impossibile, (ognuno è libero di studiare, sognare o di fantasticare come vuole) ma col passar del tempo rischia di diventare da esercizio di ricerca una utopia.

Sul tema della longevità inoltre, e concludo, non tutti la pensano allo stesso modo. Faccio un esempio: a che serve essere longevi quando si è pieni di affanni, di acciacchi, senza il minimo necessario per vivere (la pensione INPS, per esempio) o con lo spettro della povertà davanti agli occhi? Il problema pertanto dal campo sanitario si sposta a quello sociale e politico e su questo terreno la società e soprattutto la politica stentano a trovare risposte e soluzioni che permettano a “tutti” gli anziani, soprattutto ai poveri, o con poche risorse, di vivere una vita serena senza affanni e possibilmente senza malattie.

GIUSEPPE LAZZARETTI - ESOTERISMO DI APULEIO, AMLETO, FAUST   

PRESENTAZIONE


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Sulla vita dell’autore Giuseppe Lazzaretti non si sa assolutamente nulla.
Le poche, pochissime notizie che pubblico le ho avute dal figlio che viveva a Taranto, la stessa città natale del padre Giuseppe.
Giuseppe Lazzaretti era un capitano di lungo corso, in poche parole un ufficiale di marina.
Nella vita privata a quanto mi ha riferito il figlio ebbe una tormentata storia d’amore con una donna aristocratica, storia contrastata dalla famiglia nobile di lei.  
A quel che mi fu dato di sapere nel corso dell’unico colloquio che ebbi a Taranto col figlio di Giuseppe Lazzaretti, suo padre era stato iniziato alla Fratellanza di Myriam probabilmente dallo stesso Kremmerz. Credo che sia vero perché nel corso della lettura del libro ho potuto verificare che Lazzaretti accenna spesso, con cognizione di causa, ai misteri di una iniziazione “isiaco-osiridea”.
Nel capitolo dedicato ad Apuleio scrive infatti: “Ma è appunto l’invocazione a quel «segreto signore» che ci dà il riferimento alla iniziazione isiaca-osiridea alla quale con prudente riserbo non fa accenno, mentre cita quella persiana desunta da Platone della cui scuola intende farsi credere fedele seguace.” E subito dopo: “I greci, ereditandone la tradizione, cambiarono i nomi servendosi - secondo il dott. Kremmerz - di designazioni prese a prestito dalla mitologia e dal simbolismo astrologico e cioè:
1° Corpo saturniano —- L’organismo sensorio che nel continuo ricambio della materia si rinnova e riproduce (corrispondente al Khat degli egizi).
2° Corpo lunare — Emanazione sottile, plastica che risulta della vita del primo (Nivoi).
3° Corpo mercuriale —- Individualizzazione del Principio. L’uomo mentale, alato al capo e ai piedi ed a contatto con Giove, l’Io superiore (Ba).”
Con tutta probabilità Lazzaretti era iscritto ad un’Accademia di Bari.
Fu un autore prolifico. Alcuni libri furono pubblicati a Taranto in proprio dalla Tipografia Michele Santoro nel 1931. L’autore si occupò della stampa e della distribuzione anche del presente libro che ricevemmo in dono da un amico crotoniate.
La sua opera più importante, inedita, è “L’AMORE, IL CUORE, LA DONNA nella DOTTRINA SEGRETA DI DANTE E DEI FEDELI D’AMORE” dedicata ai Fedeli d’Amore. Di quest’opera il figlio mi fece dono di un esemplare manoscritto che custodisco con rispetto e amore.
In Appendice riproduco di quest´opera il piano editoriale e l´indice generale con la speranza che in futuro un Editore mostri qualche interesse alla pubblicazione.

Equinozio di primavera 2023 e.v.                                

                                                                                                                                       Roberto Sestito


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EPICURO E IL TETRAFARMAKON


 

 

Nell'Atene del V secolo a.C., nel periodo d'oro della democrazia ateniese, ogni cittadino era in un certo senso un principe. Il vecchio demos governava l'impero ateniese. Come cittadino, l'ateniese era padrone di se stesso, perché la costituzione della vita democratica era data dalla partecipazione effettiva dei cittadini, che dovevano decidere sul destino collettivo.

Questi fatti segnano la necessità storica di pensare a una nuova etica. A differenza di quanto accadeva nell'etica aristotelica, impegnata nell'ideale della polis, in questa nuova concezione etica l'uomo deve trovare in sé stesso il principio della sua libertà.

Epicuro rispose a questa domanda. La scuola di Epicuro era composta da una casa e da un giardino, che era una sorta di orto o giardino di erbe dove si concentravano i suoi studenti e aderenti. Questo era il noto giardino di Epicuro, concepito come un rifugio. La proposta di Epicuro era che fosse possibile vivere li liberamente, tra amici, in una nuova forma di comunità. La casa e il giardino furono acquistati per servire come mezzi per la vita intellettuale e materiale dei membri della scuola.

Il pensiero di Epicuro era rivolto ai problemi pratici del suo tempo. L'obiettivo di Epicuro era quello di "dissipare l'angoscia mentale che l'ignoranza sugli dèi, l'ignoranza sulla natura e l'ignoranza sull'anima possono produrre".

Epicuro si basa sul presupposto che tutti gli esseri viventi, fin dalla nascita, cercano la felicità e vogliono eludere il dolore attraverso un'adeguata pratica terapeutica. Nasciamo piangendo per il latte materno e il calore. Cerchiamo il piacere e fuggiamo dal dolore. Cerchiamo il piacere che ci porta a sopprimere il dolore. In altre parole, il piacere è la realizzazione di ciò che ci fa bene e il dolore di ciò che ci fa male.

Ma questa vita di piacere che Epicuro raccomanda non è la vita di abbandono al godimento sensuale censurato da Pitagora. Il punto fondamentale è l'interpretazione data alla parola piacere. Il piacere non consiste nel diletto, non è legato alla "voluttà dei dissoluti e dei godimenti sensuali, come alcuni ignoranti pensano per pregiudizio o per incomprensione, ma nella pura assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell'anima".

Inoltre, erigendo la giovialità a bene supremo, Epicuro non sostiene che il bene sia ciò che sembra buono a ciascuno, né che la felicità consista nel ricercare ogni piacere. Tutti i piaceri sono buoni, ma non tutti i piaceri devono essere scelti; tutti i dolori sono cattivi, ma non tutti i dolori devono essere evitati. La soddisfazione dei desideri è un bene perché elimina il motivo dell'inquietudine, ma a volte è meglio non cedere a questo impulso se questa soddisfazione, buona in sé, si rivela fonte di disturbi ancora maggiori.

La missione etica è insegnare a discriminare tra i piaceri "con il calcolo di ciò che è utile e la considerazione di ciò che è dannoso, perché in certe circostanze il bene è male e il male è bene per noi". Il raggiungimento della felicità deriva da scelte in cui spesso si deve rinunciare a certi interessi, non perché sarebbero intrinsecamente cattivi, ma perché causano grandi disagi.

Epicuro ha collegato questa etica emancipatrice alla filosofia antica. La sua idea centrale è che comprendendo l'ordine cosmico ci liberiamo dal terrore superstizioso e dalla paura della morte.

Il principio ontologico della filosofia epicurea è che il substrato ultimo di tutte le cose visibili e invisibili sono particelle corporee indivisibili ed eterne, la cui congiunzione e separazione nel vuoto infinito costruisce e decostruisce i mondi che furono, sono e saranno. Come conseguenza di questo principio filosofico, Epicuro “costruisce il principio etico che afferma che proprio per questo il cosmo ha [...] uno scopo o un'intenzione immanente o trascendente, naturale o divina. La vita non annuncia, quindi, né punizione né ricompensa per gli uomini”.

Per questo non dobbiamo temere né la morte né le punizioni infernali inventate dall'ignoranza e dalla superstizione della religione cristiana.

Per il filosofo, senza comprendere i meccanismi della natura, resteremo tormentati dalla paura degli dei, dalla paura della morte e dall'ansia derivante dal non controllare adeguatamente il nostro atteggiamento nei confronti delle sofferenze della vita.

Lo scopo della saggezza è quello di aiutare a sopprimere le paure sul destino del corpo, la cui causa sono le false opinioni sugli dei, sui corpi celesti e i loro fenomeni, sulla malattia e sulla morte.

Per sopprimere queste paure esiste un quadruplice rimedio: il tetrafarmakon:

1)         Non dobbiamo temere gli dèi - Gli dèi non sono da temere, perché chi è felice ed eterno

"non ha preoccupazioni, né un altro essere lo disturba; perciò è immune da movimenti di collera o di gratitudine, perché ogni movimento del genere implica debolezza".

Gli dèi sono incorruttibili e indistruttibili: non subiscono alcun affetto, perché non sono in contatto con nulla che possa modificarli, cioè aggregarli o dissolverli. Non sono né creatori né signori di alcun destino, né giudici dei morti.

2)         È necessario sconfiggere la più grande delle paure, che è quella della malattia e della morte. L'autocoscienza dipende dall'unione di anima e corpo. La morte è la separazione del corpo dall’anima e quindi la fine dell'autocoscienza. Ciò che è decomposto è insensibile e l'insensibilità, che è al di fuori di ogni sensazione, non comporta alcun rischio. "La morte, il più terrificante dei mali, non è nulla per noi. Finché siamo presenti, la morte è assente; quando si presenta, noi non siamo più" (EPICURO in Lettera a Mencede).

Dobbiamo capire che "quando arriva l'ora della morte il corpo si separa dall'anima per tornare alla madre terra". Ciò che conta è la qualità della vita.

3)         Non è il piacere più raffinato a rendere felice la vita. Il più delicato dei cibi non ci servirebbe se non uccidesse la nostra fame. Il piacere che ci dà la sua raffinatezza sarebbe sempre inferiore a quello che deriverebbe dalla soppressione della sofferenza causata da uno stomaco vuoto.

Abbiamo bisogno del piacere solo quando soffriamo per la sua mancanza. Ma quando non soffriamo, non ne abbiamo bisogno. Il piacere è quindi l'inizio e la fine della vita felice.

4)         La prima delle virtù dell'iniziato alla saggezza è l'impassibilità: nulla può affliggerlo o abbatterlo. Inoltre, se il tempo è fluido, se tutto passa e scompare, se la materia si trasforma, è sciocco lacerarsi con tormenti e lamenti.

In breve, "i quattro rimedi rispondono alle quattro cause principali dell'infelicità umana: la paura dell'ira degli dei, la paura della morte, la cattiva scelta degli oggetti del desiderio e l'angoscia di fronte alla sofferenza".

I primi due rimedi si rivolgono direttamente all'intelletto e hanno quindi un effetto terapeutico immediato. È sufficiente comprendere la natura delle cose: la morte è solo la separazione del corpo sensibile dalla vita.

Quindi, per essere spiritualmente appagati, basta seguire la terapia del giardino. La buona vita ha due componenti principali: l'afonia, cioè l'assenza di dolore fisico, e l'atarassia (non turbamento), l'assenza di dolore spirituale (ignoranza dei valori dello spirito).

L'atarassia è la virtù propria del saggio e consiste nella totale assenza di paura. L'imperturbabilità è la piattaforma necessaria per raggiungere l'elevazione spirituale.

II bene supremo consiste nell'amministrare nel miglior modo possibile i beni della vita e nel soddisfare i bisogni primari in modo tranquillo e semplice.

La saggezza che apre le porte alla felicità, proprio perché non è un dono di natura né della grazia divina, può essere raggiunta solo attraverso uno sforzo perseverante. La felicità è una felicità conquistata. Chi la raggiunge non soffrirà mai di disturbi e vivrà quindi come un dio tra gli uomini. Il piacere e il dolore derivano dalla relazione del nostro corpo con gli oggetti che lo riguardano. Epicuro ci insegna come gestire bene questo rapporto.

Il piacere fondamentale è il sereno equilibrio dell'anima. Perché la vita sia buona, è sufficiente che non sia troppo turbata da dolori e sofferenze. Quando si raggiunge questa meta, ogni tempesta dell'anima scompare". "Il sentiero iniziatico è una medicina dell'anima. Sarebbe una medicina che cura le anime malate che non sono naturalmente sagge o una medicina che ripristina la salute perduta".

Quando si tratta di resistere ai disturbi, che sono aggressioni provenienti dall'esterno, la medicina deve intervenire per espellerli dal corpo; se il disturbo riguarda l'anima, è consigliabile espellerlo attraverso una disciplina spirituale e rituale.

 

Daimon, Tyche, Eros, Ananke

Il Daimon, è la prima potenza che determina il destino. Il famoso "demone" di Socrate, di quando in quando gli sussurra all'orecchio come debba agire".

In realtà, il Daimon non agisce in modo puntuale, presentandosi, invece, come la necessità interna che impone all'individualità personale la sua unicità caratteristica, prodotta e simbolizzata dalla configurazione unica delle potenze astrali che hanno presieduto alla sua nascita. È una forza di crescita che può dispiegarsi solo restando fedele alla sua legge di sviluppo, rimanendo nei limiti che le sono propri.

L'individuo è condannato a essere se stesso: "Così devi essere, non puoi fuggir te stesso. Tyche, il caso, la fortuna mutevole, può apparire di primo acchito come una felice occasione di sfuggire a noi stessi e allo stretto limite impostaci dal Daimon.

Alla legge rigorosa Tyche oppone il caso, la varietà, l'imprevisto. Tyche rappresenta i movimenti che ci sono esterni e che non dipendono da noi: gli incontri con gli altri uomini, ma anche gli eventi fortuiti, quel gioco del caso che è la vita quotidiana. L'azione congiunta di Daimon e Tyche è, quindi, decisiva per il destino dell'individuo. Si tratta dell'incontro tra fattori innati e fattori accidentali. "Daimon e Tyche", "determinano il destino di un essere umano." È ciò che chiama l'interazione tra la costituzione e l'esperienza.

L'incontro tra Daimon e Tyche rischia, dunque, di rinchiudere l'individuo nel gioco e nella futilità, ma può anche far scaturire una fiamma, quella di Eros, terza potenza a determinare il destino dell'individuo.

Qui [nell'Amore] si congiungono il demone individuale e la seducente Tyche; l'essere umano sembra ubbidire solo a se stesso, lasciar agire solo il proprio volere, essere schiavo dei suoi istinti, e tuttavia quelle che si insinuano sono casualità, ed è qualcosa di estraneo ciò che lo allontana dal suo cammino.

L'Eros è a un tempo l'Eros "creatore" di cui parla la mitologia orfica, quello che "s'innalzò dal caos antico", e l'Amore alato, il figlio di Afrodite che, in primavera, risveglia il desiderio in ogni creatura.

È una forza che domina ciascun essere. Questo Amore che vola genera amori volubili: viene e va, fugge e ritorna. L'incontro tra Daimon e Tyche che fa nascere l'Amore è, per molti esseri umani una sorta di trappola.

In questo gioco drammatico la maggior parte degli uomini perde la sua personalità e libertà, poiché si lega non tanto all'individualità del partner, ma unicamente al piacere dei sensi che va stemperandosi nel molteplice.

Ma il più nobile si dona a uno soltanto.

Solo adesso, infatti, appare evidente di cosa sia capace il demone; lui, l'indipendente, l'egoista, che con volere assoluto interveniva nel mondo ed era infastidito quando Tyche qua e là si poneva sul suo cammino, ora avverte di non essere determinato e contraddistinto solo dalla natura.

Nell'amore che prova per l'essere che il caso (?) gli ha fatto incontrare, l'uomo può prendere coscienza della sua libertà di scelta. Può, con una decisione esclusiva, legarsi all'essere amato e superare il suo egoismo, mostrando così che non è "determinato […] solo dalla natura" e che può "riuscire a pervadere un secondo essere umano, come se stesso, di eterno, indistruttibile amore".

In questo trionfo del Daimon, potrebbe celarsi un nuovo inganno. La libera decisione, infatti, ha come conseguenza la rinuncia alla libertà; si deve vivere insieme: due anime in un unico corpo, due corpi in un'unica anima.

Questo corpo più esteso che costituisce la famiglia soffre di malattie, affanni, crucci. "Tutto ciò che un'amorevole inclinazione concedeva volontariamente è ormai dovere", per di più sanzionato dalla cerimonia del matrimonio. Elogio del matrimonio, dunque, ma elogio tiepido che non intende occultare i "mille doveri" che peseranno sull'individuo.

Infine appare Ananke, che esprime la delusione della libertà individuale di fronte ai vincoli e ai doveri che la società le impone. Tuttavia, occorre attentamente distinguere vincoli sociali che gravano sull'amore e sul matrimonio, dalla Necessità implacabile e universale cui sono sottomessi gli individui.

Quando si gode di un vantaggio, come il matrimonio, bisogna accettare gli inconvenienti che necessariamente ne derivano. La felicità ha il suo prezzo, che si deve pagare.

La dipendenza volontaria è la situazione più bella, ma come sarebbe possibile senza l'amore?

In Ananke, invece, non va dimenticato che "Così è di nuovo, come gli astri vollero".

La volontà degli astri rappresenta il volere della totalità, ovvero il destino ineluttabile o la volontà di un dio.

L'uomo crede di volere liberamente, ma vuole ciò che vuole perché deve volerlo, e deve volerlo perché così hanno voluto "gli astri", cioè il destino, l'ordine e il corso generale della natura. Ha creduto di agire secondo la sua volontà, ma in realtà in funzione del suo Daimon; era prestabilito che avrebbe dovuto volere ciò che ha creduto di volere liberamente.

L'individuo crede di fare ciò che vuole e di seguire il suo capriccio; ma non sa che, in realtà, per il fatto di essere e di essere così com'è in virtù del suo destino, è predestinato a volere proprio ciò che crede di volere liberamente.

Paradossalmente, può accadere che questa volontà che l'individuo crede personale e che gli è imposta dal suo Daimon e dal destino, venga ostacolata da questo stesso destino.

L'individuo, per esempio, ha voluto legarsi a un essere amato, e l'ha voluto perché lo doveva, perché il suo demone lo votava a questo amore; questo amore, tuttavia, gli verrà estirpato dal cuore dal destino. La necessità sembra apparentemente opporsi a se stessa. Questo paradosso può essere confrontato con ciò che si osserva nella concezione del "demonico".

Questo è descritto, infatti, come una potenza che si manifesta solo per contraddizione, che non è né divina né umana, né demoniaca né angelica, ma che costituisce un fenomeno incomprensibile all'intelligenza e alla ragione, un potere sovrumano o quasi divino, una forza creatrice, ma anche distruttiva, seduttrice, quasi irresistibile, presente in tutta la natura, ma predominante in alcuni uomini.

Solo Dio può opporsi a Dio. Ma qui il termine "Dio" significa, nel contesto del "demonico", una potenza quasi divina, e soprattutto una potenza suscitata da Dio, cioè dalla natura o dal destino. Solo il destino stesso può opporsi a un essere la cui volontà è imposta dal destino. Il paradosso consiste, dunque, nel fatto che è il destino stesso a provocare ciò che sembra opporglisi.

Il Daimon e il demonico hanno in comune il fatto di essere potenze che dominano l'uomo e lo guidano, benché questi creda di condursi da sé.

È esattamente la situazione descritta, come abbiamo visto, con riguardo ad Ananke: a causa della necessità interna rappresentata dal Daimon, vogliamo solo in quanto dobbiamo volere, conformemente alla volontà degli astri, ovvero di una potenza superiore. Il Daimon nella misura in cui ci determina e ci dirige, appartiene in definitiva al vasto campo del demonico.

Le parole dedicate ad Ananke esprimono, in modo apparentemente perentorio e brutale, la delusione e la disillusione risultanti da tutte le insoddisfazioni che l'anima, ovvero l'individuo, ha provato scoprendo le sorti che determinano il suo destino. Il Daimon era una promessa di crescita armoniosa per l'essere appena nato. Ma era anche predeterminazione, una predestinazione che lo condannava a non essere altro che quello che era: "Così devi essere, non puoi fuggir te stesso".

Tyche rappresentava la promessa di incontri con altri esseri e tutta una molteplicità di eventi in grado di introdurre varietà e fantasia nella crescita dell'individuo, ma rischiava di soffocare la personalità nella futilità e nel conformismo. Nell'incontro con l'Amore (Eros), però, Tyche poteva offrire all'individuo la possibilità di aprirsi, di superarsi in un'altra personalità e di scegliere così, con una libera decisione, di unirsi a essa con un vincolo indissolubile. L'amore diventava, allora, dovere obbligo ma anche gioia.

Alla fine l'individuo riconosce il potere assoluto di Ananke, del limite e della necessità cui è stato sottomesso per tutta la vita. Ha fatto tutto "come gli astri vollero".

In definitiva, dichiara Ananke, siamo soltanto "liberi, in apparenza". La libertà, la scelta non sono che illusione.

Alla necessità tutto è sottomesso, eccetto l'indomabile audacia dell'animo umano, che con altro nome chiamiamo Speranza" e ne riconosciamo il simbolo nelle ali del caduceo di Hermes:

"Un colpo d'ali - e dietro a noi gli Eoni", ali da porre in relazione con il volo del pensiero".

Ma ecco la descrizione del caduceo di Macrobio nel quale sono rappresentati Daimon, Tyche, Eros, Ananke 


 
 

Esso si presenta sotto forma di due serpenti, maschio e femmina, intrecciati. Sono Daimon e Tyche, Sole e Luna. Le loro bocche sono unite in un bacio che rappresenta Eros, le parti anteriori dei loro corpi formano un cerchio, mentre le parti centrali sono strettamente legate da un nodo che Macrobio chiama il nodo di Ercole, famoso nell'Antichità perché difficile da sciogliere. Questo nodo è l'Ananke. A partire da qui, le parti inferiori dei corpi formano un secondo cerchio, con le estremità che si riuniscono nell'impugnatura, in un punto da cui spuntano due ali. Ogni particolare della figura del caduceo corrisponde a una delle divinità che determinano il destino umano, anche se non dà un nome alle ali, accontentandosi di dire: "Il motivo per cui sono state aggiunte le ali è già stato detto".

 

PLOTINO


Plotino occupa u posto molto importante nella storia del pensiero - importante nella filosofia, ma molto di più nella teologia e nello sviluppo della mistica.

Paul Henry

Il nome di Plotino è inevitabilmente legato a una corrente spiritualista (oggi non si può più parlare di scuola in senso stretto) che ha ricevuto il nome di Neoplatonismo. Il prefisso neo tradisce già l'origine moderna di questo termine. E, in effetti, Plotino avrebbe senza dubbio protestato se fosse stato identificato come il creatore o l'iniziatore di una nuova visione di Platone. Egli pretendeva di essere, senz’altro, un continuatore, e lo dice letteralmente in alcuni passi (cfr. Enneadi, V, 1,8: "…e che queste tesi non sono nuove”. Per Plotino, la concezione che egli difende, cioè la gerarchizzazione della realtà in tre livelli dell'essere o ipostasi, era contenuta nel pensiero greco classico e, in modo particolare, in Platone (cfr. Enneadi, VI, 2, 1: "… che senso hanno per noi queste idee che stiamo cercando di riferire all'opinione di Platone». Ci sono in Plotino elementi che certamente lo accomunano al maestro : il linguaggio, l'uso delle categorie platoniche, la sua concezione dell'essere. Plotino riprende le meditazioni platoniche e le spinge ai loro limiti estremi, trasformando il Bene, che è al di là dell'essere, l'Uno del Parmenide o il Bene-Uno del Filebo, nel polo di una dottrina che è allo stesso tempo un'odissea spirituale. In Plotino, insomma, i postulati impliciti nella filosofia dello spirito che si stava sviluppando ai suoi tempi vengono portati alle loro ultime conseguenze, pur avendo una nuova portata.

Talvolta è stato fatto un confronto tra il sistema plotiniano e quello indù (in particolare le Upanischad) ed è stato affermato che in entrambi "la riflessione su se stessi è incentrata sulla pura identità del centro metafisico di ciascuno". Questo è vero in linea di principio, ma con una differenza fondamentale: in Plotino la ricchezza del sé non è una mera teoria, ma un'autentica realtà; è un'esperienza che il pensatore traspone in un sistema. L'intera filosofia dello spirito di Plotino è un tentativo di far coincidere la struttura della realtà ontologica con quella della realtà psicologica dell'anima umana.

Alcuni dati biografici. Il suo lavoro

Ha molto senso parlare di biografia di Plotino, se non è la semplice conferma del tempo in cui è vissuto? Porfirio, discepolo prediletto del maestro e autore di una biografia di Plotino, scrive:Plotino, il nostro filosofo contemporaneo, sembrava vergognarsi di avere un corpo. A partire da questo sentimento, si è rifiutato di raccontare qualcosa dei suoi genitori, della sua famiglia o della sua patria. Non sopportava né i pittori né gli scultori, tanto che in un'occasione, quando Amelio chiese il permesso di fare il suo ritratto, disse: "Non è forse sufficiente sopportare l'immagine che la natura ci ha imposto che dobbiamo permettere che ne rimanga un'altra, più duratura?".

L'intera opera di Plotino si riduce all'insieme sistematico che conosciamo come Enneadi. L'insegnamento oriundo di Plotino sembra essere stato enormemente anarchico e disordinato (cfr. Porfirio, Vita di Plotino, 3). Al suo arrivo a Roma, Porfirio, che era essenzialmente una mente filologica, si procurò, su suggerimento del suo maestro, gli scritti di Plotino, "affidati a un piccolo numero di persone", li conservò e anni dopo li pubblicò. Porfirio poté utilizzare tutti gli appunti del maestro, ma ne fece la sistemazione sistematica e introdusse alcune modifiche: alcuni trattati vennero suddivisi e in alcuni casi il curatore aggiunse qualcosa di suo (come, ad esempio, in III, 9). L'edizione non ordina gli scritti cronologicamente, ma sistematicamente (culminando l'opera con gli scritti sull'Uno, ad esempio). Anche i titoli di ciascun trattato provengono dall'editore. Oltre a questa edizione, ne conosciamo un'altra di Eustochio, medico e discepolo di Plotino.

Perché il nome Enneadi? Il titolo, come abbiamo detto, non deriva dall'autore, ma dallo stesso Porfirio (cfr. Vita di Plotino, 24), il quale sottolinea che la divisione in sei gruppi di nove trattati ciascuno dà il numero perfetto. Possiamo dedurre che dietro la disposizione porfiriana si nascondano altri trattati dello stesso Plotino.

Poiché l'opera sulle dottrine di Numenio citata da Porfirio non si è conservata, dobbiamo concludere che Le Enneadi, sono l'unica opera che ci è stata conservata.


I principi della sua filosofia

La grande esperienza di Plotino fu il contatto con Ammonio Sakkas. Come sottolinea Porfirio: [Frequentò le lezioni dei più rinomati maestri di Alessandria, ma lasciò le lezioni scoraggiato, finché non raccontò a un amico ciò che gli stava accadendo. Quest'ultimo, comprendendo ciò che stava accadendo al suo spirito, lo portò da Ammonio, che non aveva mai incontrato prima. Quando entrò e sentì le sue parole, esclamò: "Questo è quello che stavo cercando". Da quel giorno frequentò assiduamente le lezioni.

Chi era Ammonius? E, soprattutto, qual è stato il suo pensiero? A dire il vero, l'appartenenza spirituale del maestro di Plotino è, ancora oggi, un enigma. Non c'è accordo tra gli studiosi sulla sua posizione filosofica. Per comprendere il pensiero di Plotino, quindi, dobbiamo attenerci a ciò che Plotino stesso ci dice, anche se in contrasto con altre fonti, come la biografia di Porfirio o la tradizione platonica. Ma è nelle Enneadi che troveremo materiale più abbondante, sufficiente, crediamo, a delineare, a grandi linee, il suo pensiero.

Plotino, secondo Porfirio, ebbe un'esperienza singolare che cercò di trasporre sul piano ontologico. Nell'Enneade IV, 8, ci parla di questa esperienza fondamentale che, per la sua importanza, riportiamo in extenso:

Spesso mi sveglio con me stesso che fuggo nel mio corpo e, strano a dirsi, nell'intimità di me stesso, vedo la più meravigliosa bellezza possibile. Allora sono convinto di avere un destino superiore e che la mia attività è il grado più alto della vita. Sono unito all'Essere divino e, avendo raggiunto questa attività, rimango con lui al di sopra di tutti gli altri esseri intelligibili. Ma dopo questo riposo nell'essere divino, essendo ridisceso dall'Intelletto al pensiero discorsivo, mi chiedo [...] come l'anima possa essere venuta nel corpo così come mi è apparsa.

Qui si delineano i tre livelli ontologici (ipostasi) che costituiscono la realtà e che, con uno sforzo di autocoscienza,

Plotino scopre anche nel soggetto umano. Ogni grado tende, invece, al grado superiore, il che significa che la caratteristica del pensiero plotiniano è la tendenza alla trascendenza.

Ma la strada verso questa trascendenza non è unica. Ci sono tre vie che portano ad essa (Enneade V, 7, 36): la via della conoscenza, la via etica e la via estetica che permette infine la visione mistica. A queste tre vie corrispondono tre processi: la purificazione (kâtharsis), la contemplazione (theôria) e la visione estatica (ékstasis) che conduce l'anima alla sua origine sublime.

La trascendenza, o meglio l'inclinazione alla trascendenza, porta invece a una conversione al mondo superiore. Il grande peccato che impedisce questa conversione è la dimenticanza dell'anima della sua prima origine (Enneade V, 1, 1). Da qui l'esortazione costante ad essere svegli.

La vita spirituale, come la concepisce Plotino, è un processo costante e circolare costituito da due grandi momenti correlativi: da un lato la processione, cioè il movimento dialettico attraverso cui la realtà scaturisce dall'Uno, passando per l'Intelletto (nous), per l'Anima (psykhê) fino ad arrivare alla materia (hyle). Ma, in coerenza con l'hyle, l'anima umana deve tendere a un processo inverso di elevazione verso il Principio supremo. Questo processo di ritorno acquista, in Plotino, una dimensione autenticamente iniziatica.[1]

Ma il grande problema che si pone a chiunque si cimenti nell'esposizione del sistema plotiniano non sta tanto nell'ordine di esposizione. A prima vista può sembrare che il metodo migliore sia quello di partire dal grado supremo della realtà per scendere ai gradi inferiori e, in un processo inverso, seguire l'ascesa dell'anima verso l'Uno. Questo è il modo in cui hanno proceduto non pochi espositori del sistema plotiniano, ma tale metodo è più adatto all'esposizione di altri pensatori della scuola, più sistematici. In Plotino, invece, assistiamo piuttosto a un'ascesa dal multiforme mondo dell'esperienza ai gradi superiori. La cosa migliore, quindi, è adottare un metodo misto, che consiste nel parlare prima, sinteticamente, della processione, per poi tornare alla marcia di ascesa verso l'Uno.

La processione plotiniana

Plotino è stato il primo pensatore greco a porsi, in modo radicale, il problema della creazione. Gli antecedenti che possiamo trovare di questo approccio non acquisiscono la radicalità che scopriamo in Plotino. La creazione descritta nel Timeo platonico, la riflessione che troviamo sull'argomento in Aristotele o negli Stoici, non sono paragonabili allo sforzo del fondatore del Neoplatonismo. È possibile che Plotino abbia preso l'idea della creazione da Filone di Alessandria. E infatti, in Filone, Dio, che è interamente trascendente, crea dall'abbondanza della sua perfezione. L'emanatismo filoniano riappare in Plotino, anche se in forma completamente diversa. Il processo attraverso il quale avviene la creazione è chiamato, nella terminologia plotiniana, proodos, che i moderni hanno tradotto come processione.

Secondo queste idee, si stabiliscono tre livelli ontologici, le cosiddette ipostasi, che per Plotino sono: l'Uno, l'Intelletto (noûs) e l'Anima (psykhé), come si legge in Enneade II, 9, 1-33.

 

a)         L'Uno

Al vertice della gerarchia plotiniana c'è l'Uno. Infatti, scrive il filosofo, "se c'è molteplicità deve esserci prima unità" (Enneade VI, 1, 13). L'Uno, trascendente - e forse ispirato, almeno in parte, all'Uno di Parmenide - è semplicità assoluta, autosufficienza. È il Bene trascendente e infinito, puro atto auto-creativo. Plotino tratta della prima ipostasi, l'Uno, soprattutto nell'Enneade VI:

Pertanto, se ci deve essere qualcosa di assolutamente sufficiente per se stesso, deve essere l'Unico, che sarà completamente solo e che non avrà bisogno di nulla né rispetto a se stesso né rispetto agli altri [VI, 9, 6].

È infinito, perché è uno solo, e non ha né limiti né figure, perché non ha parti né forme [VI, 5, 11].

L'essere che è, è un atto in sé [VI, 8, 16].

Questo Principio Primo è al di là del pensiero e dell'intelletto, è perennemente vigile; tutto nasce da esso, ma non da un processo deliberato o da un atto di coscienza. Nasce a causa della sua sovrabbondanza. In questo si differenzia profondamente dal Dio cristiano:

"E questo eggregoro [egrêgorsis] trascende l'essenza, l'Intelletto [noûs] e la vita" (VI, 8,16).

L'Uno, come Principio assoluto, deve essere distinto dall'Intelletto e quest'ultimo dall'anima, che è più vicina alla materia. Ma questo non significa che possano essere divisi: non si può dire, per esempio, che uno è potenza e l'altro atto, perché l'Uno è al di là di questa distinzione e l'Intelletto è sempre atto. Ma non è nemmeno legittimo postulare un logos come un'ulteriore ipostasi, situata tra l'Intelletto e l'Anima. Le ipostasi sono tre e solo tre. In questo, i continuatori - Giamblico, Proclo - si discostano dal maestro.

La creazione è quindi una conseguenza, da un lato, della suprema sovrabbondanza dell'Uno, della sua suprema facoltà di generare. E questa sovrabbondanza deve traboccare:L'Uno non è, in sé, l'essere, ma la generazione dell'essere. L'essere è come la sua primogenitura. L'Uno è perfetto e attraverso di esso la sovrabbondanza e questa sovrabbondanza produce qualcosa di diverso da sé [V, 2, 1]. L'Uno è una potenza, una potenza immensa [V, 3,]

Per esprimere il fenomeno della creazione (che in Plotino è emanazione) il filosofo ricorre a varie immagini: quella della fontana che scorre senza mai esaurirsi (III, 8, 10); quella dell'albero immenso il cui principio è la radice; quella della sfera luminosa che proietta la sua luce senza smettere di essere essa stessa luce e senza perdere nulla della sua luminosità originaria. In altre parole: la creazione è una relazione eterna, non un atto di volontà. Esiste un amore (eros) dell'Intelletto e dell'Anima verso l'Uno, ma non viceversa. Il Principio Primo rimane in sé, ma emette irraggiamenti, bagliori: "Tutto ciò che è stato creato desidera e ama il suo creatore " (V, 1, 6).

b)         L'intelletto (Noûs)

Ma l'Uno non crea direttamente l'universo. Tra Lui e il mondo sensibile c'è un mondo intelligibile (seconda ipostasi) fatto di Idee platoniche. È una luce derivata dalla Luce originale. È come l'immagine dell'Uno (III, 8, 11; V, 3, 12):

L'immagine di Lui diciamo che è l'Intelletto [...] perché è necessario che il figlio sia, in un certo senso, Lui, che conservi molto di Lui e che sia simile a Lui come la luce è simile al Sole. Ma Egli non è l'Intelletto. È Lui, dunque, a generare l'Intelletto? Perché vede attraverso una conversione a Lui: e questa visione è l'Intelletto [V, 1,7],

Tutti gli intelligibili sono nell'Intelletto (V, 1, 4); esso comprende tutte le cose immortali. È Dio, ma non il Dio supremo (V, 5, 3):

E questa natura è Dio, un secondo dio che si mostra prima di vederlo. Ed Egli siede [...] su questo bel fondamento.

Contiene in sé tutti gli immortali, tutto l'Intelletto tutta la divinità.

È identico al suo oggetto (V, 4, 2).  L'Intelletto è un essere organico e vivente, a cui nulla è dovuto (VI, 2, 21).

c)         L'anima (Psykhê)

Nel pensiero di Plotino, invece, passa direttamente dall'Intelletto all'universo sensibile? Per niente. I significati intelligibili (le Idee) devono prima diventare temporali per costituire l'Anima universale e l'infinità di scopi particolari che essa contiene: "L'Anima è il Verbo e l'atto dell'Intelletto come l'Intelletto è dell'Uno" (V, 1, 6). L'Anima è la causa dell'unità dei corpi e deve quindi essere, a sua volta, unità. Anche se non è un'unità assoluta. È quindi unità-pluralità (VI, 2, 5); è allo stesso tempo divisibile e indivisibile, anche se prevale l'aspetto indivisibile, poiché appartiene a una natura divina (IV, 7, 10). Di conseguenza, l'anima non può essere, come sostiene Aristotele, l'entelechia del corpo: è il vero essere (IV, 7, 8). Inoltre, la sua natura è duplice: intellettiva e sensibile (IV, 8, 7). E questa doppia natura dell'Anima - spiegata dalla sua posizione intermedia - è ai limiti dell'intelligibile, ma, allo stesso tempo, molto vicina alla natura sensibile (IV, 8, 7): poiché la natura dell'anima è duplice, una intellettiva e l'altra sensibile, è meglio che viva nell'intelligibile. Ma è comunque dominata dalla necessità di essere anche nel sensibile, poiché ha una natura simile.

D'altra parte, l'Anima è il produttore del mondo corporeo:

Se il corpo non esistesse, l'Anima non potrebbe procedere, poiché non esiste un altro luogo in cui essa si manifesta naturalmente. Perciò, per procedere, genera il suo posto ossia il corpo.

E così l'Anima, produttrice del Cosmo sensibile che si muove a imitazione del precedente (l'Intelletto) [...] divenne prima di tutto temporale, producendo l'eternità [III, 7,10].

L'Anima, tuttavia, si trova a distanze diverse dall'Intelletto. Prima di tutto c'è l'Anima universale, poi l'Anima del mondo, che è la parte inferiore di essa. Poi c'è la parte migliore dell'uomo e infine quella inferiore. L'Anima universale è più creativa delle Anime particolari, perché è più vicina all'Intelletto (IV, 3, 6). Ma la nostra anima particolare non fa parte dell'anima del mondo. Qui non può essere in contatto diretto con le cose, mentre l'anima particolare sì (IV, 8, 7). La funzione dell'anima non è solo quella del pensiero. In questo caso, infatti, non si differenzierebbe in alcun modo dal Noùs o Intelletto. L'Anima ha, invece, una funzione specifica: il compito di governare e ordinare l'universo (IV, 8, 3).

Possediamo quindi un'anima, che proviene direttamente dalla parte superiore dell'Anima universale. Grazie ad esso:

[...] siamo noi stessi; ma non è la causa della nostra esistenza, bensì del bene che è in noi; viene quando il corpo è già formato, rappresenta quel poco di ragione che è in noi, e contribuisce alla nostra esistenza [II, 1,5].

Ciò che accade è che la nostra anima divina è chiamata a unirsi al corpo in modo molto più stretto di quanto non faccia l'anima del mondo con l'universo da essa creato. Gli scopi particolari, infatti, non hanno creato il corpo: semplicemente discendono in noi. Dovremmo allora chiederci, discende per spiegare questa simbiosi tra l'anima particolare e il corpo? Sembra che la risposta debba essere negativa. In effetti, tutto sembra indicare che l'anima scende nel corpo che le corrisponde. L'anima scende al livello morale e intellettuale che aveva nella sua vita precedente (cfr. V, 2, 2). La discesa dell'anima è causata da un peccato di orgoglio o di ribellione a Dio; da una sorta di audacia (tólma):

Perché le anime dimenticano Dio Padre e, essendo di natura divina e interamente di Lui, non conoscono se stesse e Lui? L'inizio del male, dunque, è per loro l'orgoglio e per la generazione, la prima differenziazione e il desiderio di avere il proprio potere [...].

Così avviene che, la completa ignoranza di Lui, è causa di stima per le cose di qui e di disprezzo per quelle di là [V, 1, 1].

In breve: possiamo dire che, poiché tutta la realtà procede dall'Uno, il male può esistere solo in una rottura di questo legame con Lui, in una chiusura in se stessi, in una pretesa di autosufficienza, in breve, in una sorta di orgoglio pieno di audacia (tólma). Ora, una tale rottura può avvenire solo a livello dell'anima, cioè a quel livello in cui l'essere e il non essere si toccano. La separazione dal corpo è quindi necessaria: "Separarsi dal corpo significa ritirarsi in se stessi, rimanere immuni dalle passioni" (I, 2, 5). Poiché il corpo è la prigione e la tomba dell'anima (I, 1, 3), l'anima deve quindi cercare di sfuggire al suo impero: fuggire, secondo l'invito di Platone nel Teeteto. E questo volo deve consistere in una somiglianza con Dio (homotòsis to theó).

Il suo vivere racchiusa nel corpo significa per l'anima vivere in questo mondo qui, "come, nelle scene del teatro, dobbiamo contemplare disgrazie, morti, conquiste di città, rapine" (III, 2, 55). Ma anche se le anime sono esposte a dolori e sofferenze, dal momento che sono immortali, quale danno può attingerle, se possono elevarsi al mondo superiore? "La povertà e la malattia non sono nulla per i buoni [...] È solo una disgrazia per i malvagi" (III, 2, 5). E ciò che ci sembra un male non è altro che il risultato della processione, cioè della divisione degli esseri nello spazio e nel tempo. L'armonia qui sotto è l'unico tipo di perfezione possibile. In breve, "questo universo è bello perché ogni essere contribuisce con la sua voce a diventare parte della sua unità armoniosa" (III, 2, 17).

Plotino è, in fin dei conti, un ottimista, anche se le cose cambieranno con i suoi discepoli e seguaci.

Conversione all'Uno.

La processione esprime, nel pensiero neoplatonico, solo una fase di quello che possiamo chiamare il dispiegarsi dell'essere. A ogni livello, e attraverso una conversione del termine generato, esso tende verso quello che ha generato. In virtù di questo movimento la vita, che emanava dall’Uno, ritorna a Lui. Così l'Anima diventa Intelletto, che tende verso di essa, così come l'Intelletto tende verso l'Uno.

In contrasto con gli gnostici, Plotino sostiene che ciò che è male per il tutto non è necessariamente male per le parti (II, 9, 7). E sebbene questo mondo sia, per Plotino, il migliore possibile, è indubbiamente inferiore al suo archetipo intelligibile, il Noùs, e quindi l'uomo deve rivolgersi alla bellezza, poiché nessuno può amare la Bellezza assoluta se non ama anche la creazione o l'emanazione di quella Bellezza.

Ci sono tre vie per questa elevazione spirituale: quella della musica, quella dell'amore, quella della filosofia. Il primo mezzo per liberarsi dal destino consiste nella pratica della virtù, nell'etica. Questo era già stato affermato dagli Stoici e prima ancora da Platone, quando nel Teeteto affermava che "i mali circolano necessariamente in questa regione del mondo, e per questo bisogna fuggire da qui sotto più rapidamente possibile, verso l'alto". E questo volo consiste in “una somiglianza con Dio". Di fronte a questa affermazione di Platone, Plotino si chiede: "Quale arte, o studio ci porta là dove dobbiamo andare?" (I, 3, 1). Prima di tutto, è necessario raggiungere la purificazione (katharsis). Le virtù civili e le virtù superiori, <sono possedute da Dio>. Infatti, se si vuole imitare Dio, bisogna possedere naturalmente le virtù divine. Qui Plotino afferma che Dio non possiede le virtù civili (coraggio, intrepidezza, giustizia, prudenza). Queste virtù, secondo Plotino (I, 2, 1), introducono l'ordine nelle varie parti di un composto come l'uomo. Ma Dio non lo è. L'uomo deve praticarle. Dobbiamo invece praticare quelle virtù che realizzano la più perfetta separazione possibile dell'anima dal corpo. Vale a dire, quelle virtù che producono una purificazione. Queste virtù spezzano i vincoli che legano l'anima al corpo e al male: "L'anima così disposta pensa l'intelligibile e non ha passioni. E questa disposizione può essere giustamente chiamata somiglianza con Dio" (I, 2, 3).

Ma questa liberazione attraverso l'etica è una liberazione parziale. Un altro modo è la dialettica. La dialettica è una scienza divina e Plotino le ha dedicato un intero trattato (I, 3). Comprende due livelli: "Ci sono due vie per coloro che si elevano: la prima parte da quaggiù; la seconda è la via di coloro che hanno già raggiunto il mondo intelligibile" (I, 3, 1). Lo stadio precedente è la scienza che, come per Platone, per Plotino è essenzialmente matematica. Il filosofo deve essere già impregnato di scienza, conoscere i principi che gli permettono di "muoversi sulle alture" (I, 3, 3), anche se "la sua marcia è incerta e ha bisogno di una guida": "Il filosofo per natura è rapido e quasi alato, e non ha bisogno, come gli altri, di separarsi dal sensibile per muoversi verso le alture" (I, 3, 3). Ora, la scienza è ragione discorsiva e questo significa molteplicità:

 

“Ora, chi vuole filosofare sull'Uno deve elevarsi ai principi primi, allontanarsi dal sensibile [...] e diventare, da molteplice, uno, per convertirsi in principio per la contemplazione dell'Uno [VI, 9, 3]!

Ma il viaggio mistico comprende due fasi. La prima conduce ai limiti del mondo sensibile; la seconda al mondo intelligibile. La musica, l'amore e la filosofia (dialettica) portano al primo stadio. La seconda si realizza nell'istante dell'estasi, ma questa, l'estati, non può essere prodotta semplicemente dalla dialettica. È necessario un altro metodo: l'interiorizzazione dell'anima fino a renderla del tutto simile all'Uno, perché solo l'uguale può essere conosciuto dall'uguale.

La dialettica dell'amore (eros) si trova già nel Fedro platonico. Quando Plotino parla dell'amore come via verso l'Uno, segue da vicino anche il passo corrispondente del Convivio platonico:

L'amante, toccato dalle bellezze sensibili, si sente preso da esse. Bisogna quindi insegnargli a non lasciarsi attrarre [...] da un solo corpo, ma mostrandogli con la ragione che è simile a tutti i corpi, e insegnandogli che questo è distinto dai corpi e viene dall'aldilà, e che si trova soprattutto in altre cose, come i bei studi e le belle leggi. Allora l'amore dell'amante è nel dominio dell'incorporeo, cioè nelle arti, nelle scienze e nelle virtù [...] Ma deve diventare Uno: dalle virtù deve risalire all'Intelletto, all'Essere, e lì volgere il suo cammino verso l'alto [I, 3, 2].

Ne consegue che l'atto dell'anima è l'amore, che non è altro che la ricerca del Bello in sé. I termini utilizzati da Plotino per esprimere questa ricerca differiscono solo per aspetti accidentali. È stato quindi affermato che l'estetica costituisce l'essenza della dottrina plotiniana, a condizione che l'estetica sia intesa come una teoria della contemplazione artistica, una teoria della bellezza.

Ma con la bellezza il grado supremo di iniziazione non è ancora raggiunto. Il pensiero plotiniano culmina nel misticismo, in una visione estatica. "Se l'amore per il Bello introduce la dialettica, l'amore per il Bene introduce la mistica, la partecipazione all'Uno che è al di là dell'Intelletto", ha scritto un critico. Tutta la filosofia di Plotino conduce a questo atto mistico, che è la sua ragion d'essere. Questa esperienza mistica, che Plotino ha avuto, rende le Enneadi un libro unico, perché il filosofo è convinto della realtà della propria esperienza (cfr. Porfirio, Vita di Plotino, 23, 12). La mistica di Plotino è caratterizzata da una serie di caratteristiche specifiche. È vero che condivide con altre mistiche alcuni aspetti specifici (il raccoglimento, lo svuotamento di sé, il riempirsi di Dio, la necessità del silenzio, la contemplzione ecc.) Ma ciò che è tipicamente plotiniano - e che rende il misticismo di Plotino tipicamente ellenico piuttosto che orientale - è il modo in cui il filosofo interpreta le sue esperienze. Si tratta di una questione fortemente interiore. Non prescrive esercizi speciali di respirazione, né la ripetizione di sillabe magiche o sacre. Non c'è un rituale per provocare l'esperienza. In ogni caso, si basa su principi già in parte evidenziati dal platonismo medio (Albino, ad esempio): la via della negazione, la via dell'analogia, la via dell'eminenza.

La visione di Dio appare come una luce interiore, come un "volo del solo spirito verso il solo Dio"):

Ritirandosi in se stesso, senza vedere nulla, vedrà la luce, non come un altro in qualcos'altro, ma come se stesso da sé, puro, brillante, istantaneamente da sé [V, 5, 7].

Ma per avere accesso all'Uno nella sua totalità, l'anima deve, come abbiamo detto, staccarsi da tutto ciò che è esterno e ritirarsi in se stessa. È qui che Plotino si differenzia da Filone, che chiede all'anima di uscire da se stessa. L'atto supremo dell'unione è un'attesa, o meglio, è preceduto da un'attesa.

Per questo motivo non bisogna cercarlo, ma aspettare che appaia tranquillamente, preparandosi alla contemplazione come l'occhio aspetta l'apparizione del sole. Appare quasi come se non fosse arrivato, presente prima di ogni altra cosa, anche prima che arrivi l'intelletto. Ed è meraviglioso come, senza essere arrivato, diventi presente [V, 5, 8].

Alcuni critici hanno sottolineato la scarsa importanza che Plotino attribuisce alla religione del suo tempo nella sua concezione dell'estasi e del misticismo. Non chiede sacrifici di animali, né apprezza gli incantesimi magici. D'altra parte, egli valorizza i culti mistici, al punto che alcuni si sono chiesti se non siamo in presenza di una trasposizione del culto dei misteri nel campo della filosofia. Ciò che accade, tuttavia, è che Plotino fa uso di un linguaggio mistico per rendere accessibili al suo pubblico le sue esperienze ineffabili.

Il grado supremo di misticismo in Plotino non rappresenta l'annientamento e la divinizzazione dell'anima. È vero che il linguaggio usato da Plotino può talvolta essere fuorviante. Ma si può affermare che nel momento dell'estasi l'io plotiniano non è né annichilito né inconscio, poiché è visto. Se è vero che l'anima non ha più coscienza di sé, gode almeno di una sorta di super-coscienza. "L'anima sale verso l'alto e vi rimane, contenta di essere con Lui" (VI, 7, 13).

Neppure in Plotino l’estasi consiste in un incontro del divino con l'umano, sebbene anche in questo caso si possano citare alcuni testi che sembrano indicare una parousia divina, la presenza dell'Uno nell'anima umana (ad esempio, cfr. V, 3, 14; VI, 9, 7). Ma la verità è che nella maggior parte dei testi l'estasi è presentata come un'unione, una synousia in cui la distinzione soggetto-oggetto è scomparsa (VI, 9, 10; VI, 9, 7). L'estasi plotiniana, insomma, è una visione straordinaria e diretta del Principio da parte del Principio. Non è più una semplice contemplazione, ma un modo diverso di vedere [VI, 9, 11]). È quindi l'estasi, il recupero da parte dell'anima del suo più alto grado di libertà. Ed è questo carattere positivo della mistica plotiniana che la distingue dalla mistica orientale.

Originalità di Plotino

Sebbene Plotino non pretendesse di essere originale, il suo pensiero comporta importanti innovazioni rispetto alla filosofia greca tradizionale. Nelle Enneadi convergono quasi tutte le correnti più importanti della tradizione greca e nasce un nuovo orientamento destinato a portare a compimento spiriti tanto diversi tra loro.

Iniziamo parlando del suo grande maestro: cosa deve Plotino a Platone? Senza dubbio, molto. La spinta religiosa e metafisica che pulsa nel pensiero di Platone riappare, rafforzata, nell'opera di Plotino. Ma è un Platone incompleto. Plotino non si rivolge all'intera opera di Platone, ma elabora una vera e propria selezione del materiale, selezione che continuerà con i suoi continuatori. È sintomatico che i dialoghi più citati nelle Enneadi (Simposio, Repubblica, Fedro, Timeo, Parmenide, Filebo e Sofista) costituiscono il nucleo centrale su cui i neoplatonici successivi lavoreranno nei loro commenti.

Nelle Enneadi c'è anche un importante elemento aristotelico, sebbene sia molto selettivo e utilizzato con grande flessibilità. Plotino riprende da Aristotele le nozioni di potenza e di atto, ma rompe con la concezione aristotelica di Dio, per cui Plotino agisce dentro le correnti del platonismo medio. Plotino non può accettare che Dio sia concepito come una noesis noetica, come il pensiero di un pensiero. Il dio aristotelico, se coincide con qualcosa di plotiniano, sarà con il Noùs. Plotino rifiuta anche la dottrina delle categorie (VI, 1, 1, 1-24), la dottrina dell'anima come forma del corpo (IV, 7, 8) e quella del quinto elemento (II, 1, 2).

Plotino non accetta neppure alcune dottrine stoiche. Innanzitutto, il materialismo tipico di questa scuola (IV, 7, 2; II, 4, 1): la sua concezione del tempo (III, 7, 7); la dottrina della compenetrazione dei corpi. In linea di principio, si può dire che ciò che Plotino rifiuta dello Stoicismo è soprattutto uno stato d'animo, piuttosto che le teorie concrete di una scuola particolare. Henry ha sottolineato che quando Plotino attacca lo stoicismo, di solito utilizza argomenti aristotelici. Nelle Enneadi, invece, nessuno stoico specifico è menzionato per nome.

Eppure accetta alcune tesi tipicamente stoiche, e in modo particolare la dottrina della sympàtheia (simpatia universale), quella del logos, quella delle ragioni seminali o lógoi spermatikoi. Accetta anche parte della teodicea stoica. Tuttavia, tutto questo bagaglio è trattato in modo originale e personale: il logos di Plotino non è panteista, e le ragioni seminali dipendono dalle Idee. Anche la teoria della Provvidenza difesa da Plotino di fronte allo stoicismo è molto diversa. Il filosofo ha indubbiamente trasformato profondamente ciò che accetta di questa scuola.

Per quanto riguarda le tesi del platonismo medio e del neopitagorismo, va detto che, naturalmente, esse vengono discusse e commentate nella sua opera, ma mai sotto il nome specifico di un pensatore particolare. Questo metodo, tuttavia, è abituale per il nostro filosofo.

La somiglianza di alcune sue dottrine con quelle di Numenio ha portato alcuni, come è noto, a parlare di plagio da parte di Plotino. Che le accuse fossero importanti è dimostrato dal fatto che il suo discepolo e comprimario Amelio trovò necessario scrivere un libro sulle differenze tra i due pensatori. È vero che Piotino ha preso da Numenio alcune idee ed espressioni: il Bene che è contenuto nel Noùs, l'espressione mónos pròs mónon che si riferisce alla relazione tra l'anima e Dio, e vari termini poetici sparsi nella sua opera. Alcune dottrine di Numenio ricompaiono in Plotino, come quella dei tre dei o principi; la tesi, comune a entrambi, che il Primo Principio è il Bene, pura unità trascendente. In entrambi i pensatori, il secondo principio è caratterizzato dalla noesis (pensiero) e il terzo dalla dianoia (riflessione). Inoltre, due dei principi fondamentali del neoplatonismo erano già stati formulati da Numenio: quello della partecipazione (nel mondo intelligibile ogni cosa è in ogni cosa, ma modificata in ognuna di esse dal proprio carattere) e quello della donazione immutabile (che indica relazioni causali non reciproche, ad esempio l'Uno dà, ma non diminuisce di per sé).

Sappiamo, inoltre, il forte impatto che la figura di Ammonio Sakkas ebbe sulla mente di Plotino. Questa figura ha meritato, d'altra parte, come abbiamo visto prima, giudizi diversi sulla sua posizione intellettuale. In ogni caso, la sua dottrina fu decisiva per Plotino.

 

Traduzione e revisione testo di Mystes


[1] Arturo Reghini: Dizionario Filologico, Ignis (v. le voci corrispondenti)


 


 

 

Thomas Taylor

 

 

 

SCRITTI SU PLATONE E SUL PLATONISMO

 

Traduzione dall’inglese e revisione dei testi a cura di Mystes

 

Introduzione

Piero Fenili

 

Indice

 

Piero Fenili, Introduzione, pag. 5

 

Cap. 1- Introduzione alla filosofia e agli scritti di Platone, pag. 11

Cap. 2 - Spiegazione di alcuni termini platonici, pag. 93

Cap. 3 - Il credo del filosofo neoplatonico, pag. 103

Cap. 4 - Introduzione ai misteri degli egizi dei caldei degli assiri, pag.111

Cap. 5 - Introduzione a Plotino, pag.121 

Cap. 6 - Dissertazione sulla vita e la teologia di Orfeo, pag. 143 

 

Cap. 7 - Giamblico: Introduzione alla vita di Pitagora, pag. 159

 

Cap. 8- Thomas Taylor: The Platonist, pag.167

 

Cap. 9 - Apparato iconografico, pag. 217

 

Dall’Introduzione di Piero Fenili;

Introduzione

 

Thomas Taylor, detto “il Platonico” (the Platonist) nacque a Londra nel 1758 da genitori modesti ma rispettati. All’età di dieci anni venne ammesso alla St. Paul School, dimostrando un precoce interesse per la filosofia. Precoce fu anche il suo innamoramento, all’età di dodici anni, nei confronti della fanciulla che sarebbe diventata sua moglie.

Un libro di avviamento alla matematica, trovato in casa, suscitò in lui, da vero Pitagorico, un vivo interessamento anche verso tale disciplina.

Proseguendo negli studi, egli era solito dedicare il giorno al greco ed al latino e le ore notturne alla matematica, mentre la sera la riservava a corteggiare Miss Morton, che avrebbe poi sposato contro l’intenzione del padre di lei, che avrebbe preferito destinarla ad un uomo più ricco.

Per sopperire alle necessità di vita della coppia, Taylor lavorò dapprima come usciere e quindi presso la Lubbock’s Bank, soffrendo sempre di una cronica mancanza di denaro e, non di rado, per la penuria di cibo. (continua)

 

 


 

 

 

Dall’ INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA E AGLI SCRITTI DI PLATONE:

 

"La filosofia", dice Ierocle, "è la purificazione e la perfezione della vita umana. È la purificazione, in effetti, dell'irrazionalità materiale e del corpo mortale; è la perfezione, in quanto è la conquista della nostra felicità e il ritorno alla somiglianza divina. La Virtù e la Verità si occupano di questi due aspetti: la prima elimina la smodatezza delle passioni, la seconda introduce la forma divina in coloro che sono naturalmente adatti a riceverla".

Di questa filosofia, così definita, che può essere paragonata a una piramide luminosa che termina nella Divinità e che ha come base l'anima razionale dell'uomo e le sue concezioni spontanee e non deviate, Platone può essere giustamente chiamato il capo principale e lo ierofante, attraverso il quale, come la luce mistica nei recessi più profondi di qualche tempio sacro, essa ha brillato per la prima volta con occulto e venerabile splendore. Di tutta questa filosofia si può davvero dire che è il bene più grande di cui l'uomo possa essere partecipe: infatti, se ci purifica dalle contaminazioni delle passioni e ci assimila alla Divinità, ci conferisce la felicità propria della nostra natura. Perciò è facile osservare la sua preminenza su tutte le altre filosofie; dimostrare che le altre filosofie, laddove si oppongono ad essa, sono in errore; che, nella misura in cui contengono qualcosa di scientifico, sono alleate ad essa; e che, nel migliore dei casi, non sono che rivoli derivati da questo vasto oceano di verità. (continua)

 

 

 

Da “IL CREDO DEL FILOSOFO NEOPLATONICO”

 

Pubblichiamo il “Credo del filosofo neoplatonico” di Thomas Taylor, colui che è stato definito, non senza enfasi, “Il moderno Platone”, “L’apostolo del Paganesimo” e “Il sacerdote pagano dell’Inghilterra” (cfr. Manly P. HALL. Introductory essay a: THOMAS TAYLOR, The theoretic arithmetic ofthe Pythagoreans, Samuel Weiser, New York, 1972, p.VI). (Il “Credo” è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista IGNIS n. 2 1991) (continua)

 

 

 

 

Dall’ INTRODUZIONE AI MISTERI DEGLI EGIZI DEI CALDEI DEGLI ASSIRI:

 

 

Mi sembra che ci siano due categorie di persone per le quali la presente opera deve essere considerata di valore inestimabile: gli amanti dell'antichità e gli appassionati di filosofia e religione antiche. Per i primi deve essere inestimabile, perché è ricca di informazioni derivate dai saggi dei Caldei, dai profeti Egizi, dai dogmi Assiri e dalle antiche conoscenze di Hermes; e a questi ultimi per le dottrine in esso contenute, alcune delle quali, originate da Hermes Trismegisto, furono conosciute da Pitagora e Platone e furono le fonti della loro filosofia; altre sono profondamente teologiche e svelano i misteri dell'antica religione con un'ammirevole concisione di dizione e un inimitabile vigore ed eleganza di concezione. A ciò si può aggiungere, come motivo di eccellenza, che è la più copiosa, la più chiara e la più soddisfacente difesa esistente della genuina teologia antica. (continua)


 

Da PLOTINO Introduzione:

 

Può sembrare meraviglioso che la lingua, che è l'unico metodo per trasmettere le nostre concezioni, sia allo stesso tempo un ostacolo al nostro progresso in filosofia; ma la meraviglia cessa quando consideriamo che essa è raramente studiata come veicolo di verità, ma è troppo spesso stimata per se stessa, indipendentemente dalla sua connessione con le cose. Questa osservazione è notevolmente verificata nella lingua greca che, essendo l'unica depositaria dell'antica saggezza, è stata, purtroppo per noi, il mezzo per nascondere, in una vergognosa oscurità, le ricerche più profonde e le verità più sublimi. Che le parole non abbiano altro valore se non quello di essere asservite alle cose, deve essere sicuramente riconosciuto da ogni mente liberale, e sarà contestato solo da chi ha trascorso il fiore della sua vita, e consumato il vigore della sua comprensione, in critiche verbali e sciocchezze grammaticali. E, se così fosse, ogni amante della verità studierebbe una lingua solo per procurarsi la saggezza che essa contiene, e senza dubbio desidererebbe che la sua lingua nativa la trasmettesse agli altri. (continua)

 

 

 

 

Dalla DISSERTAZIONE SULLA VITA E LA TEOLOGIA DI ORFEO:

 

Prefazione.

C'è senza dubbio una rivoluzione nel mondo letterario, corrispondente a quella del mondo naturale. Il volto delle cose cambia continuamente, e la perfetta e perpetua armonia dell'universo sussiste grazie alla mutevolezza delle sue parti. In conseguenza di questa fluttuazione, le arti e le scienze sono fiorite in epoche diverse del mondo: ma il cerchio completo della conoscenza umana non è mai esistito, credo, in una sola nazione o in una sola epoca. Dove le ricerche accurate e profonde sui principi delle cose hanno raggiunto la perfezione, gli uomini hanno trascurato, per naturale conseguenza, le disquisizioni sui dettagli; e dove i particolari sensibili sono stati l'oggetto generale della ricerca, la scienza degli universali ha languito, o è affondata nell'oblio e nel disprezzo. (continua)

 

 

 Dagli scritti selezionati di Thomas Taylor The Platonist:


  Ildesiderio di vedere ristampati alcuni degli scritti e delle traduzioni di Thomas Taylor mi è venuto mentre leggevo le fonti da cui William Blake ha appreso la saggezza tradizionale. Foster Damon nel 1924 ipotizzò per primo il debito di Blake nei confronti di Taylor, e da allora nessuno studioso serio di Blake lo ha più negato. Ma con poche eccezioni l'importanza di questo debito è stata minimizzata; e come per Blake, così per gli altri poeti romantici.

 

 

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Thomas Taylor SCRITTI SU PLATONE E SUL PLATONISMO


 

 

PAGINE EMBLEMATICHE DI PLATONE

 

Platone ha scritto nell’ottavo libro della Repubblica pagine che negli anni passati sono ridiventate famose, in quanto descrivono una forma di patologia della psyche che si rispecchia in modo sorprendente in molti dei mali degli uomini, specie dei giovani, di oggi.

Leggiamo un passo chiave, davvero magistrale, contenente concetti espressi con grande acume psicologico, che presenta anche, in contrappunto, sferzate ironiche provocatorie (si tenga presente che la “democrazia” di cui qui Platone parla coincide, in realtà, con la “demagogia”).

Giovanni Reale

°°°

-           Allora, caro amico, come nasce la tirannide? Direi che è ovvio che essa tragga origine dalla democrazia.

-           Non c’è dubbio.

-           Non sarà per caso che il modo in cui si sviluppa la democrazia dalla oligarchia sia identico a quello in cui si genera la tirannia dalla democrazia?

-           E quale sarebbe questo modo?

-           Il bene, precisai, che ci si poneva come ideale, e sul quale si fondava l’oligarchia, era la ricchezza. Non è vero?

-           Sì.

-           E il desiderio insaziabile di ricchezza e di sacrificare ogni altro interesse a quello per il denaro fu appunto la causa della decadenza di un tale regime.

-           È così, disse.

-           E non è forse vero che la democrazia si prefigge un certo bene, e che è proprio il desiderio smodato di questo bene a portarla alla perdizione?

-           E quale è, secondo te, il bene che essa si prefigge?

-           La libertà, risposi. Perché in un regime democratico tu sentirai ripetere che proprio la libertà è ritenuta come la cosa più preziosa, e che pertanto l’uomo libero per natura non potrebbe che scegliere questo Stato come sua residenza.

-           In effetti, ammise, questo argomento è ripetuto più e più volte.

-           E allora, seguitai, per tornare a quello che si diceva, non dobbiamo pensare che sia l’insaziabile ricerca di questo bene, e l’abbandono in cui sono lasciati gli altri beni, a determinare la decadenza di una tale forma politica e il sorgere dell’esigenza della tirannide?

-           In quale maniera, chiese?

-           A mio giudizio, quando uno Stato democratico, nella sua sete di libertà, si trova ad essere accudito da cattivi cop-pieri, bevendo di questa libertà allo stato puro e più del leci¬to, se ne ubriaca, e allora quei governanti che non siano più che disponibili e propensi a concedere la massima libertà, li perseguita, incolpandoli di intolleranza e di atteggiamento autoritario.

-           Fanno proprio così, riconobbe.

-           E poi, aggiunsi, quelli che si dimostrano obbedienti all’autorità, li screditano chiamandoli uomini servili, gente da nulla; al contrario stimano ed esaltano i comandanti che si atteggiano a subalterni, e i subalterni che si atteggiano a comandanti, sia in privato che in pubblico. Del resto, non è facile che in uno Stato di tal genere l’amore per la libertà sovrasti ogni altro?

-           E come no?

-           E inoltre, aggiunsi, esso si introduce nelle case dei privati, e l’anarchia finisce col mettere le radici perfino negli animali.

-           Ma, obiettò, come possiamo dire una cosa simile?

-           Ad esempio, dissi, il padre impara a mettersi sullo stesso piano di un giovane e a temere i figli, e parimenti il figlio si sente sullo stesso piano del padre, non avendo nei riguardi dei suoi genitori nessun rispetto né timore; e tutto ciò in quanto vuole essere un uomo libero. E pure un meteco vorrà avere gli stessi diritti di un cittadino, e un cittadino di un meteco, e lo stesso vale per lo straniero.

-           Le cose vanno proprio così, rispose.

-           Caro, seguitai, avviene questo e altre cose più banali. In un tale ambiente il maestro ha paura degli studenti e se li tiene buoni. Dal canto loro gli scolari non tengono in nessun conto i maestri, e così pure i pedagoghi. Insomma, i giovani si danno le arie da uomini maturi e hanno sempre da ridire a parole e a fatti. Gli uomini maturi, invece, vogliono portarsi al livello dei giovani e così fanno sfoggio di atteggiamenti spigliati e scherzosi, per imitarli e per non passare per scorbutici e autoritari.

-           Esattamente, disse.

-           Ma, continuai, in questa forma di governo, il colmo a cui giunge la libertà della massa, caro amico, si ha quando gli schiavi e le schiave acquistati al mercato non sono meno liberi di chi li ha comperati. E per poco ci dimenticavamo di citare quale parità di diritti e qual grado di libertà ci siano ormai fra uomini e donne, e donne e uomini.

-           E perché, domandò con Eschilo, non dovremmo dire quella certa espressione che ci viene alle labbra?

-           Se è per questo, intervenni, la dico io. Nessuno, se non lo constatasse di persona, potrebbe convincersi di quanto gli animali domestici siano più liberi qui che non altrove. Davvero, come dice il proverbio, le cagne sono identiche alle loro padrone, e lo stesso vale per i cavalli e per gli asini. Questi con passi solenni sono soliti muoversi in tutta libertà, e anzi, per la strada travolgono chi di volta in volta incontrano, se non riesce a scansarli. E allo stesso modo tutto il resto avviene all’insegna della più totale libertà.

-           Tu traduci in parole il mio sogno, disse. Anch’io di frequente sono vittima di queste circostanze, quando mi reco in campagna.

-           Ora, seguitai, se si sommano tutti questi elementi, non vedi come il risultato renda labile l’anima dei cittadini, cosicché basta che uno osi solo proporre una qualche forma di sudditanza, perché essi si inalberino e non ne vogliano sapere? In questo modo, tu lo sai bene, essi finiscono col non tenere in conto neppure le leggi scritte o non scritte, pur di non avere sopra di sé nessuno che in alcun modo la faccia da padrone.

-           Lo so fin troppo bene, disse lui.

-           E io: eccoti, amico mio, in tutta la sua bellezza ed esuberanza il principio da cui germina la tirannide, almeno per quanto mi risulta.

-           Esuberante, non c’è che dire! Ma poi, disse, come si va avanti?

-           Quella stessa infezione, risposi, che aveva colpito l’oligarchia e l’aveva portata alla morte, ora si diffonde anche in questo tipo di governo, ma in una forma resa più acuta e virulenta dalla sproporzionata libertà, in modo tale che la democrazia ne risulta soggiogata. Certo che ogni azione esagerata di solito produce una reazione altrettanto grande e contraria, così nel clima, come anche nelle piante, nei corpi e non meno nei regimi politici.

-           E logico, disse.

-           D’altra arte, è evidente che una libertà spinta all’eccesso si rivolti in una schiavitù spinta all’eccesso, così nella sfera privata come in quella pubblica.

-           Senz’altro.

-           Di conseguenza, aggiunsi, è altrettanto logico che la tirannia non possa sorgere da nessun’altra forma di governo che dalla democrazia, se, come credo, la più assoluta e la più dura schiavitù deve venire da un’estrema libertà.


La patologia dell’anima

(La fine della democrazia)

Pagine emblematiche di Platone contenenti un messaggio valido per sempre

Potrebbe essere molto interessante un esame analitico dei libri ottavo e nono della Repubblica, dove Platone presenta le varie forme di Costituzioni che si allontanano vieppiù da quella ideale, considerandole come ingrandimenti dell’anima che dallo stato di “salute” della giustizia si allontana via via corrompendosi, e quindi via via raggiungendo vari stadi di malattia, sempre più grave. Da tempo, i più attenti studiosi hanno riconosciuto nelle analisi della psiche contenuta in questi libri un capolavoro di psicologia. Ma qui, per non appesantire il nostro discorso, riteniamo opportuno, concentrarci sull’esame di quella patologia della psiche che si crea nel momento in cui la democrazia si corrompe e cade in eccessi demagogici e anarchici, preparando la strada alla catastrofe della tirannide.

L’insaziabilità di denaro induce a poco a poco i giovani a curarsi solo della ricchezza. Di conseguenza, cresciuti in questo ambiente in cui i valori morali sono offuscati, si abbandonano a ogni forma di piaceri senza misura. La loro anima si riempie di indiscriminata voglia di libertà, che, perduto il senso dei valori, degenera in licenza. I desideri e i piaceri finiscono col diventare sovrani; occupano - dice Platone - la rocca dell’anima, trovandola vuota di giusti pensieri e di ragionamenti veri, che sono le autentiche guardie e sentinelle.

I falsi ragionamenti sbarrano la strada ai giusti ragionamenti che potrebbero portare soccorso, e bandiscono il rispetto, considerato ormai scempiaggine; viene cacciata la temperanza trattata come mancanza di virilità, e la moderazione nello spendere vista come spilorceria. E, naturalmente, vengono esaltate le opposte qualità negative: la tracotanza viene considerata il corretto modo di comportarsi, la licenza viene scambiata con la libertà, l’impudenza con il coraggio.

Platone ha scritto nell’ottavo libro della Repubblica pagine che negli anni passati sono ridiventate famose (sono state riprese persino da quotidiani e da rotocalchi), in quanto descrivono una forma di patologia della psiche che si rispecchia in modo sorprendente in molti dei mali degli uomini, specie dei giovani, di oggi.

Leggiamo un passo chiave, davvero magistrale, contenente concetti espressi con grande acume psicologico, che presenta anche, in contrappunto, sferzate ironiche provocatorie (si tenga presente che la “democrazia” di cui qui Platone parla coincide, in realtà, con la “demagogia”):

-           Allora, caro amico, come nasce la tirannide? Direi che è ovvio che essa tragga origine dalla democrazia.

-           Non c’è dubbio.

-           Non sarà per caso che il modo in cui si sviluppa la democrazia dalla oligarchia sia identico a quello in cui si genera la tirannia dalla democrazia?

-           E quale sarebbe questo modo?

-           Il bene, precisai, che ci si poneva come ideale, e sul quale si fondava l’oligarchia, era la ricchezza. Non è vero?

-           Sì.

-           E il desiderio insaziabile di ricchezza e di sacrificare ogni altro interesse a quello per il denaro fu appunto la causa della decadenza di un tale regime.

-           È così, disse.

-           E non è forse vero che la democrazia si prefigge un certo bene, e che è proprio il desiderio smodato di questo bene a portarla alla perdizione?

-           E quale è, secondo te, il bene che essa si prefigge?

-           La libertà, risposi. Perché in un regime democratico tu sentirai ripetere che proprio la libertà è ritenuta come la cosa più preziosa, e che pertanto l’uomo libero per natura non potrebbe che scegliere questo Stato come sua residenza.

-           In effetti, ammise, questo argomento è ripetuto più e più volte.

-           E allora, seguitai, per tornare a quello che si diceva, non dobbiamo pensare che sia l’insaziabile ricerca di questo bene, e l’abbandono in cui sono lasciati gli altri beni, a determinare la decadenza di una tale forma politica e il sorgere dell’esigenza della tirannide?

-           In quale maniera, chiese?

-           A mio giudizio, quando uno Stato democratico, nella sua sete di libertà, si trova ad essere accudito da cattivi coppieri, bevendo di questa libertà allo stato puro e più del lecito, se ne ubriaca, e allora quei governanti che non siano più che disponibili e propensi a concedere la massima libertà, li perseguita, incolpandoli di intolleranza e di atteggiamento autoritario.

-           Fanno proprio così, riconobbe.

-           E poi, aggiunsi, quelli che si dimostrano obbedienti all’autorità, li screditano chiamandoli uomini servili, gente da nulla; al contrario stimano ed esaltano i comandanti che si atteggiano a subalterni, e i subalterni che si atteggiano a comandanti, sia in privato che in pubblico. Del resto, non è facile che in uno Stato di tal genere l’amore per la libertà sovrasti ogni altro?

-           E come no?

-           E inoltre, aggiunsi, esso si introduce nelle case dei privati, e l’anarchia finisce col mettere le radici perfino negli animali.

-           Ma, obiettò, come possiamo dire una cosa simile?

-           Ad esempio, dissi, il padre impara a mettersi sullo stesso piano di un giovane e a temere i figli, e parimenti il figlio si sente sullo stesso piano del padre, non avendo nei riguardi dei suoi genitori nessun rispetto né timore; e tutto ciò in quanto vuole essere un uomo libero. E pure un meteco vorrà avere gli stessi diritti di un cittadino, e un cittadino di un meteco, e lo stesso vale per lo straniero.

-           Le cose vanno proprio così, rispose.

-           Caro, seguitai, avviene questo e altre cose più banali. In un tale ambiente il maestro ha paura degli studenti e se li tiene buoni. Dal canto loro gli scolari non tengono in nessun conto i maestri, e così pure i pedagoghi. Insomma, i giovani si danno le arie da uomini maturi e hanno sempre da ridire a parole e a fatti. Gli uomini maturi, invece, vogliono portarsi al livello dei giovani e così fanno sfoggio di atteggiamenti spigliati e scherzosi, per imitarli e per non passare per scorbutici e autoritari.

-           Esattamente, disse.

-           Ma, continuai, in questa forma di governo, il colmo a cui giunge la libertà della massa, caro amico, si ha quando gli schiavi e le schiave acquistati al mercato non sono meno liberi di chi li ha comperati. E per poco ci dimenticavamo di citare quale parità di diritti e qual grado di libertà ci siano ormai fra uomini e donne, e donne e uomini.

-           E perché, domandò con Eschilo, non dovremmo dire quella certa espressione che ci viene alle labbra?

-           Se è per questo, intervenni, la dico io. Nessuno, se non lo constatasse di persona, potrebbe convincersi di quanto gli animali domestici siano più liberi qui che non altrove. Davvero, come dice il proverbio, le cagne sono identiche alle loro padrone, e lo stesso vale per i cavalli e per gli asini. Questi con passi solenni sono soliti muoversi in tutta libertà, e anzi, per la strada travolgono chi di volta in volta incontrano, se non riesce a scansarli. E allo stesso modo tutto il resto avviene all’insegna della più totale libertà.

-           Tu traduci in parole il mio sogno, disse. Anch’io di frequente sono vittima di queste circostanze, quando mi reco in campagna.

-           Ora, seguitai, se si sommano tutti questi elementi, non vedi come il risultato renda labile l’anima dei cittadini, cosicché basta che uno osi solo proporre una qualche forma di sudditanza, perché essi si inalberino e non ne vogliano sapere? In questo modo, tu lo sai bene, essi finiscono col non tenere in conto neppure le leggi scritte o non scritte, pur di non avere sopra di sé nessuno che in alcun modo la faccia da padrone.

-           Lo so fin troppo bene, disse lui.

-           E io: eccoti, amico mio, in tutta la sua bellezza ed esuberanza il principio da cui germina la tirannide, almeno per quanto mi risulta.

-           Esuberante, non c’è che dire! Ma poi, disse, come si va avanti?

-           Quella stessa infezione, risposi, che aveva colpito l’oligarchia e l’aveva portata alla morte, ora si diffonde anche in questo tipo di governo, ma in una forma resa più acuta e virulenta dalla sproporzionata libertà, in modo tale che la democrazia ne risulta soggiogata. Certo che ogni azione esagerata di solito produce una reazione altrettanto grande e contraria, così nel clima, come anche nelle piante, nei corpi e non meno nei regimi politici.

-           E logico, disse.

-           D’altra arte, è evidente che una libertà spinta all’eccesso si rivolti in una schiavitù spinta all’eccesso, così nella sfera privata come in quella pubblica.

-           Senz’altro.

-           Di conseguenza, aggiunsi, è altrettanto logico che la tirannia non possa sorgere da nessun’altra forma di governo che dalla democrazia, se, come credo, la più assoluta e la più dura schiavitù deve venire da un’estrema libertà.

 

 

L'ESPERIENZA INIZIATICA

 

Quelli di noi che da tempo hanno intrapreso una via iniziatica di totale e completa realizzazione spirituale vanno incontro a una serie di problemi e di considerazioni che tenterò di descrivere e di commentare in questo breve scritto.

Superata la fase inziale sulla quale non è il caso di soffermarmi perché si ritiene che siano bastati i consigli, le istruzioni e soprattutto gli ammonimenti dei maestri che si sono avvicendati negli ultimi tempi e che, prodighi di parole e di scritti, hanno fatto di tutto per mostrarci la retta via della realizzazione spirituale, passo adesso a trattare dei problemi reali, da quelli di ordine pratico della vita di tutti i giorni a quelli che ognuno di noi ha dovuto affrontare quando è stato posto solo, con la propria coscienza e con le proprie forze, al cospetto del mistero filosofico.

Cominciando dal controllo del pensiero, pensiero abituato a scorrazzare liberamente nella mente nel tentativo di attingere la nostra profonda aspirazione a una Vita divina, per concludere poi con delle giustificazioni che il pensiero produce pur di demolire quella certezza assoluta che avevamo prodotto agli inizi del cammino intrapreso sull’onda dell’entusiasmo e della novità.

In questa fase noi dimentichiamo che l’uomo per vivere la sua esperienza iniziatica non ha bisogno di alcuna giustificazione razionale perché fin dall’inizio egli è in possesso di una certezza: quella che il pensiero gli ha trasmesso sulla base dell’intuizione.

Soltanto quando l’esperienza del sacro si è compiuta l’uomo avverte la necessità di rielaborarla in forma razionale: ed è a questo punto che egli va alla ricerca delle teorie ineffabili che giustifichino affettivamente l’esperienza interiore che sta vivendo. Nonostante tutto l’afflato verso la sacralità permane nel profondo della sua coscienza come atto unico che troverà in se stesso la legittimità razionale.

Chi desidera toccare il vertice dell’esperienza misterica non deve farsi prendere dai “casi della vita”, dalle “emozioni familiari” e dai tanti sentimenti che turbano o allietano i nostri rapporti umani e sociali, ma deve permanere vigile e attento agli impulsi del nostro proprio essere che, nel bene e nel male, normalmente non sbaglia le direttive soprattutto quando si trova al centro di un processo catartico che precede e accompagna l’esperienza in corso.

In questo “spazio di tempo” l’uomo rinuncia alla propria individualità corporea e si lascia trasportare dall’essere incognito verso il centro della sua esistenza, il centro dell’essere nei confronti del quale si è talvolta considerato inadeguato e impreparato quando è proprio da lì, da questo “stante” o da questo “essere che è” che si sprigiona l’energia necessaria alla sua vera iniziazione.

E’ infatti errato pensare che l’estasi “filosofica” avvenga per un favore divino, l’estasi è il punto finale di un processo che ha avuto inizio con l’aiuto delle nostre forze spirituali, attive e operative nel corso della nostra vita corporea la quale vita in congiunto con l’Anima, propizia e accompagna tutti i nostri sviluppi vitali, da quelli inferiori espressi dalla sfera terrestre a quelli inerenti al nostro superiore destino. E’ pertanto errato pensare che al compimento della nostra realizzazione spirituale si giunga soltanto dopo la morte. Quel che succede dopo la morte dobbiamo prepararlo e viverlo in vita, altrimenti nell’al di là ci tocca un destino di ombre cieche e sorde a qualsiasi richiamo.

Possiamo parlare di “immortalità dell’anima” solo se abbiamo la totale consapevolezza e l’assoluta certezza di quanto ci aspetta nel “qua” e nel “dopo”, pertanto dividere in due l’eternità che incombe su di noi è il più tragico errore che possiamo compiere, non solo dal punto di vista intellettuale, ma soprattutto da quello iniziatico, dimostrando così di non aver compreso nulla del vero fine dell’esperienza iniziatica della quale sto parlando.

L’esperienza umana è necessaria perché è con i piedi per terra che ci sarà possibile “conoscere”, in primo luogo il “demone” che ci è toccato in sorte e quindi l’Anima che sostiene la nostra vita e congiuntamente quella parte divina di noi che parteciperà all’ineffabile ascensione dopo la restituzione del nostro scafandro fisico alla madre terra.

Noi abbiamo a che fare con un ente mortale (il nostro corpo fisico) che aspira unicamente alle passioni (quando vive) e alla dissoluzione quando si avvicina la fine e che quando è in “vita” sarà possibile dominare e soprattutto “usare” con gli unici strumenti a nostra disposizione: quelli che la nostra “intelligenza” e soprattutto la nostra “anima” ci mettono a disposizione: sta a noi “vederli” con l’occhio di “jupiter” e usarli con le ali di “hermes”.

E’ bene a questo punto, prima di proseguire, chiarirci le idee sul significato della parola morte visto che non sempre è stata usata, come oggi, per designare la fine di una esistenza umana. Se non fossimo in grado di intendere e di approfondire il problema della morte sarebbe bene rinunciare ad andare avanti nell’esame della <esperienza iniziatica>: Come vedremo la morte umana è strettamente relazionata con la morte iniziatica visto che la “la morte iniziatica consiste – secondo Arturo Reghini - nel porre la propria coscienza, rimanendo vivi e presenti a se, nella condizione in cui deve trovarsi la coscienza del morto. Si tratta di sperimentare, vivendo in piena coscienza, la morte.”

Sappiamo che l'estasi, come pensava Giordano Bruno, non avviene per nessuno speciale intervento divino, ma per merito delle stesse forze spirituali, naturalmente immanenti all'anima; ne consegue ancora che all'Assoluto ineffabile si può giungere già in questa vita terrena e che l'unione estatica non è privilegio di un al di là. L’aspirante iniziato infatti non si preoccupa tanto di una vita spirituale perfetta che si compia dopo la morte, quanto invece della stessa vita terrena, poiché la corporeità che accompagna l'anima non menoma affatto la sua potenza spirituale né ritarda il compimento del suo destino superiore. Pertanto se all’estasi si giunge senza nessun miracolo divino, ma per merito delle sole forze spirituali dell’Anima, ne consegue che vi si potrà giungere già nel corso di questa vita terrena, nel corso cioè di quella speciale esperienza che chiamiamo “iniziazione” visto che nel mondo classico la stessa parola “iniziazione” era seguita da quella di “misteri”. Pertanto l’esperienza iniziatica non è altro che una esperienza misterica, che si svolge e si realizza in vita e non nell’attesa vana di un al di là oscuro e problematico.

Per concludere, Platone e i neo platonici insistono col dire che si raggiunge l’immortalità dell’anima attraverso una immateriale purezza, soprattutto perché l’immortalità è una conquista definitiva dell’anima, è la conferma che il processo palingenetico si è compiuto nel viaggio di solo ritorno e che la morte non è soltanto l’interruzione di UN destino ma è il segno dell’interruzione di più vite e di più morti che appunto si celebrano e si esaltano in quel crudele meccanismo della reincarnazione e che con l’esperienza iniziatica e la conquistata immortalità deve cessare di esistere.

Manlio Magnani concludeva il suo bellissimo scritto sulla “Morte” con queste parole che facciamo nostre: “Precisamente nel fine visibile delle forme e delle vite singole, degli aggregati, delle cose composte e delle cose semplici, in una parola in ciò che gli uomini chiamano morte è il segno visibile tangibile di un limite insorpassabile da parte del caos. La cosiddetta morte in quanto dissolve una esistenza, di qualunque ordine essa sia, ha valore e significato di negazione e di opposizione alla fissità o alla stabilità del divenire fenomenale, del processo della molteplicità, dell’impulso del caos: quindi è come espressione di un tendere verso il ritorno allo stato anteriore al caos e al verbo stesso, cioè a quell’unicità in molte tradizioni indicata con la parola padre. Ecco perché la morte fu detta "mistero cosmogonico del padre”.

Roberto Sestito

Giamblico – LA VITA PITAGORICA


PITAGORA INCONTRA I GIOVANI A CROTONE

Quando Pitagora giunse a Crotone per prima cosa volle visitare il Ginnasio e qui, preceduto dalla sua fama, fu accolto dai giovani ai quali si rivolse con le seguenti ammonizioni:

Li esortò per prima cosa al rispetto degli anziani, mostrando come nell’universo, nella vita, nelle città e nella natura, quel che precede è più apprezzato di quel che segue nel tempo, come, ad esempio, la levata del sole più del tramonto, l’aurora più della sera, il principio più della fine, la generazione più della dissoluzione, e similmente gli indigeni più degli stranieri, e i duci e i fondatori delle città più dei coloni; e, in generale, gli dei più dei demoni e questi più dei semidei, gli eroi più degli uomini e, tra questi, coloro che hanno generato più dei giovani. Diceva queste cose per indurli — con metodo induttivo — a onorare i genitori più di se stessi. Ai quali — diceva — essi dovevano la stessa gratitudine che un morto dovrebbe a chi fosse in grado di ricondurlo nuovamente in vita. E aggiungeva: è giusto amare al di sopra di tutti, e non mai affliggere, coloro che per primi ci hanno arrecato i più grandi benefici: solo i genitori precedono la generazione coi loro benefici, e di tutte le opere felicemente compiute dai discendenti, il merito va agli antenati, e non è possibile che pecchino contro gli dei quanti sostengono che essi sono i nostri maggiori benefattori. Infatti anche gli dei, senza alcun dubbio, sono indulgenti verso coloro che onorano massimamente i genitori: giacché da essi abbiamo imparato a onorare la divinità. Onde anche Omero glorifica con lo stesso nome il re degli dei, chiamandolo appunto «padre» degli dei e degli uomini, e molti mitologi hanno tramandato che i divini regnanti Zeus ed Era gareggiarono nell’appropriarsi, ciascuno per sé in modo esclusivo, di quell’affetto che i figli nutrono, partitamente, verso la coppia dei genitori, onde ciascuno di essi assunse la parte di padre e, insieme, di madre e l’uno da solo generò Atena, l’altra da sola Efesto, aventi, rispettivamente, sesso opposto a quello di chi l’aveva generato.

Avendo tutti i presenti riconosciuto che il giudizio degli immortali è il più sicuro, Pitagora svolse ai giovani crotoniati la seguente lezione: «Per il fatto che Eracle è propizio a voi crotoniati, dovete obbedire volentieri ai precetti dei genitori. Sapete infatti che Eracle, pur essendo un dio, obbedì a un altro più anziano di lui, sostenne le fatiche e infine, a perenne ricordo di esse, istituì per suo padre Zeus i giochi olimpici». E proseguì: «Se agirete allo stesso modo nei vostri rapporti reciproci, non sarete mai nemici agli amici e da nemici diventerete subito amici. Nel rispetto verso i più anziani darete prova della vostra affezione verso i padri e, nella bontà verso gli altri, del vostro sentimento di fraternità».

Successivamente parlò coi giovani della temperanza in questi termini: «L’età giovanile mette alla prova la vostra natura in un’epoca in cui le passioni sono le più impetuose. Riflettete dunque che, tra le virtù, solo la temperanza merita di essere ricercata da ragazzi e ragazze, da donne e uomini anziani, ma soprattutto dai giovani. Questa sola virtù — egli dimostrava — comprende in sé i beni del corpo e dell’anima, in quanto conserva la salute fisica e l’aspirazione ai più nobili studi.”

Pitagora proseguendo nel suo discorso esortò inoltre i giovani all’edu­cazione dello spirito e li invitava a riflettere con que­ste considerazioni: «Quale assurdità, mentre si con­sidera il pensiero la cosa più importante e col suo aiuto si giustifica tutto e si giudica su ogni cosa, non volere spendere né tempo né fatica per esercitarlo a controllarlo. L’educazione fisica assomiglia ai cattivi amici, giacché essa ben presto ci abbandona, mentre l’educazione dello spirito, come gli uomini onesti, rimane fedele sino alla morte e ad alcuni, anche dopo la morte, apporta gloria immor­tale». E altri esempi del genere adduceva ancora, traendoli parte dalla storia, parte dalla filosofia, ar­gomentando: «L’educazione è una pregevole qualità dello spirito, comune, in ogni generazione, ai migliori. Infatti ciò che questi scoprono, diventa poi, per gli altri, materia e strumento di educazione. Questo è il pregio intrinseco dell’educazione che, mentre delle altre doti maggiormente lodate, alcune sono intra­smissibili — come la forza, la bellezza, la salute, il coraggio —; altre, una volta cedute, non si posseg­gono più — come la ricchezza, le cariche pubbliche e simili —, l’educazione invece è possibile riceverla da altri, senza che questi, dandola, ne restino privi. Similmente, mentre l’acquisto di alcuni beni non è «in potere dell’uomo, l’educazione dipende dalla con­sapevole determinazione di ciascun individuo. E chi poi entra nella vita pubblica della propria patria, mo­stra di farlo non per arrivismo, ma sulla base della sua educazione e formazione spirituale: giacché, come sembra, per questa si distinguono gli uomini dalle bestie, gli uomini liberi dagli schiavi, gli amanti della sapienza dagli uomini qualunque”.

Queste furono le cose dette da Pitagora nel suo primo incontro con i giovani a Crotone la quale città come sappiamo divenne la sua patria adottiva e nella quale fondò subito dopo la Schola Italica che infinita luce di saggezza e di spiritualità diede all’Italia e al mondo intero.

 

L’ORIGINE DELLA MALATTIA

 


“L’origine morbosa è microbica. Tutti i contagi, tutte le infezioni sono microbiche. Nella Natura, secondo l’attuale quarto d’ora della scienza, vi è costantemente preparato un attentato alla vita di un essere vivente. Tanti morbi, tante specie di bacilli, i veri imbecilli malefici tra i funghi invisibili del principio del male, imbecilli irresponsabili e gerenti responsabili di tutti gl’insuccessi della terapia. Ed avete persuaso il mondo che milioni di pericoli invisibili, ignoti, insospettati, stanno ad ogni minuto per trascinarci nella tomba, di cui tutti hanno paura. Microbi nell’acqua, nell’aria, nella terra; solo il fuoco è puro, ed anche il calore alcuni distrugge ed altri alimenta. Ed avete studiato e avete (o scoperta rara)! capito che il corpo umano, creato da un dio ignoto o dalla necessità di vivere, ha in se tutte le difese naturali per rendere innocui questi nemici spaventevoli. Il microbo del carbonchio diventa innocente in una goccia di muco. Ogni rivestimento epiteliale dalla bocca alle narici, alla laringe, ai polmoni, agl’intestini, neutralizza i veleni degl’invasori. Il bacillo del tifo di Eberth in un intestino sano fa cilecca. Basta leggere i volgarizzamenti degli scienziati fatti pel grosso pubblico, per assistere ad epopee pittoresche e a battaglie tra cellule e microbi, tra leucociti e bacilli, tra acidi e batteri e secrezioni. Metchnikoff ha scoperto la fagocitosi che è la voracità di microbi a microbi in guerra: il vitalismo rudimentale nei mono-cellulari, che urta anche i fisio-chimici antivitalisti....

Di qui la isopatia (def. similia similibus) coi sieri o sieroterapia per vincere i nemici, quando l’organismo umano, già indebolito, non riesce ad espellere o neutralizzare gl’invasori... e finite col riconoscere che un corpo sano, nel completo funzionamento del suo apparato naturale di difesa, non può essere attaccato dai microbi e vinto; dunque bisogna concludere che dove il microbo si manifesta vittorioso, ha trovato già l’organismo predisposto, cioè attacca, vince, genera, l’infezione quando l’organismo è già malato; quindi il principio di ogni morbo è nell’organismo, indipendentemente dal microbo che lo attacca.”

Commentare uno scritto del Kremmerz, anche breve come questo, sembra un’impresa facile, ma solo in apparenza. In realtà il Maestro di Portici ha il vezzo di scrivere centinaia di pagine senza apparentemente penetrare nel cuore del problema che sta trattando, per poi lanciare le sue frecce migliori quando chiama e richiama il lettore a concentrarsi su alcuni speciali argomenti, speciali come la medicina. Come, per esempio, il brano su riportato che occupa appena una paginetta della sua poderosa Opera Omnia, ma il cui significativo messaggio, nei tempi in cui viviamo, è di una enorme importanza umana, sociale e soprattutto terapeutica.

Non c’è scrittore, giornalista, medico, scienziato, uomo della strada, o semplice casalinga che non si sia sentito in obbligo di emettere un giudizio sulla pandemia che ha recentemente colpito e continua a colpire l’umanità nel mondo intero. La maggioranza delle persone parla e giudica per sentito dire, perché non è in condizione di interloquire, soggiogata com’è dalla propaganda dei media audio-visivi e cartacei, nonchè dai falsi scienziati che, nel caso specifico, si sono alternati sui giornali e nelle televisioni per suggerire e il più delle volve imporre le soluzioni più strampalate; la parte della popolazione che non accetta limitazioni della libertà personale,  inferocita replica negando a tutti loro una pur minima buona fede e quindi la capacità di restituire la salute ai milioni di disgraziati che muoiono per causa di un morbo che uccide.

Scrive Giustiniano Lebano, maestro di Giuliano Kremmerz, con parole colte ed ispirate, nel volumetto “De Morbo Oscuro” che Lebano aveva redatto per descrivere le cause patologiche e remote del colera, detto morbo oscuro, che fin dall’antichità ha sempre castigato la città di Napoli:

“DUE dottrine in medicina esistevano presso gli antichi. Una Epidaurica, e l’altra Empirica. La prima veniva sotto la cura delle Pizie insegnata ai soli Eletti, la seconda lo era dai Sacerdoti minori ai soli Mortali Plebei; che l’immortale Vico distingue in parlari de’ Mortali, e parlari de’Numi — ossia sacri ed arcani. I libri d’Ippocrate sono scritti in parlari Jeratici, ossia Teologici, quindi indisciferabili (indecifrabili) dagli attuali medici che appena sanno distinguere l’Alpha dall’Omega. E l’istesso Ippocrate rassomiglia i Medici profani a quegli Istrioni, che rappresentano gli Eroi, mentre sono Istrioni, e conchiude: “Quemad-modum enim illi quidem formant habitum, et /per sonarn histrionis referentur; ncque tamen hispriones sunt, sic et Medici nomine quidem multi re ipsa perpauci”.

Poiché in tutto questa classe imita la forma, e gli abiti de’ personaggi che rappresenta: ed intanto sono Istrioni.

A questo modo sono questi Ipocrati tali Iatrei, che vengono dalla scolastica vertiginosa addottrinati, che hanno la loro mansione nella moltitudine, ossia Plebe. E’ questa l’arte de’ Pangubai, ossia Ciurmadori e Cantabanchi, che esercitano il loro mestiere sulle Panche delle Baie.

Le opere di Areteo sono uguali a quelle d’Ippocrate ma i volgari plebei hanno voluto interpretarle coi loro lumi volgari e ne hanno fatto un massacro in mancanza di senso comune.

Sventurata umanità regolata da un volgo che si crede dotto; mentre che delle dottrine dell’antichità esso null’altro conosce che l’Empirismo. L’Empirica, ossia l’arte che si apprende per pratica, era la scienza medica cantabantica dei ciurmadori, e non aveva base di dottrina, ma di pratica, sola e di esperienza. Per contrario la Jatrea Asclepia, ossia l’arte di restituire la salute, era da dottrina per scienza di principii, in cui si alunnavano gli adepti Piziagorici. In conseguenza l’Empirica era la spregevole, la cantabantica. L’ Aschlepia che veniva insegnata dalle Pizie, era la divina che conosceva i Morbi, e ne guariva gl’infermi (4). Spente che furono le Pizie per opera di Costantino che alunnavano gli Adepti, e spente tutte le dottrine dei nostri Avi, ed oppressi da un piede di ferro di Evo Volgare (leggi: cristiano), non rimasero altro che fi Empiriche conoscenze, per cui la medicina non più ha potuto ritornare al suo antico lustro divino EPIDAURICO e si striscia nella melma dell’Empirismo volgare ciurmatorio””

Qualcuno potrebbe obiettare: non sono più i tempi dei patrizi e dei plebei dei quali parla il Lebano, ma Lebano non sta facendo un discorso di classi sociali ma di esseri umani di elevata o di bassa capacità ideale e soprattutto di una aristocrazia dello spirito, la quale con la forza del Bene e della Salute spirituale è in condizione di impedire il diffondersi di qualunque malattia e lo fa principalmente senza il bisogno di ricorrere ai sieri sperimentali i quali si rivelano ancor più nocivi della malattia. Questa forza, questa urgenza interiore dello spirito umano di difendere la salute e di combattere la malattia era ed è il fine della Fratellanza Terapeutico-Magica fondata dal Kremmerz il quale ha testimoniato durante la sua vita che la cura a distanza basata sulla potenza della solidarietà e sulla iatromanzia basate a loro volta sulla forza salutare dell’amore di una catena di anime è possibile, è realizzabile, è stata sperimentata, può raggiungere lo scopo e lo raggiunge.

Ecco cos’è mancato alla società moderna, soggiogata dall’ignoranza e dalla viltà, è mancato l’amore, la più potente medicina, è mancata la solidarietà e la fiducia nel mondo divino e dove mancano questi valori, questi principi prevalgono l’egoismo e il profitto, egoismo e profitto che hanno dominato i trafficanti di sieri sperimentali, desiderosi solo di veder crescere i loro guadagni e i le loro quotazioni in borsa.

Roberto Sestito

 

Il citato brano di Giuliano Kremmerz è tratto dal Volume secondo della Scienza dei Magi.

 

LA CATARSI FILOSOFICA

Senza un’attenta e accurata catarsi filosofica il discepolo non può e non deve pensare di avvicinarsi all’estasi filosofica, essendo questa una pratica la cui esecuzione richiede il totale scioglimento dell’anima dai lacci corporali. Leggiamo ciò che scrive Porfirio nella Sentenza n. 32:

Da parte nostra dunque si deve far attenzione soprattutto alle virtù catartiche, considerando che è possibile raggiungerle in questa vita e che è questa la via alle virtù superiori. Perciò si deve considerare fino a dove e quanto si può estendere la catarsi: essa è infatti un allontanamento dal corpo e dal movimento passionale dell'irrazionale. Bisogna quindi dire come e fino a dove ciò si realizza. Per prima cosa, base e fondamento della catarsi è sapere di essere un’anima legata a qualcosa di estraneo e di altra natura. Secondariamente, partendo da questo convincimento, bisogna raccogliersi in sé (allontanandosi) dal corpo e dai luoghi, disponendosi in uno stato del tutto impassibile nei suoi confronti. Infatti chi agisce spesso secondo la sensazione, pur facendolo senza forte inclinazione e senza il godimento del piacere, è tuttavia distratto dal corpo, essendo ad esso legato dalla sensazione, poiché prova piaceri o dolori a secondo dei sensibili con immediatezza e partecipazione emozionale; soprattutto da questa disposizione è opportuno purificarlo. Questo si può fare se si ammettono solo i piaceri necessari e le sensazioni a titolo di medicine o di alleviamento delle pene, in modo che non siano di intralcio. Bisogna eliminare i dolori: e se non è possibile, è necessario sopportarli, magari alleviandoli, senza rimanerne coinvolti. E necessario eliminare per quanto è possibile, magari del tutto, l’animo irascibile. In caso contrario, non si confonderà certo la libera scelta, ma l’impulso istintivo sarà di altra natura e, questo stesso impulso, debole e breve; la paura invece deve essere assolutamente soppressa; non si dovrà infatti aver paura di nulla - anche qui ci potrà essere un impulso iniziale -, si potrà tuttavia usare insieme l’ira e la paura come ammonimenti. Si dovrà estirpare alla radice la concupiscenza di ciò che è impuro. Per quel che riguarda il mangiare e il bere, ci si atterrà a ciò che è necessario, per quel che riguarda i piaceri d’amore, a ciò che è naturale, senza impulsi istintivi: al limite, nel sonno, ci sarà una fantasia passeggera. In pratica, l’anima razionale dell’uomo purificato dovrà essere pura in sé da ogni passione. Dovrà volere che quella parte che è agitata dalle passioni del corpo, si muova senza partecipazione e coinvolgimento emotivi, in modo tale che l’eccitazione si attenui subito in prossimità dell’elemento razionale. Se la catarsi si compie, non ci sarà più allora lotta interiore, ma basterà la presenza della ragione a cui sarà sottomessa la parte inferiore: di conseguenza, la stessa parte inferiore non sopporterà di essere del tutto agitata, e deplorerà la sua stessa debolezza, poiché non è rimasta impassibile alla presenza del suo padrone. Comunque si tratta ancora solo di passioni moderate che tendono all’impassibilità; solo quando sarà completamente purificato dalle passioni, subentrerà l’impassibilità; la passione infatti prende corpo quando la ragione glielo rende facile a causa della forte inclinazione.

 

Ebbene, in che modo ed eseguendo quali riti il novizio della Scuola Ermetica può aspirare ad una catarsi completa, ossia a quella purificazione dell’anima che gli permetta un graduale approccio al mondo divino? Per meglio dire a quella purificazione che consiste nell’isolare l’anima affinché non si unisca ad altro e non guardi ad altro e non abbia più idee che si riferiscano ad altre realtà, qualunque sia la forma delle idee o delle passioni, né si volga ad immagini interiori, né con esse si procuri delle passioni?

Il rito di purificazione che il Novizio riceve al momento della sua iscrizione nella Scuola è il Rito Lunare. Tuttavia nella suddivisione quaternaria dell’uomo noi apprendiamo, prima di ogni altra cosa, dell’esistenza del Corpo Saturniano che è la parte corporea e sensitiva del nostro essere uomo. Ci domandiamo: il nostro corpo saturniano viene o no sottoposto a un trattamento rituale di purificazione? La risposta ce la dà Porfirio.

Egli dice: “Perciò si deve considerare fino a dove e quanto si può estendere la catarsi: essa è infatti un allontanamento dal corpo e dal movimento passionale dell'irrazionale.” Con questa parole si parte da un punto fermo: la catarsi porta a una separazione dal corpo.

Vedremo fra poco da chi, come e in che misura il corpo deve propiziare questa separazione affinchè la catarsi si compia. Ma perché parliamo di separazione? La risposta a questa domanda è nelle prime parole di Porfirio: è questa la via alle virtù superiori.

Ma per poter andare avanti desideriamo sapere quali sono queste “virtù superiori” e per quale motivo dobbiamo sottoporci a un’impresa così complessa per raggiungerle. Porfirio risponde così: perché la nostra “anima è legata a qualcosa di estraneo e di altra natura”.

Una volta stabilito il punto di partenza scopriamo subito dopo che il “qualcosa di estraneo” è il nostro corpo ed è questo il motivo per cui i Filosofi e i Maestri non si sono preoccupati di trattarlo ritualmente. Hanno previsto per il corpo una serie di prescrizioni che rientrano in quelle tante norme comportamentali, igieniche e sanitarie di cui si occuparono sin dall’antichità sia i sacerdoti egiziani sia i filosofi pitagorici riassunte nei precetti del “tenore di vita pitagorico”. Con questo non voglio dire che il corpo saturniano è stato sottovalutato, al contrario, solo con una conoscenza scrupolosa delle sue molteplici funzioni riusciremo a separarci da lui.

Restando sul livello corporale Porfirio non lo sottovaluta affatto.

Una volta persuasi dell’estraneità del corpo fisico, il prossimo passo è l’esercizio della “concentrazione e del silenzio” “disponendosi in uno stato del tutto impassibile nei suoi confronti”.

Sulla “concentrazione e il silenzio” siamo abbastanza informati perché un esercizio di questo tipo ci è stato trasmesso da Luce, discepolo pitagorico di Reghini.

Mentre sull’ “impassibilità” non sappiamo nulla, come uomini del nostro tempo agitato abbiamo la necessità di sapere tutto per assimilare bene la “disposizione” richiesta da Porfirio.

Per farlo chiederemo l’aiuto di Plotino il quale nella III Enneade ha dedicato all’ “Impassibilità degli esseri incorporei” un lungo capitolo. Se non assorbiamo bene la lezione ivi contenuta non saremo in condizione di fare nessun passo in avanti. Cercherò quindi di riassumere e puntualizzare l’insegnamento di Plotino.

Plotino, per dimostrare la “impassibilità degli esseri incorporei”, parte da lontano dimostrando per prima cosa l’impassibilità della materia, il fatto che pur essendo giudicata “ricettacolo e nutrimento del divenire universale”, resta impassibile e inalterata. Non dimentichiamo che per Plotino “la materia è l’estrema propaggine dell’Anima” (per cui, propriamente, non è l’anima ad essere ‘dentro’ il corpo ma è questo ad essere dentro l’anima, la quale lo ’avvolge’ come una invisibile ‘aura’, ragion per cui, secondo la legge platonica dell’analogia, dell’imitazione e della simpatia l’anima raggiunge ugualmente l’impassibilità).

Fatto ciò il prossimo ostacolo è rappresentato dal mondo sensibile verso il quale, per Porfirio, l’atteggiamento dell’anima è altrettanto netto e sicuro. Dice: “...sicuramente per l’anima è possibile sciogliersi dal sensibile con la presenza della forza della conoscenza, rivolta verso l’essere stesso e che lì è sempre sveglia. Infatti poco dopo nello stesso luogo questo legame intellettuale e fantastico e recettivo dell’anima (col sensibile) viene sciolto” (Porfirio).

La “conoscenza” si presenta al discepolo di Hermes con uno spettro molto ampio di possibilità e di opportunità, per un motivo molto semplice: è la porta sul cui frontone troviamo scritta la fatidica frase “conosci te stesso!”. E’ necessario attraversarla per adempiere fino in fondo all’ imperativo divino. Ecco la conoscenza che a noi tutti interessa: se ignoriamo chi siamo non imboccheremo mai la strada di una perfetta impassibilità e quindi di una sicura separazione dai legami corporei.

Nello scritto di un discepolo del Kremmerz si legge: “L’obiettivo del primo separando è la perfetta conoscenza di noi stessi, la conoscenza più profonda del significato del nostro corpo saturniano…”

Il destino ultimo dell’uomo, chiarisce come l’uomo sia in grado di conoscere sé stesso e riguadagnare la propria origine. In primo luogo l’anima, al momento della morte fisica, si libera del corpo che viene lasciato in balia dell’alterazione, la forma si dissolve, l’indole è abbandonata al demone, i sensi fisici ritornano alle loro origini e si ricompongono nelle forze cosmiche, l’animo irascibile e quello concupiscibile si riversano nella natura irrazionale. L’anima dell’uomo può ora cominciare la sua risalita attraverso le sette sfere celesti, liberandosi in ciascuna degli influssi di cui si era caricata durante la caduta.

L’astralità che viene assegnata al novizio al momento dell’entrata nella Fratellanza, segna l’inizio di questo percorso.

Così alleggerita l’anima entra nel cielo delle stelle fisse, dove si unisce alle altre anime beate; entra poi nel coro delle potenze che stanno al di sopra della otto divinità primordiali e a quelle si assimila, per raggiungere da ultimo l’ottimo fine a cui aspira chi ha ottenuto la conoscenza: diventare simile a dio.

Caduti nella genesi, noi crediamo che la realtà del nostro essere sia il corpo che vediamo e, come afferma Platone siamo circondati dall’ignoranza, non riconosciamo più la nostra dignità interiore, trascinati dall’orgoglio, costruiamo castelli di sabbia e poi con orgogliamo li demoliamo. «Conosci te stesso» è dunque un’esortazione a spogliarsi del sensibile, a riconoscere in noi l’anima e l’intelletto, l’uomo perfetto di cui ciascuno di noi è l’immagine. Il dio esorta a non con fondere l’immortale con il corruttibile.

In Porfirio la nozione del « conosci te stesso » è svolta alla luce delle sentenze «pitagoriche»: adattandola al suo contesto, cita dapprima l’esempio in cui il corpo che ci sta attaccato è paragonato alla membrana che avvolge l’embrione nel seno materno e allo stelo in cui è contenuta la spiga di grano; ambedue, membrana e stelo, quando il feto e il grano giungono a maturazione, sono gettati via: così anche il corpo, in cui è inseminata l’anima, non è la vera parte dell’uomo, ed è necessario liberarsi dall’inclinazione passionale verso di esso.

La liberazione si ottiene mediante la conoscenza di se stessi, il riconoscere cioè il valore temporale del corpo, che ci lega al basso e al mortale, e vedere in esso un ostacolo alla conoscenza dell’incorruttibile e del divino che è in noi. Porfirio cita inoltre altre due sentenze «pitagoriche»: per raggiungere la salvezza dell’anima dobbiamo impegnarci a sostenere quelle stesse fatiche che altri affrontano per soddisfare i piaceri del corpo, esercitandosi così nella corsa verso il fine ultimo dell’unione con Dio.

L’uomo che conosce sé stesso è in grado di salire a dio, e per questo motivo la sua diventa una scelta di vita, che lascia due sole alternative: o la condizione umana viene superata in vista dell’unione con la divinità, oppure l’uomo si abbrutisce totalmente nella materia e si perde quindi nella morte dell’anima e dell’intelletto.

L’intelletto, sede della conoscenza, si rivela così lo strumento che permette all’uomo di liberarsi dalla sua condizione mortale: come abbiamo visto, quest’uomo possiede gli strumenti per superare il presente e costruirsi il futuro, un futuro che coincide con il suo ingresso in dio, ovvero con il suo diventare simile a dio.

Per mezzo di una costante disciplina magica e rituale si potrà aspirare alla teurgia sacra la quale gli permetterà di liberarsi del corpo, abbandonandolo al mutamento. Illuminato da dio, guadagnata la luce della conoscenza che è conoscenza di sé, si avvia lungo i sentieri siderei ripercorrendo a ritroso il cammino compiuto dall’anima durante la sua rovinosa caduta.

Questa è la rinascita svelata da Hermes, e che l’adepto deve impegnarsi a non rivelare a nessuno. Per mezzo suo si supera il corpo fisico per entrare in un corpo «composto di potenze», che è indissolubile e immortale, si diviene consapevoli di «essere figli dell’Uno» e alla fine si diviene simili dio.

A parte ciò il corpo oppone numerose altre difficoltà alla purificazione e alla risalita dell’anima: le passioni (tra le quali, la pigrizia mentale), l’irascibilità, la concupiscenza affezioni che molto spesso dominano non solo la natura corporea, sfidano la nostra intelligenza e aggrediscono la parte razionale dell’anima.

Svegliarsi con il corpo equivale a trascorrere da un sonno all’altro, passare in un altro letto; il vero risveglio è quello che porta lontano dal corpo. Anzi, «il vero risveglio consiste nell’alzarsi senza corpo» (Plotino, III 6, 6). L’anima ama dio e con lui vuole unirsi, perché la vita sulla terra, esito di una caduta, di un esilio, di una perdita delle ali, è dominata dall’amore volgare. Invece il vero oggetto d’amore sta altrove e con lui l’uomo ha la possibilità di unirsi, se si libera della carne. Sciolto dai legami che lo uniscono agli altri esseri e alla materia, l’uomo può allora recuperare quella parte perduta in seguito alla separazione dall’Uno, e alla fine la contemplazione sarà costante e continua, quando non ci sarà più l’ostacolo del corpo. Allora e solo allora, «se l’anima conosce sé stessa...se sa che il centro è l’origine del cerchio, volteggerà attorno al centro da cui è uscita...si raccoglierà in quel punto...portandosi verso di esso» ed è allora, che le anime «sono dei».

Per mezzo della teurgia sacra egli riesce a liberarsi del corpo, abbandonandolo al mutamento. Illuminato da dio guadagnata la luce della conoscenza che è conoscenza di sé, dell’essere l’uomo esso stesso dio, anche se dio mortale, l’uomo esce dal corpo a tre dimensioni, dissolubile e mortale, e si avvia lungo i sentieri siderei ripercorrendo a ritroso il cammino compiuto dall’anima durante la sua rovinosa caduta.

Questa è la rinascita svelata da Ermete, e che l’adepto deve impegnarsi a non rivelare a nessuno. Per mezzo suo si supera il corpo fisico per entrare in un corpo «composto di potenze», che è indissolubile e immortale, si diviene consapevoli di «essere dio e figli dell’Uno» e alla fine si diviene simili al dio.

Salilus

 

 

 

Arturo Reghini

 

TRASCENDENZA DI SPAZIO E TEMPO

 

 

Da oltre un anno vengono comparendo in questa rivista degli articoli assai interessanti sopra dire questioni di grande importanza, le quali per un deplorevole andazzo vengono di solito designate con due denominazioni piuttosto infelici: la questione della “quarta dimensione” e quella dell’“eterno presente”. Si tratta, come è noto, di due ipotesi da lungo tempo addotte per spiegare rispettivamente i fenomeni di “apporto” ed i fenomeni “premonitori”.

Con questo intendimento si è attenuto ad esse anche ring. Francesco Amato nei suoi articoli usciti nei numeri di Maggio- Giugno 1925 e Settembre-Ottobre 1925 di “Mondo Occulto”, mentre il Dr. Ernesto Bozzano, nei suoi articoli usciti in questa stessa rivista nei numeri di Novembre-Dicembre 1924, Luglio- Agosto 1925 e Novembre-Dicembre 1925, le ha combattute, propugnando invece l’ipotesi della smaterializzazione e consecutiva rimaterializzazione per spiegare i fenomeni di apporto e ricorrendo a varie ipotesi tra cui quella della “onniscienza delle cause” da parte dei sensitivi, per spiegare le varie specie di fenomeni di premonizione.

Dobbiamo subito fare un’osservazione preliminare, ed è questa: se anche le ipotesi patrocinate dal Bozzano entrassero effettivamente in giuoco nei fenomeni in questione, non ne seguirebbe la esclusione delle ipotesi della quarta dimensione e dell’eterno presente, potendovi in alcuni casi intervenire le une ed in altri le altre, ed anche, se tali ipotesi dovessero essere assolutamente scartate per la spiegazione dei suddetti fenomeni, non ne seguirebbe che non potessero servire in altri casi per altri problemi e che dovessero essere escluse dal novero delle possibilità. In altre parole, dall’essere ritenute inutili, inadeguate ed inopportune per spiegare alcuni particolari fenomeni non ne segue che tali-ipotesi siano senz’altro assurde e da scartare assolutamente.

Il Bozzano avrebbe potuto dichiarare che non sentiva la necessità di ricorrere ad altre ipotesi oltre quelle da lui caldeggiate, e la questione si sarebbe ridotta ad esaminare se tali ipotesi sono appropriate, sufficienti ed attendibili. Ma il Bozzano, che già nel suo libro (Dei Fenomeni premonitorii, Milano 1914) si era adoperato per liquidare l’ipotesi dell’eterno presente, si è addirittura proposto con gli articoli sopracitati di “liberare il campo della metapsichica da due ipotesi contrarie alla ragione ed alla logica, in quanto sono impensabili” (Mondo Occulto, Anno IV, n. 6, pag. 241). E poco più oltre (ibidem pag. 250), egli non si perita dall’affermare che le ipotesi dell’ “eterno presente” e della “quarta dimensione”, devono considerarsi scientificamente assurde ed insostenibili “risultando impensabili, perché in flagrante contraddizione coi dettami della ragione, cogli attributi fondamentali dell’essere, coi principi della natura e con le leggi dell’universo”.

Santi numi! Dobbiamo confessare che nel leggere queste righe non abbiamo potuto fare a meno di sentire un tantinello di invidia e di avvilimento. Ma, superando questo senso di ab-battimento e pur non pensando menomamente nella nostra pochezza ad accampare anche noi la pretesa di conoscere gli attributi fondamentali dell’essere, i principii della natura e le leggi dell’universo, vogliamo provarci a mettere un poco di ordine nell’impostazione di queste due benedette questioni ed un poco di precisione nella terminologia impropriamente usata per designarle.

Anzitutto, è necessario esaminare se sia legittimo e conveniente l’abbinamento delle due questioni, fatto ed accettato concordemente tanto dall’Amato quanto dal Bozzano, senza addurre all’uopo, né l’uno né l’altro, alcuna ragione o giustificazione. L’Amato, infatti, afferma che il ritenere assurda l’ipotesi di una quarta dimensione mena ad affermare assurda l’idea del fuori tempo; e quindi ad escludere 1’ “eterno presente” (Mondo Occ. An. V, N. 3, pag. 117); il Bozzano chiama l’ipotesi della quarta dimensione sorella di quella dell’ “eterno presente” (Mondo Occ. An. V, N. 4, pag. 157), e dice che escludendo l’ipotesi che i sensitivi scorgano gli eventi per induzione puramente mentale, ed ammettendo invece quella dell’eterno presente, i sensitivi scorgerebbero gli eventi futuri per visione diretta vera e propria attraverso alla quarta dimensione dello spazio (Mondo Occ. An. IV, N. 6, pag. 248). Ora, se il lettore avrà la necessaria pazienza potrà persuadersi che non vi è nessuna ragione per connettere le due questioni, che si delineano limpidamente e mutuamente indipendenti. Pel momento constatiamo che l’abbinamento è stato arbitrariamente effettuato.

Il Bozzano, i cui articoli hanno un andamento, per uno scienziato, non poco dommatico, afferma che l’intelligenza umana è costretta logicamente ad ammettere l’idea di uno spazio infinito (Mon. Oc. An. IV, N. 8, pag. 241), e così pure di un tempo infinito sia nel passato che nel futuro {ibidem, pag. 242 e 247). Per lui è verità assiomatica che Tempo e Spazio formano parte integrante della Realtà Assoluta (ibidem, pag. 246); e poiché, dice sempre il Bozzano, Tempo e Spazio risultano le condizioni necessarie dell’essere, e negarli equivale ad ammettere l’esistenza del Nulla assoluto, e questo non si può fare perché è impensabile, così “la realtà dell’esistenza dello Spazio e del Tempo diviene certezza assoluta” (ibidem, pag. 2.46); e perciò “Tempo e Spazio non si possono sopprimere, e se un Al di là esiste, noi dovremo concepire l’altra vita come uno stato in cui cesserà di esistere non già il Tempo, ma la (sottolineatura nostra) nozione del Tempo, non già lo Spazio bensì il (idem come sopra) senso dello Spazio”; dove l’uso dell’articolo determinativo prova implicitamente che il Bozzano non ha, e ritiene per certo che nessuno può avere e che non vi è, altra nozione del tempo e dello spazio che l’unica a lui nota, la consueta nozione umana.

Notiamo eri passant l’uso o meglio l’abuso delle iniziali maiuscole per lo Spazio e per il Tempo, fatto per ingenerare nel lettore un imprecisato e mistico senso di reverenza. Se noi scrivessimo papa e Re intenderemmo evidentemente manifestare la nostra reverenza per il Re e non per il papa; e l’uso della maiuscola avrebbe uno scopo e significherebbe qualche cosa; ma sa dirci il Bozzano quale sia la differenza tra tempo e Tempo, tra spazio e Spazio? Il Pareto, in qualche passo della sua opera fondamentale, si è già preso beffa di questi sistemi; il Bozzano invece vi si indugia ancora con compiacenza. Ma, a parte queste inezie, quello che veramente fa impressione è l’intransigente attitudine assunta dal Bozzano, da cui traspare un’insanabile mentalità materialista. Egli arriva al punto di sentire il bisogno di subordinare allo spazio ed al tempo perfino Iddio; Dio, per il Bozzano, non può esistere che dentro l’universo. Ecco le sue precise parole: “Neanche Iddio potrebbe esistere all’infuori dello Spazio e del Tempo, visto che un essere, in quanto è un essere non può esistere... nell’inesistente” (Mon. Oc. An. V., N. 4, pag. 158-159). Questa attitudine è diametralmente opposta all’attitudine di Plotino che ha detto: “Non è l’anima che è nel corpo, ma il corpo nell’anima; non è Dio che è nell’universo, ma l’universo in Dio”; parole in cui si sente la sicurezza di chi parla per esperienza, ed in cui naturalmente il concetto di interiorità, di essere contenuto, compreso, non va inteso in senso spaziale; perché ha senso il parlare di un oggetto che capisce entro un altro oggetto o di un soggetto che ne comprende un altro; ma non si può stabilire un tale concetto di inclusione tra cose così eterogenee. Ma l’autorità del grande neoplatonico, per il Bozzano, sembra non esista neppure.

Il Bozzano non si cura delle vecchie distinzioni scolastiche tra tempo, durata ed aevum; non riflette che simili distinzioni avevano valore anche per Dante (che, passando dall’umano al divino nella sua ascensione, passa simultaneamente dal tempo all’eterno); non si muove nel vedere simile distinzione tra tempo e durata fatta anche da Cartesio e da Newton, non si scuote nel vedere Kant definire il tempo e lo spazio delle forme a priori der inneren Anschauung, delle mere condizioni subbiettive della nostra maniera di considerare le cose, e Schopenhauer considerare il tempo, lo spazio e la legge di causalità come le condizioni della nostra esistenza; tutto questo non esiste per il Bozzano, egli ignora ogni distinzione tra spazio e tempo empirici, immanenti e trascendenti. Per lui non esistono che lo spazio ed il tempo dell’empirismo; ossia lo spazio infinito tridimensionale ed il tempo infinito unidimensionale.

Ora, che la ragione umana sia logicamente costretta ad ammettere l’esistenza reale assoluta e necessaria di tale spazio e tale tempo non è affatto vero. Il Bozzano se ne può persuadere leggendo i primi due capitoli della pregevolissima opera: “Fisica di oggi, filosofia di domani (Milano 1910)” dell’illustre fisico Antonio Garbasso, dell’Università di Firenze. Il Garbasso osserva come occorra tenere distinti i tre problemi: a) che cosa sia il tempo, b) onde nasca la nozione del tempo, c) e dove se ne rinvenga la misura (ed analogamente per lo spazio); i quali problemi e concetti appaiono invece tra loro frammisti e confusi in tutti gli articoli di cui ci stiamo occupando. Sulla retina dell’occhio umano si disegna l’immagine a due dimensioni dell’oggetto della visione; ed il Garbasso osserva che la sensazione del rilievo e della distanza dell’oggetto è ottenuta mediante l’adatta-mento del cristallino e lo sforzo di convergenza dei due raggi visivi. Il Garbasso mostra come con l’adattamento del cristallino e lo sforzo di convergenza si introduca un solo parametro, il quale unito alle due coordinate della visione superficiale dà tre dimensioni; ed egli ha riprodotto tali condizioni coi mezzi di laboratorio mostrando come per fotografare un rettangolo situato sopra uno schermo sia necessario uno spostamento per mettere in fuoco secondo la distanza, e che in tale maniera si introduca ancora un solo parametro, e che perciò lo spazio abbia tre dimensioni. Tutto questo però va bene solamente in un mezzo isotropo ed omogeneo; e, con ingegnose esperienze di ottica che pel carattere di questa rivista e per risparmiare spazio non stiamo a riportare, il Garbasso è riuscito a dimostrare sperimentalmente che in un mezzo isotropo ma non omogeneo lo spazio ha più di tre dimensioni. Proprio così!

Né vale il dire che tutte queste considerazioni di ottica sono infirmate dal senso del tatto che ci assicura che le dimensioni dello spazio sono tre e non più, perché è noto come la coordinazione dello spazio tattile a quello visivo avvenga per educazione del senso tattile che si subordina a quello visivo. Questo per lo spazio. Quanto al tempo il Garbasso osserva che l’unica sua caratteristica sia la sua irreversibilità x (di modo che vale per esso il secondo principio della termodinamica), caratteristica di cui non godono le direzioni dello spazio. La questione del valore assoluto del tempo e quella della sua misurabilità restano quindi impregiudicate. «È lecito dunque, conclude il Garbasso (o.c., pag. 36), riferire all’ottica la nozione dello spazio e concludere che questa idea, come quella del tempo, non ci è data a priori, secondo la nomenclatura di Immanuel Kant, ma nasce anzi dalla consuetudine dei fenomeni esterni». Per conseguenza basta sottrarsi (si possibile est) alla consuetudine dei fenomeni esterni per non essere più gli schiavi di questa nozione dello spazio e del tempo. E resta dunque sperimentalmente scartata l’esclusività dell’esistenza e realtà assoluta dello Spazio e del Tempo come sono concepiti dal Bozzano.

Se quanto precede non fosse sufficiente per mostrare come occorra rinunziare all’illusione di un tempo assoluto, il Bozzano ed il lettore potranno rendersi meglio conto di questa necessità leggendo il capitolo sulla “relatività della simultaneità” dell’opera di Einstein (A. Einstein: La Théorie de la Relatività restreinìe et géneralisée, Paris 1921, Cap. IX, pag. 21-23); dove Einstein dimostra che due avvenimenti simultanei rispetto ad un treno in moto non lo sono rispetto alla strada ferrata, e viceversa; e mostra come, per togliere l’incompatibilità apparente tra la legge di propagazione della luce ed il principio della relatività, occorra abbandonare la nozione del tempo assoluto, vale a dire indipendente dallo stato di movimento del sistema di riferimento, nozione che la Fisica aveva sempre ammesso tacitamente. Non ci addentriamo in questo argomento per le ragioni sopra dette.

Senza andare nel difficile, del resto, basta un’analisi elementare della nostra nozione del tempo per constatare che esso si presenta come un continuum, vale a dire che l’idea di istante ed intervallo tra istanti immediatamente consecutivi è un’astrazione non corrispondente alla realtà, ma solo ad un concetto di limite. In altre parole, non esistono «momenti»; ogni momento, e tra questi il momento presente, non è altro che il limite puramente astratto, teorico, di separazione tra il prima ed il dopo, il passato e l’avvenire. Perciò ammettere l’effettiva reale ed esclusiva esistenza dell’attimo fuggente, equivale, poiché il passato e l’avvenire non esistono attualmente, ad ammettere che non esiste nulla. È dunque necessario non farsi ingannare dalla consuetudine, sorta dai bisogni pratici della misurazione del tempo, e non dimenticare che i momenti non sono altro che delle entità fittizie, e che, effettivamente e conseguentemente, passato, presente e futuro o costituiscono un tutto continuo o non sono.

Questo continuo temporale trascorre, sempre nel medesimo senso; dimodoché, fissata un’origine ed un’unità di misura, basta un numero (una coordinata) a fissare la posizione di un istante qualunque rispetto all’origine o viceversa. Il fluire del tempo è dunque rappresentabile con il movimento di un punto che procede sempre in un medesimo verso sopra una linea (la quale può immaginarsi aperta come una retta, nel qual caso non si ripassa mai per uno stesso punto, o chiusa come una circonferenza, nel quale caso si ripassa infinite volte per uno stesso punto, od anche può immaginarsi che presenti ancor altri andamenti). Per chi non esce da questa linea, ossia chi vive nella linearità del tempo, il passato, il presente ed il futuro non esistono che come presente; o meglio, per esprimersi con le parole di S. Agostino, il presente esiste come intuito, il passato come memoria, il futuro come aspettazione.

Questo nel caso in cui la rappresentazione grafica corretta fosse quella rettilinea; ma la cosa cambierebbe già, in parte, se il tempo dovesse venire rappresentato, anche nel caso della intuizione umana, da una linea chiusa o da una linea intrecciata.

Ma, pur così stando le cose, ha senso ed è legittimo porsi il problema: questa linearità del tempo ha carattere relativo od assoluto? Il tempo, che per noi è lineare, lo è parimenti e necessariamente per ogni essere cosciente? Certo si è che in un iper-tempo, per esempio in un tempo a due dimensioni, la visione simultanea di più momenti o tratti diverrebbe altrettanto possibile come la visione simultanea di più punti o segmenti di una retta da un punto situato fuori della retta, e questo senza intaccare l’ordinamento di successione cronologica dei singoli punti od istanti.

Considerazioni analoghe si possono svolgere per lo spazio. Anche lo spazio si presenta come un continuum; ed i punti, le linee, le superficie ed i volumi geometrici non sono che delle astrazioni, dei concetti limite, enti geometrici con i quali si costruiscono delle geometrie, ossia delle scienze che non si occupano delle relazioni tra queste nozioni astratte e gli elementi sperimentali del mondo fisico, ma unicamente dell’incatenamento logico di tali nozioni tra loro. Per le necessità della vita pratica la determinazione della posizione relativa di un punto rispetto ad un altro porta, in base alla nostra intuizione dello spazio, ad assumere un punto come origine, tre direzioni passanti per esso come assi coordinati (cartesiani, ortogonali) ed una unità di misura sopra di essi. A differenza del tempo, però, possiamo fissare noi il verso sopra gli assi coordinati, e cambiarlo se ci fa piacere.

Queste tre nozioni, del continuo, delle tre dimensioni, e della misura, hanno delle relazioni interessanti con i sensi uma-ni, che il lettore potrà trovare svolte nel paragrafo concernente “il problema psicologico dell’acquisto delle nozioni spaziali” nell’opera “Questioni riguardanti le Matematiche elementari raccolte e coordinate da Federigo Enriques. Bologna 1912, Voi. I, Art. I”.

Le sensazioni generali tattili-muscolari, appartenenti a tutta la cute danno da sole quelle relazioni generali inerenti alle linee e superficie, che costituiscono in geometria la teoria del continuo, e che sono come il fondamento delle altre proprietà geometriche (le grafiche e le metriche). Se alle sensazioni generali tattili-muscolari si aggiungono quelle del tatto speciale, cioè dell’organo preso come sede di paragone costante (di solito la mano), si ottiene la nozione della congruenza, ossia le nozioni metriche, mentre le sensazioni della vista ci danno le nozioni grafiche e non le metriche. Così «i tre rami differenziatisi della Geometria, cioè la teoria del continuo, la Geometria metrica e la proiettiva, avuto riguardo all’acquisto dei loro concetti fondamentali, appaiono connessi a tre ordini di sensazioni: rispetto alle sensazioni generali tattili-muscolari, a quelle del tatto speciale e della vista». Ritroviamo dunque che le questioni proiettive sono funzioni del senso della vista; e perciò la nozione delle tre dimensioni (o per essere più precisi delle tre direzioni) dello spazio è una funzione del senso della vista.

Il tempo invece è principalmente connesso al senso dell’udito, il quale distingue la durata di un rumore, ed il ritmo o tempo musicale. Riassumendo, spazio e tempo hanno il carattere di un continuum; il tempo presenta la irreversibilità, differendo in questo dalle tre direzioni dello spazio, la nozione umana del tempo è unidimensionale, quella dello spazio tridimensionale; il tempo è principalmente connesso con l’udito, lo spa-zio con la vista. L’eterogeneità tra spazio e tempo appare dun-que abbastanza netta per mostrare che l’abbinamento dei due problemi dello spazio trascendente e del tempo trascendente, ed in particolare il collegare in una mutua dipendenza e soluzione i due problemi della quarta dimensione e dell’eterno presente, è ingiustificato ed arbitrario. La questione dell’esistenza di un ipertempo a due dimensioni è indipendente dalla questione di un iperspazio a quattro dimensioni; ed una soluzione positiva o negativa del problema della «quarta dimensione» non trascina con sé in una sorte identica la questione dell’«eterno presente», e viceversa.

Ed ora occorre mettere in chiaro un’altra faccenda.

Quando il Bozzano, citando il matematico inglese T.O. Todd, dice che le speculazioni dei matematici intorno ad una quarta dimensione dello spazio non servono per comprovare 1’esistenza concreta di questa dimensione, ha perfettamente ragione.

Per quanto possa sembrare paradossale ad un profano, è certo che la geometria oggi è una scienza puramente astratta, completamente indipendente da ogni intuizione dello spazio fisico; è una costruzione avente un puro valore logico da cui non è lecito dedurre nulla né in favore né contro questioni attinenti alla natura dello spazio fisico. «La verità è, dice il Whitehead in un suo ottimo libro (An Introduction to Mathematics by A. N. Whitehead, pag. 242-244) che la “spazialità (spaciness)” dello spazio non entra affatto nel nostro ragionare geometrico... La percezione spaziale accompagna le nostre sensazioni, forse tutte, certo molte; ma non sembra una qualità necessaria delle cose che esse debbano esistere in un unico spazio od in uno spazio di sorta (in one space or in any space)». E l’Einstein scrive: «Le proposizioni della matematica in quanto si riferiscono alla realtà non sono certe, ed in quanto son certe non si riferiscono alla realtà (La Géometrie et l’Experience par Albert Einstein. Paris 1921, pag. 4)». Perciò l’esistenza di una geometria di uno spazio a quattro dimensioni non prova nulla né a favore né contro l’esistenza di uno spazio concreto a quattro dimensioni e di una possibile nozione di esso. E quanto all’asserito carattere assoluto dello spazio infinito, se anche qui nulla si può dedurre dalla geometria al mondo fisico, è però certo che lo sviluppo della geometria non euclidea ha condotto alla nozione che si può dubitare dell’infinità del nostro spazio senza cadere in disaccordo con le leggi del pensiero e dell’esperienza (Riemann, Helmholtz). Così si esprime testualmente l’Einstein nel Cap. XXXI, intitolato: “la possibilità di un universo finito e ciononostante non limitato”, del suo libro già citato sopra la teoria della relatività. Il Bozzano non ha che da confrontare queste parole con le sue apodittiche affermazioni sulla realtà assoluta dello spazio e del tempo infiniti.

L’Ing. Amato ha poi perfettamente ragione di dolersi della terribile confusione che fa il Bozzano quando trasforma la questione della esistenza di un iperspazio a quattro dimensioni nella questione perfettamente assurda “della esistenza della quarta dimensione dello spazio”, dove egli sottintende che lo spazio è e non può essere che a tre dimensioni. Chiedere se nello spazio a tre dimensioni si possa trovare una quarta dimensione è infatti altrettanto assurdo quanto chiedere se una superficie può contenere dei volumi; ma è troppo facile demolire gli avversari attribuendo loro delle bestialità, e nella fattispecie nessuno ha mai pensato, come invece suppone il Bozzano (Mon. Oc. An. IV, N. 6, pag. 243), ad applicare ad una geometria a tre dimensioni l’ipotesi della “quarta dimensione dello spazio”. Se l’ipotesi dell’esistenza di uno spazio quadridimensionale consistesse veramente nel supporre che lo spazio a tre dimensioni sia a quattro dimensioni, il Bozzano avrebbe ragione di dichiarare tale ipotesi assurda ed impensabile; ma, anche se c’è qualcuno capace di fare simile confusione (conosciamo certi “grandi maestri”, che scribacchiano di aritmosofia, che son capaci di ben altro!), l’Amato non appartiene a questa categoria ed ha ben ragione di non voler esservi ficcato a forza.

Abbiamo visto sin da principio che per il Bozzano le due ipotesi dell’“eterno presente” e della “quarta dimensione dello spazio” sono impensabili, e perciò sono contrarie alla ragione ed alla logica, sono irrazionali e quindi da escludersi. Questo, dice il Bozzano, a differenza delle ipotesi inconcepibili (ma razionali e legittime), come quella della ‘‘onniscienza delle cause”, di cui ‘‘dobbiamo logicamente ammettere la possibilità, senza pervenire a comprenderla” (ibidem, pag. 243). Ora per dimostrare che queste due ipotesi sono indispensabili egli le assimila all’ipotesi che in un ‘‘mondo trascendentale possa esistere un’aritmetica diversa dalla nostra a norma della quale due più due sommano cinque” (ibidem, pag. 242); e su questa assimilazione poggia tutto il suo ragionamento per condannare come assurde ed impensabili dette ipotesi. Su questa equiparazione egli insiste a pag. 243: “perché tre dimensioni, anziché quattro o cinque”? Mi limito ad osservare in proposito come tale formidabile interrogativo equivalga a quest’altro: «Perché, perché, 2 più 2 sommano a quattro, anziché a cinque, o a 6, o a 7, e via dicendo?»; ed ancora, infine del medesimo articolo (ibidem, pag. 250): «Se vi fosse chi credesse dover rivendicare alla scienza ed alla filosofia il diritto di spaziare liberamente anche nelle altitudini caotiche della più scapigliata astrazione, allora io gli osserverei che egli in tal caso è tenuto ad accogliere per legittima anche l’ipotesi che in un mondo trascendentale 2 più 2 sommino a 5, o a 6, o a 7, e via dicendo, ipotesi in tutto equivalente a quelle dell’“eterno presente” e della “quarta dimensione dello spazio” visto che tutte e tre contengono il medesimo elemento contrario alla ragione, alla logica ed al senso comune».

Come si vede, il Bozzano afferma che queste ipotesi si equivalgono, ma non conforta con alcun argomento la baldanza, sicurezza ed insistenza di questa affermazione. Ed il grave si è che di giustificazioni non è possibile trovarne, perché si può dimostrare molto semplicemente che questa assimilazione è arbitraria ed errata.

Infatti, che due più due facciano quattro non è un’ipotesi che possa essere vera o falsa o sostituibile; perché quattro non è altro che il nome adoperato per indicare il risultato dell’operazione elementare che consiste nell'aggregare a due unità altre due unità del medesimo genere, e prima di dargli questo nome si definisce questa operazione e si dimostra resistenza e l’unicità del suo risultato. Quindi se al risultato (somma) di questa operazione si desse un altro nome (come effettivamente accade passando da una lingua ad un’altra), e lo si chiamasse Quattro con la maiuscola, o cinque con la ipotesi per il Bozzano impensabile, di cambiato non vi sarebbe che il nome. In simil modo i tedeschi adoperano la parola kalt (inglese cold) per indicare non il caldo ma il freddo, gli spagnuoli adoperano la parola aceite per indicare l’olio, ed anche noi diciamo che il pane è freschissimo quando sorte bollente dal forno.

Ma emettere l’ipotesi che la somma di due più due possa variare, non di nome, ma proprio di fatto, non si può perché non è lecito in matematica fare delle ipotesi in contrasto con teoremi precedentemente dimostrati; ed in questo caso verrebbe rinnegato il teorema di unicità della somma.

Nel campo dell’aritmetica (archimedea), dunque, non si può emettere l’ipotesi che la somma di due più due sia variabile perché c’è un teorema che dimostra l’unicità della somma. Ma che il risultato di una somma possa variare non è un’ipotesi impensabile; è anzi addirittura quello che avviene p.e. nella somma dei poligoni, dove per ottenere l’unicità del risultato dell’addizione di due o più poligoni è necessario introdurre il concetto di equivalenza e prescindere da quello di eguaglianza. Ora, nella questione della trascendenza dello spazio e del tempo non esistono teoremi di unicità che precludano il campo alle ipotesi, e perciò le ipotesi dell’ «eterno presente» e della «quarta dimensione» non sono affatto assimilabili all’ipotesi vietata che due più due facciano cinque; e non sono affatto ipotesi puramente verbali, destituite di qualunque valore. E non è vero che queste tre ipotesi contengano il medesimo elemento contrario alla logica, alla ragione ed al senso comune né che l’ipotesi dell’ «eterno presente» porterebbe alla soppressione del tempo.

Nel caso degli apporti la spiegazione per mezzo della smaterializzazione e successiva rimaterializzazione si presenta più plausibile di quella per mezzo dell’iperspazio a quattro dimensioni. Gli argomenti addotti dal Bozzano, specie nel suo ultimo articolo, in favore della prima di queste due ipotesi sono vera-mente di grande valore, pure non risolvendo affatto, come sostiene il Bozzano, la questione in guisa risolutiva. Questo per le ragioni che abbiamo esposto preliminarmente.

In favore dell’ipotesi della disintegrazione e reintegrazione molecolare successiva sta il fatto che un tale processo lo si constata già nelle apparizioni fantomatiche; contro di essa sta il modo brusco con cui compaiono e scompaiono gli apporti, il che è conforme a quanto accade quando si adagia o si asporta una riga da una superficie ed al modo brusco con cui è possibile fare apparire e scomparire dalla superficie di uno schermo le proiezioni luminose e le ombre degli oggetti. Notiamo en passant che quando il Bozzano se la piglia con coloro i quali a guisa di esempio ricorrono all’ipotesi dell’esistenza di esseri viventi a due dimensioni, vale a dire sprovvisti di spessore, dichiarandola al solito assurda ed impensabile, non ha riflettuto che nella nostra stessa vita quotidiana esistono degli esseri a due dimensioni, che presentano i caratteri precipui degli esseri viventi (mobilità ed intelligenza), e di cui abbiamo continua esperienza. Questi esseri misteriosi sono le ombre, in particolare le nostre ombre! E meglio ancora, i personaggi che vivono sullo schermo cinematografico.

Concedendo pure, dunque, che il fenomeno degli apporti si spieghi con l’ipotesi sostenuta dal Bozzano, la questione dell’esistenza di uno spazio (euclideo o no) a quattro dimensioni, ed in generale la questione della trascendenza dello spazio, resta sempre impregiudicata, e non può esser risolta che sperimentalmente. E con questo non intendiamo affatto e necessariamente dire mediante esperienze di laboratorio eseguite sopra oggetti e soggetti ed interpretate dall’intelligenza di un illustre signor scienziato osservatore.

Intendiamo anzi alludere alle esperienze interiori. Per esempio la sensazione di uscire per il di dentro che si prova nella fase iniziale di certe estasi (e che il Bozzano può procurarsi anche con una dose adeguata di certe erbe o principii, che non staremo a spiattellare) si inquadra molto male nella nozione ordinaria dello spazio.

Per conto nostro non ci è possibile dimenticare l’esperienza veramente eccezionale di cui avemmo la ventura di essere fatti partecipi circa quindici anni or sono. Un iniziato, che designeremo con le iniziali A. A., preso un foglio di carta, vi disegnò sopra una spirale ed accanto ad essa la spirale simmetrica (l’una destrorsa, l’altra sinistrorsa), e poi ci chiese se riuscivamo a concepirne delle altre di altra natura. Rispondemmo naturalmente di no. Ebbene, egli disse: guarda. Guardammo, e la nostra mente vide due altre spirali distinte tra loro e dalle precedenti, come la destrorsa lo era dalla sinistrorsa. Fu un lampo. Per quanto abbiamo cercato, dopo, di riafferrare o di richiamare alla memoria questa visione trascendentale (o se proprio si ritiene vantaggioso di chiamarla così, questa allucinazione), non siamo mai riusciti a riportare alla nostra coscienza quello di cui aveva riconosciuto l’evidenza, la naturalezza e la indiscutibilità. Alla nostra richiesta di una seconda rappresentazione, A.A. rispose bastava avere avuto una volta nella vita tale esperienza. Quanto abbiam raccontato, naturalmente, accadde essendo noi perfettamente svegli, sani, a posto, tranquillissimi e in piena vita «normale».

Ora la figura simmetrica di una figura piana rispetto ad una retta situata nel piano della figura appartiene anche essa a questo piano, e coincide con la simmetrica presa rispetto al piano ortogonale passante per la retta che funziona da asse di simmetria. Segue da questa osservazione che, se si immagina che per una retta di un piano passino infiniti piani perpendicolari al piano dato (come accade appunto in un iperspazio a quattro dimensioni), la figura simmetrica non varia al variare del piano ortogonale; è sempre quella stessa che si ottiene nello spazio a tre dimensioni (ed anche a due senza uscire dal piano); epperciò anche in un iperspazio a quattro dimensioni non è possibile ottenere per simmetria le due spirali che noi abbiamo mentalmente veduto. Non basta dunque ricorrere ad altre dimensioni. La faccenda trascende anche la nozione iperspaziale.

A chi abbia avuto simili esperienze la questione della «trascendenza dello spazio» si presenta con una certa urgenza ed esigenza; e non è affatto possibile sottoscrivere quanto scrive Vincenzo Cavalli ed il Bozzano riporta aderendo: «Noi siamo e restiamo esseri spaziali e temporali, chiusi nella limitazione e costretti alla divisione; ed ogni sforzo speculativo per rompere la cerchia della nostra natura psicologica ed oltrepassare l’orbita della nostra potenzialità logica è vano, e cade nel vuoto...». Sono queste affermazioni puramente arbitrarie, inspirate ad una mentalità materialista, degna invero di chi cerca le prove materiali dell’esistenza degli spiriti e non concepisce che si possano compiere degli sforzi essenzialmente diversi dagli sforzi speculativi. È vero che il feto, per quanti sforzi possa tentare, non può superare la vita uterina ed esperimentare quella extra uterina, se non morendo alla vita uterina e nascendo alla vita del giorno (così almeno si crede generalmente); ma sarebbe un errore lasciarsi trascinare da una analogia mal posta a sostenere che in simil guisa l’uomo non può superare la vita umana se non morendo di morte fisica. Non sempre è logico basarsi sull’analogico; né sempre è necessario. Dobbiamo dunque ricordare che esiste la morte iniziatica, la morte dei misteri (la piccola morte di Jack London), la morte dell’uomo vecchio secondo la terminologia cristiana (da intendere però esotericamente e non moralmente e devozionalmente)? Dobbiamo dunque ricordare che esiste la nascita alla «vita nuova», la palingenesi pitagorica (che non è la reincarnazione), la seconda nascita dell’uomo nuovo, la resurrezione dei misteri?

Il Myers fa l’osservazione che «in un universo dove opera inspiegata una gravitazione istantanea lamenti umane non hanno bisogno che si apra loro la via al riconoscimento di altre misteriose trasmissioni, e debbono ritenersi pronte a concepire altri ambienti e coesistenze invisibili, ed in un certo senso a tenersi svincolate dalla concezione dello spazio, considerato co-me un ostacolo alla comunicazione o cognizione» (Frederic W.H. Myers: Human Personality and its survival ofbodily death, 1903; Vol. II, pag. 262). Conseguentemente il Myers ammette l’ipotesi della quarta dimensione (cosa che il Bozzano, pur citando il Myers, non ha pensato a riferire), e precisamente dice che «come il bambino non riesce ad afferrare la terza dimensione, così può darsi che noi (adulti) stiamo fallendo ad afferrare la quarta, o qualunque sia la legge di quella conoscenza più alta che principia a rapportare frammentariamente all’uomo quello che i suoi sensi ordinarii non possono discernere» (ibidem, Voi. I, pag. 277). Più difficile appare al Myers una simile emancipazione dalle limitazioni del tempo; più difficile ma non impossibile. «Immaginare il futuro come noto, scrive il Myers, tranne che per inferenza e contingentemente, a qualsiasi mente, è indurre subito il ferreo cozzo tra il libero arbitrio ed il fato determinato, precognizione assoluta» (ibidem, II, 262); ed «ancora più sgradito è l’avvento di una ulteriore veduta, che il così detto futuro esiste già di fatto, e che l’apparente progressione del tempo è una sensazione subiettiva umana; e non inerente all’universo come quello che esiste in una Mente Infinita» (ibidem, II, 262).

Come si vede, l’atteggiamento del Myers non è categorico; egli adduce ragioni estrinseche alla questione di fatto come quella del contrasto tra il libero arbitrio e la fatalità, oppure fa questione di gusti, di gradimento. La sua opposizione è così poco recisa che arriva a considerare «la totalità dell’esistenza ter-rena come un fenomeno assolutamente istantaneo» (II, 273).

A questa concezione del Myers il Bozzano si oppose nel suo libro (Bozzano Ernesto: Dei Fenomeni premonitorii, Ro¬ma 1914, pag. 7) adducendo che «se così fosse, ne verrebbe che la coesistenza nel mondo fisico della totalità degli atti di ogni singolo individuo, non potendosi scindere dalla corrispondente coesistenza di tutti gli stati di coscienza correlativi agli atti stessi, ne conseguirebbe che l’Io trascendentale di ogni bimbo in fascie si troverebbe a passare istantaneamente attraverso a tutti gli stati di coscienza corrispondenti a tutte le vicende della vita!». Ma «in questo caso, dice il Bozzano, come concepire la lotta per resistenza? Il progresso umano? La responsabilità morale ed il perfezionamento spirituale dell’individuo?». Sono argomenti, questi, completamente estranei alla questione e così poco consistenti, quanto quelli invocati da Lattanzio e S. Agostino per negare la possibilità dell’esistenza degli antipodi.

Nei suoi scritti più recenti, a dire il vero, pare che il Bozzano abbia gettato a mare almeno una parte di questa zavorra, o per lo meno si sia reso conto che tali argomenti non si possono apportare nel campo dell’analisi scientifica; sicché le obbiezioni che egli ora solleva contro questa ipotesi del Myers sono assai più appropriate e ne toccano effettivamente il lato debole. Diciamo però che il cambiamento è solo parziale perché ancor oggi egli persiste ad affermare che accogliendo l’ipotesi dell’onniscienza delle cause «giova rilevare che si otterrebbe un risultato teorico importante, ed è che verrebbe annullato di colpo il formidabile quesito del “Libero Arbitrio” di «fronte al “Fatalismo”, in quanto tale quesito si connette alle manifestazioni premonitorie». Questo argomento, che si riferisce ad una questione estranea od almeno secondaria, è il solo che il Bozzano adduce a sostegno dell’accettazione dell’ipotesi dell’“onniscienza della cause”; giacché non si chiama argomentare il limitarsi ad affermare che essa è legittima (Mon. Oc. An. IV, N. 6, pag. 250), che appare razionale e necessaria (ibidem, pag. 248), e che è necessario ammetterne la possibilità (ibidem, pag. 242); affermazioni che non sono neppure troppo concordanti e che lasciano travedere che il pensiero del Bozzano in fondo non è ben definito in proposito.

Se non che il conferire alla coscienza subliminale umana il potere divino ed infinito dell’“onniscienza delle cause” è sembrato un po’ forte al Bozzano; e nel suo libro ha cercato di ovviare all’inconveniente introducendo altre ipotesi ausiliarie: la fatalità di una singola vita umana, la reincarnazione, la scrittura degli eventi nel piano astrale, e la trasmissione della premonizione da parte di entità elevate, e questo specialmente per spiegare i fenomeni di premonizione “triviale” ossia di scarsa importanza personale per il sensitivo.

In questo modo, però, non si fa che introdurre elementi ed ipotesi superflui, ed eludere e spostare la vera questione; per-ché, sia la coscienza subliminale, siano le entità elevate, sia il Padre Eterno in persona a servirsi dell’“onniscienza delle cause”, resta sempre a sapere come diavolo fanno, e da esaminare se questa deduzione razionale da causa ad effetto sia davvero sufficiente ed adeguata e tale da escludere il superamento della linearità del tempo.

Più recentemente, per liberarsi dall’appunto di conferir l’onniscienza divina alla subcoscienza umana, il Bozzano ha preso la medesima posizione che è stata assunta dall’Osty nel suo recente libro (Dr. Eugène Osty: La connaissance supranormale Paris (Alcan) 1923), affermando cioè che le previsioni dei sensitivi si estrinsecano nei limiti relativamente angusti delle vicende riguardanti le singole personalità umane in rapporto ai sensitivi stessi. Questo non è esatto, e lo vedremo con degli esempi. E così pure non è pacifica l’esattezza dell’altra circo-stanza affermata ed addotta dal Bozzano e dall’Osty, e cioè che i sensitivi scorgano gli eventi futuri di più in più chiaramente a misura che gli eventi stessi si avvicinano nel tempo, circostanza, dice il Bozzano, che farebbe presumere come essi prevedono effettivamente il futuro in forza della legge di causalità, quasiché proprio non vi potesse essere altra spiegazione per tale circostanza (supponendo che esista). Basta riflettere, invero, che anche nel fenomeno della visione ed in quello dell’audizione la percezione diviene col crescere della distanza sempre meno chiara e particolareggiata, per ragioni inerenti al funzionamento dei sensi ed alle leggi dell’ottica e dell’acustica, senza evidentemente che entrino in giuoco processi deduttivi di sorta; e, se questo accade per la visione, perché qualche cosa di analogo non potrebbe accadere per il fenomeno della previsione, con pari esclusione di ogni processo razionale?

Un altro argomento accampato dal Bozzano per combattere l’ipotesi della «coesistenza del futuro nel presente» si è che con essa non si spiega l’anomalia che in molti casi di fenomeni premonitorii sfugge alla previsione l’essenziale. Egli dice (Dei fenomeni premonitorii, pag. 144) che «in tal caso dinanzi alla visione sensitiva dovrebbe (?) presentarsi l’intero quadro rappresentativo dell’evento futuro, e perciò non si comprenderebbe come i sensitivi abbiano a scorgere anticipatamente i particolari insignificanti del contorno ed a rimanere subbiettiva- mente ciechi dinanzi alla rappresentazione centrale dell’evento». Ora, a parte il dovrebbe, non si potrebbe per avventura fa-re l’ipotesi che l’intiero quadro si presenti, ma non venga ricordato? E perché mai questa anomalia dovrebbe infirmare l’ipotesi della coesistenza del futuro col presente e non infirmerebbe per niente la teoria della deduzione razionale in base alla legge di causalità, come se anche in tal caso non apparissse naturale che dovrebbe essere percepito di preferenza l’essenziale e non il secondario? Ma last but not least, è poi così sicuro il Bozzano di sapere cosa è l’essenziale?

Come si vede sarebbe esagerato affermare che questa ipotesi dell’«onniscienza delle cause» risponde vittoriosamente a tutte le esigenze ed a tutte le obbiezioni. Ma un argomento ancora più forte di quelli già riportati per non attribuire, a nostro modesto avviso, almeno una certa classe di fenomeni premonitori ad una deduzione razionale in base alla legge di causalità, è questo: Sino ad oggi non si è ancora trovato uno straccio di sensitivo il quale, nei veri e propri casi di fenomeni premonitorii (che richiederebbero una formidabile esplicazione di una portentosa possanza di deduzione), si sia mai accorto dello svolgersi di simile processo nella sua coscienza. Non è strano che tutti i sensitivi siano così poco... sensitivi?

Se non che ci si può obbiettare che così deve essere, per-ché, quando ci fosse il sintomo di un ragionamento anche fuga-ce, sarebbe evidentemente lecito classificare il fenomeno tra le cerebrazioni subcoscienti e non vedervi affatto un caso di premonizione. Occorre quindi distinguere tra fenomeni pseudo-premonitorii e fenomeni premonitorii genuini; e la caratteristica di questi ultimi sarebbe quella di non presentare la menoma traccia di lavorio razionale subcosciente. È una bella caratteri-stica, non c’è che dire, per dei fenomeni che si vorrebbe spiegare mediante una esplicazione quasi infinita delle capacità razionali di deduzione!

Alcuni esempi mostreranno chiaramente la differenza tra i fenomeni premonitorii genuini e quelli apparenti. Potremmo spigolare questi esempi scegliendoli opportunamente tra i casi riportati dal Myers nei “Proceedings of thè S.F.P.R.”, o tra quelli riportati nell’opera del Myers stesso già citata od in quella del Bozzano; preferiamo invece riportare dei casi tratti dal bagaglio delle esperienze personali di un intimo amico di cui possiamo rispondere tale e quale come se si trattasse di noi stessi. Chi non si fidasse può trovare nelle raccolte citate ed in altre ancora casi del tutto consimili ai seguenti:

Caso I. - «Sono sempre stato particolarmente sensibile alle perturbazioni atmosferiche; l’avvicinarsi di un temporale mi dà un senso di disagio, di malessere, di eccitazione che scompare con le prime scariche di elettricità e colla caduta della pioggia. Accade talora che, comparendo tale malessere anche qualche ora prima del temporale, io non ne comprenda sul momento la ragione; ma accade anche talaltra volta che, non potendovi essere altra causa determinante di questo malesseri ne posso de-durre l’approssimarsi di una tempesta e fare addirittura il profeta. Così, in una bella serata dell’estate 1917, nella zona di Asiago, sedendo a mensa della mia compagnia (30a Minatori), ed essendo ad un tratto sopravvenuta con particolare intensità tale condizione, annunciai ai colleghi l’imminente scatenarsi di una violenta tempesta, che la quiete e la serenità atmosferica sembravano escludere. Dopo meno di un’ora si scatenò una tale bufera che gran numero di abeti fu sradicato dalla forza del vento ed il torrente Guelpach, gonfiatosi, asportò dei tratti di strada».

Caso II. - «Il 18 maggio 1896 transitavo al tramonto per il Ponte alla Carraia a Firenze; e guardando lo sfondo dell’orizzonte verso le lontane Alpi Apuane ne rimarcai l’aspetto fosco ed acceso. Non so come, ne provai una strana impressione, ed esclamai: Che tempo da terremoti! Era una frase sciocca, per-ché di terremoti non ne avevo per anco alcuna esperienza. Ma il terremoto venne, ed abbastanza violento, due o tre ore dopo la previsione fattane».

Caso III. - «Nell’estate del 1911 mi trovavo a Viareggio ed avevo preso l’abitudine, tutti i giorni, verso le due del pomeriggio di andarmene a fare la siesta sulla rotonda dello stabilimento Felice. A quell’ora non c’era mai nessuno; ed era un vero godimento sdraiarsi sopra un sedile o su qualche cordame al fresco del maestrale che si leva a quell’ora, fumando una sigaretta, digerendo in pace e lasciandosi pervadere del senso panico e sereno del cielo e del mare all’intorno. Un giorno, mentre ero in tal modo occupatissimo a non far nulla, arrivò un ragazzetto di una diecina d’anni con tanto di lenza, e si mise coscienziosamente a pescare a pochi metri da me. Ma passarono circa tre quarti d’ora senza che il piccolo e paziente pescatore avesse preso nulla. Ad un tratto, egli tirò su la lenza per verificare se c’era ancora l’esca, ed io che sino allora, assorto nelle mie rêveries, non avevo aperto bocca mi sentii spinto a dire: Presto, presto, cala la lenza, che ora prendi il pesce. Il consiglio fu immediatamente eseguito: e già stavo rimproverando a me stesso la leggerezza con cui senza motivo mi ero lasciato sfuggire quel discorso pazzesco, quando già il ragazzo, tutto felice, tira-va su la lenza. Era stato un attimo; calare la lenza e prendere il pesce era stato tutt’uno. Il sistema parve eccellente al piccolo pescatore che, staccando il pesce dall’amo, mi supplicava: Me lo ridica, me lo ridica! Sensibilità? Onniscienza delle cause? Certo sentii, e non ragionai; e sentii così nettamente e sicura-mente da non esitare a manifestare la sensazione, soverchiando lo scetticismo della ragione, che per una volta tanto non potè predominare».

Il primo di questi fenomeni appartiene indubbiamente alla categoria delle previsioni apparenti. In questo caso la previsione è ottenuta mediante l’osservazione, l’analisi, e l’interpretazione di una speciale condizione di sensibilità. Anche nel secondo caso ci troviamo di fronte ad una forma di sensibilità, rara negli uomini, ma consueta in molti animali; mancano però in questo caso le anteriori esperienze che nel caso precedente consentivano la previsione razionale dell’evento. Nel III caso l’evento previsto si verificò a distanza di tempo così minima dalla previsione da fare includere questo fenomeno tra quelli di eccezionale sensibilità piuttosto che tra quelli premonitorii. Carattere comune di questi tre casi è che la previsione è stata fatta a poca distanza di tempo dall’evento, ed in piena coscienza normale.

Ecco ora alcuni casi di vera e propria premonizione:

Caso IV. - «Alla fine del 1917 prestavo servizio come ufficiale nella VII Sezione Fonotelemetrica, in Val Lagarina. In una delle ultime notti dell’anno sognai di trovarmi insieme ad un mio fratello ufficiale dei Bombardieri, che in quel tempo era addetto al Comando del X Raggruppamento Bombardieri, in Vicenza. Eravamo insieme alla sua mensa quando ad un tratto la luce elettrica si spense per tre volte di seguito. Era il segnale convenuto (ma da me ignorato) dell’imminente arrivo degli aeroplani nemici. Tutti si alzarono; ed io seguii mio fratello. Scendemmo le scale, ed uscimmo all’aperto. Nell’oscurità quasi completa ci avviammo correndo verso un vicino rifugio. Vi era da traversare una piazza a me ignota, costeggiata da un lato da un porticato, di cui si intravedevano gli archi. Ad un tratto di dietro una colonna sbucò una persona e, sia per la fretta che per la oscurità, urtò violentemente in mio fratello, che cadde a terra. Mi fermai, e feci per aiutare mio fratello a rialzarsi, dubitando si fosse fatto del male. Ma si rialzò subito, dicendo che non era niente, e riprendemmo la corsa, arrivando all’entrata del rifugio che già il rombo dei motori ed il fragore delle prime bombe risuonava per l’aria.

Questo il sogno, vivissimo. Talmente vivido, che ne rimasi turbato, e pensai che effettivamente fosse accaduto qualche guaio a mio fratello, ed io ne avessi avuto telepaticamente percezione. E poiché sapevo che alla Prefettura di Vicenza si trovava un vecchio amico, il Comm. Giulio Bertoldi, inviatovi dietro sua richiesta di rendersi utile prestando servizio in zona di guerra, gli scrissi per avere informazioni. Ebbi sollecita risposta, gli aeroplani erano effettivamente venuti (non era un evento eccezionale), però a mio fratello non era accaduto nulla; chi aveva sofferto invece, per minutissime scheggie di vetro ad una mano, era stato proprio il Bertoldi.

Non pensai più che tanto al sogno; e mi accingevo, verso la metà di Febbraio 1918, ad andare nell’attesa licenza, quando un imprevisto fonogramma di servizio mi ordinava di recarmi sul Piave ad assumere il comando della 1a Sezione Fonotelemetrica. Dalla Val Lagarina al medio Piave la strada passava per Vicenza, dove sostai per pernottare e riveder mio fratello. Ora, quello che accadde quella sera è inutile che lo racconti; fu il mio sogno di due mesi prima che si realizzò in tutti i suoi particolari, con la stessa identità di due proiezioni successive della stessa film cinematografica. E del sogno, e della sua identità con l’evento che si stava svolgendo, mi ricordai ed ebbi contezza appena la luce elettrica per tre volte si spense. Ho avuto altre volte esperienze consimili, ma questo è l’ultimo caso, che ricordo meglio, e che mi sembra più importante perché avendone scritto, riferendo il sogno, due mesi prima al Comm. Bertoldi, è necessario escludere l’ipotesi della paramnesia».

Questo è un autentico e tipico caso di premonizione. Qui è un intero quadro di eventi che viene preveduto, e che si ripete nella realtà del tempo lineare con meccanica ed assoluta precisione. È insomma la stessa cosa, vista due volte. Di ragionamento nessuna traccia. Vi è poi da notare che questo esempio non si svolge affatto, come sostengono l’Osty ed il Bozzano, nei limiti relativamente angusti delle vicende riguardanti le singole personalità messe in rapporto coi sensitivi. Infatti, dato il concatenamento delle azioni belliche su tutto l’immenso fronte, ed il correlativo spostamento e dislocazione dei singoli reparti nostri e nemici, prevedere due mesi prima anche lo spostamento di un solo individuo, nonché un’incursione aerea nemica in un determinato punto e proprio quell’unica sera in cui i due fratelli erano insieme, nonché il passaggio di quell’ignoto passante ed il suo sbucare dal didietro di quella colonna, coinvolgeva in realtà la conoscenza delle cause, delle azioni e rea-zioni su tutto il fronte di guerra, la connessione delle vicende di milioni di uomini, senza contare la considerazione della possibilità o meno di eventi politici all’interno, nonché delle condizioni metereologiche. E simile spaventosa opera di deduzione razionale sarebbe stata fatta senza averne coscienza, senza neppure risentire il menomo dolor di capo?

Si potrebbe dunque essere omniscienti, sapere tutto, ad eccezione di una cosa sola: di saper tutto?

Sensazione profetica del futuro ci è accaduto di avere an-che in piena coscienza normale e ci limiteremo a riferire che in un nostro articolo scritto nell’Ottobre 1914 e pubblicato nella primavera del 1915 nel 3° numero della rivista «Salamandra» parlammo esplicitamente del «futuro Congresso di Parigi» per le trattative di pace. Questo a quattro anni di distanza, come si può constatare. Ma ben altrimenti maravigliosa fu la predizione fatta su questo stesso argomento dall’iniziato A.A., di cui abbiamo parlato a proposito della trascendenza dello spazio.

Verso la fine del settembre del 1917, certamente prima di Caporetto, egli ci inviò una sua fotografia, sopra la quale a grandi caratteri e di traverso erano scritte le iniziali C.X. II, seguite ciascuna da un punto (tranne la I di mezzo), ed in fine da un punto interrogativo. Sotto stavano le iniziali del nome. Nella lettera che accompagnava la fotografia, egli ci invitava ad indovinare il significato di quella scritta misteriosa, che sembrava indicare il numero 112 scritto alla romana. Provammo, ma ogni tentativo rimase infruttuoso (e non poteva essere diversamente), e per quanto facessimo ed egli ce ne richiedesse non potemmo venire a capo di quel puzzle. Finimmo per concludere, indispettiti, che certe forme di mistero non parevano neppure di buon gusto.

Passarono gli anni di guerra ed anche una parte dei mesi dell’armistizio o pace; ed un giorno, che quasi avevamo dimenticato cotesto episodio, A.A. tornò sopra l’argomento, domandandoci se eravamo poi riusciti a decifrare il mistero. Rispondemmo che avevamo financo dimenticato quali lettere fossero, ma che conservavamo la fotografia. Rintracciatala, e portatala a lui, egli dette questa interpretazione che si riferiva mirabilmente alla riunione politica di quel tempo a Parigi: C = Consiglio, X = dieci, II = due, ossia due rappresentanti italiani al Consiglio dei Dieci; evento che si svolgeva in quel momento.

Siamo qui in presenza della predizione oracolare classica, in una forma molto meno sibillina di molti famosi oracoli dell’antichità. E si vorrà convenire che nel 1917 non era facile prevedere delle circostanze così minute delle trattative di pace.

Un altro caso di profezia veramente meravigliosa, anche esso relativo alla guerra, si manifestò in una seduta medianica. Lasciamo la parola al protagonista dei casi già riportati.

Caso V - «Mi trovavo da circa un mese a San Martino Buon Albergo, presso Verona, addetto al Comando del Gruppo di sezioni fonotelemetriche della 1a Armata, comandato dal Ten. Ing. Menotti Riccioli di Firenze, ottimo amico mio. La se-de del nostro ufficio dava sulla ferrovia, dove da settimane era un gran transito di uomini e di materiale per l’imminente ed attesa avanzata. La sera del 20 Ottobre 1918, al Riccioli prese la fantasia di fare una seduta spiritica. Il suo desiderio fu condivi-so ed accettato dal sergente e dal caporal maggiore dell’ufficio, e poiché nessuno dei tre aveva pratica della cosa insistettero perché anche io partecipassi alla seduta. Per contentarli acconsentii. Fabbricato un trespolo o tavolino di circostanza a tre gambe, ci sedemmo attorno ad esso; ma dopo tre quarti d’ora di attesa, seccato del risultato nullo, me ne andai. Gli altri tre continuarono; e la seduta deve essere stata interessante davvero, perché la mattina dopo li trovai tutti commossi, e sconvolti dall’impressione. Taluno aveva pianto per l’emozione. Mi dettero, la mattina del 21 Ottobre 1918, il verbale dove era ripor-tato il dialogo svoltosi tiptologicamente tra il Riccioli e lo spirito di «Mazzini». In questo verbale, che deve trovarsi ancora tra le mie carte del tempo, c’era preannunciata di giorno in giorno la cronaca o per dir meglio la storia di quello che stava per ac-cadere per lo spazio di oltre venti giorni. C’era la data d’inizio dell’offensiva, il passaggio del Piave, l’entrata in Vittorio Veneto, la data dell’armistizio, la data dell’entrata in Trento ed in Trieste, la data dell’armistizio tedesco, quella dell’abdicazione del Kaiser, e vi era preannunciata la rivoluzione in Germania, ecc.... Insomma un tale blocco di avvenimenti, così strepitosi, rapidi e definitivi, che, nonostante la grande nostra fiducia nell’azione che sapevamo imminente, sembrava follia sperare. Quella stessa mattina capitò il Ten. Padoa, matematico ed astronomo, che fu poi addetto all’Osservatorio di Roma, e gli narrammo il tutto. Il Ten. Padoa, molto più scettico di noi tutti, prese ad ogni modo nota delle predizioni, e dovette poi arrendersi all’evidenza dinnanzi al verificarsi prodigioso degli avvenimenti previsti. Né il dialogo-profezia si arrestava lì. A richiesta del Riccioli, «Mazzini» fece le profezie relative al dopo guerra, annunciò un periodo incerto di circa tre anni, ma escluse categoricamente (con disappunto di taluno dei presenti), l’avvento della repubblica in Italia, affermando che la monarchia avrebbe seguitato a sussistere nonostante il periodo critico.

Questi tre casi di premonizione, così diversi nella modalità dell’esplicazione (sogno, oracolo, medianità) si riferiscono alle grandi vicende belliche e politiche svoltesi negli ultimi anni; e la complessità delle cause che vi entrano in giuoco è tale che spiegare queste premonizioni con l’ipotesi dell’«omniscienza delle cause», ossia vedere in esse il risultato di una deduzione razionale sulla base della legge di causalità ci sembra impresa disperata. Notisi poi che l’ultimo esempio non si riferisce menomamente alle vicende personali di alcuno.

Fino ad ora ci siamo astenuti, del resto, dall’entrare in me-rito circa la «legge di causalità»; ma, pure astenendoci dall’addentrarci in una questione così spinosa, non possiamo tacere che il concetto stesso di causalità, di relazione di causa ad effetto, che presuppone una precedenza temporale della causa, ci sembra incomprensibile se non si accetta l’idea di un tempo «continuo», nel quale passato e futuro siano, alla pari del presente. Insomma il cercare o il credere di eludere il problema della trascendenza del tempo nella questione particolare dei fenomeni di premonizione, attaccandosi all’ipotesi dell’omniscienza delle cause e quindi della causalità ci sembra una illusione; poiché il problema della trascendenza del tempo torna ad affacciarsi inesorabile in relazione alla stessa legge di causalità.

I casi nei quali invece della successione temporale si presenta la «simultaneità» di percezione sono del resto assai numerosi; e lo stesso Bozzano ha osservato «come tutto concorre a dimostrare che le percezioni psichiche in ambiente spirituale, presentino la peculiarità di estrinsecarsi in termini di «simultaneità», contrariamente alle analoghe percezioni in ambiente terreno, le quali si estrinsecano in termini di successione». (Cfr. Luce ed Ombra Novembre 1925, pag. 560). Ed osserva ancora come tali modalità di percezione «sintetica» si realizzino in guisa eccezionale anche durante l’esistenza terrena; e ricorda il fenomeno ben noto della visione panoramica dei moribondi, i quali percepiscono subbiettivamente, in termini di simultaneità, l’intera successione degli eventi della loro esistenza.

Un altro fenomeno parimente inspiegabile con l’intervento delle sole facoltà razionali è quello presentato dai calcolatori prodigio, tipo Inaudi, i quali con una rapidità vertiginosa, quasi istantaneamente, danno il risultato di operazioni assai com-plicate da eseguire sopra numeri composti anche di un grande numero di cifre, le quali, eseguite per via ordinaria, con l’ausilio magari delle tavole di logaritmi ed anche delle macchine calcolatrici, richiedono tempo anche da parte di provetti calcolatori.

Il superamento delle ordinarie limitazioni del tempo da parte della coscienza umana si delinea dunque e si impone in casi numerosi e svariati: fenomeni di premonizione vera e pro-pria, in sogno, da svegli, per via medianica e per via esoterica, simultaneità di percezione, visione panoramica dei moribondi, visione sintetica degli ambienti spirituali, istantaneità di calcolo da parte dei calcolatori prodigio, istantaneità di trasmissione della gravitazione. La questione della trascendenza del tempo si presenta con una esigenza ed insistenza che sarebbe vano non riconoscere.

I fenomeni premonitorii tipici presentano poi, come abbiamo già rilevato, l’importante caratteristica della ripetizione così assolutamente esatta, anche nei menomi particolari del quadro degli eventi preveduti, da dare al sensitivo l’impressione di vedere due volte la stessa cosa. Questa precisione assoluta ed il fatto che nessun sensitivo ha il senso di percepire per mezzo di deduzioni razionali, ma sibbene di vedere semplicemente, come se assistesse all’evento stesso, escludono, sempre a nostro modesto avviso, la teoria dell’ “omniscienza delle cause” dal novero di quelle che possono spiegare con una certa plausibilità i fenomeni premonitorii; ed escludono non solo la necessità ma la convenienza di ricorrere ad un’ipotesi riconosciuta inconcepibile dagli stessi suoi sostenitori.

L’unico merito di questa ipotesi, in definitiva, risulta quel-lo di permettere a coloro che, come i materialisti, accettano il postulato della realtà assoluta dello Spazio e del Tempo, quali son percepiti dagli uomini, di restare tenacemente abbarbicati a cotesto loro feticcio.

Prima di accomiatarci dal lettore dobbiamo chiedergli scusa di aver troppo lungamente abusato della sua pazienza intrattenendoci così ampiamente sopra la questione della trascendenza dello spazio e del tempo. In cambio, prendiamo solenne impegno di non tornare più sull’argomento, neppure se ci fossimo tirati per i capelli.

Non è stato nostro proposito, invero, riaccendere la pole-mica svoltasi in queste pagine tra l’Amato ed il Bozzano, né di entrare in lizza contro l’uno o contro l’altro; ma semplicemente, astrazion fatta dalle persone, abbiamo inteso apportare impersonalmente esperienze e ragioni a sostegno della concezione spiritualista ed in opposizione alle affermazioni o denegazioni arbitrarie di coloro che sostengono la tesi ristretta e materialista della sola reale esistenza di uno spazio ed un tempo assoluti. E, poiché la questione della “quarta dimensione” e quella dell’ “eterno presente” non sono questioni da decidersi per licitazione privata tra due contendenti, ma questioni che interessano tutti ed in particolare i lettori di “Mondo Occulto”, ci è sembrato non solo opportuno quanto legittimo di interloquire, per mostrare l’inconsistenza di asserzioni che, data l’autorità di chi le sostiene, corrono l’alea di essere accettate dai molti un po’ inclini a giurare in verba magistri.

Nei trattati di fisica ed in quelli di fisiologia si sorvola sopra il mistero che avvolge il fenomeno del raddrizzamento delle immagini, che riporterebbe immediatamente ad un ribaltamento in uno spazio a quattro dimensioni; ma il trattare di questo problema ci avrebbe obbligati ad entrare in un campo in cui non ci sentiamo sufficiente competenza; ce ne siamo quindi astenuti per evitare che potesse essere rivolto, anche a noi, l’ammonimento di Apelle al suo ciabattino: Ne sutor ultra crepidam.

Del resto, anche trattando più che altro del lato matematico e fisico della questione in cui non manca, a noi, una qualche competenza, ci siamo astenuti dall’apportare nuove tesi e teorie, e ci siamo limitati a sostenere e mostrare che bisogna lasciare aperta quella porta che il Bozzano e i materialisti vogliono sbarrare per forza. Sottomettiamo al giudizio dei lettori le ragioni che abbiamo addotto; ci si dimostri che non son valide, e renderemo di buon animo grazie a chi ci toglierà dall’errore. Ma, ci sia consentito di prevederlo, abbiamo gran timore che ai nostri argomenti non si possa rispondere contestandoli razionalmente con argomenti solidi, pertinenti e ragionevoli e che solo ci si risponda con affermazioni gratuite, discorsi a vanvera, divagazioni, appelli alla morale, alla santa causa e, peggio ancora, con reazioni irrazionali e sentimentali. Se questo avvenisse... ci sentiremmo, evidentemente, ancora più sicuri di avere ragione.

Nelle scienze logico-sperimentali la sovranità Spetta all’esperienza, e di fronte ai fatti ed alla verità non possono esistere cause da difendere, né sono ammissibili i partiti presi. Quando i pitagorici scoprirono che la diagonale del quadrato era incommensurabile col lato, la loro concezione geometrica dei segmenti (costituiti da un numero finito di punti) che stava alla base della loro geometria e quindi anche della loro filosofia, ne venne infirmata, e fu necessario abbandonarla. Quando, dopo venticinque secoli di studii, si é riusciti a mettere in chiaro la vera natura del rapporto della circonferenza al suo diametro, tutti coloro, che si ostinavano a volere risolvere il problema della quadratura del cerchio con la squadra e con il compasso e con equazioni a coefficienti razionali, dovettero desistere dalle loro pretese.

In simil modo, oggi si affaccia, attraverso ad Einstein, la necessità di concepire l’universo finito ed a quattro dimensioni, assimilabile solo approssimativamente ad un mondo a tre dimensioni, in quel modo che una piccola porzione di superficie sferica è assimilabile ad una porzione di piano, talché il principio di Galileo e la teoria newtoniana son vere solo approssimativamente.

Ed in simile modo, ancora, i fenomeni di cui ci siamo intrattenuti fanno presentire la necessità di fare un passo ancora più lungo, di distaccarci dalla concezione empirica, grossolana e consuetudinaria dello spazio e del tempo assoluti, e di lasciare che nella coscienza, in sostituzione della visione frammentaria ed analitica del tempo e dello spazio, affiori la percezione sintetica, la visione illimitata, ciclica del terzo occhio, l’occhio di Shiva, l’occhio ciclopico, titanico di coloro che non sono soltanto terrigeni, ma, come i ciclopi esiodei e gli iniziati orfici, sono figli di Urano e di Gea, della madre terra e del cielo stellato. Ci è lecito, dunque, far nostre le profonde parole del sessantaquattresimo capitolo del «Libro dei Morti»: “Io sono l’ieri, l’oggi e il domani, ed il potere della rinascita. Conosco gli abissi è il mio nome”.

 

 

 

 

 

 



* Mondo Occulto - Anno VI, Marzo-Aprile 1926, n. 2.


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Al sole

 

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il meraviglioso dispensatore di vita

e tu vivi dell’incommensurabile amore

che diffondi tra i tuoi figli attoniti e sonnolenti

senza mai cessare

nella luce e con la luce

di crescere nel cielo

in beneficio dei figli tuoi

potentissimo padre

 

Oggi nel giorno di Mercurio alato