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Associazione Culturale IGNIS

I libri di IGNIS

 

Il mistero della spirale

Scrive Arturo Reghini in “Trascendenza di Spazio e Tempo”: “Per conto nostro non ci è possibile dimenticare l’esperienza veramente eccezionale di cui avemmo la ventura di essere fatti partecipi circa quindici anni or sono. Un iniziato, che designeremo con le iniziali A. A., preso un foglio di carta, vi disegnò sopra una spirale ed accanto ad essa la spirale simmetrica (l’una destrorsa, l’altra sinistrorsa), e poi ci chiese se riuscivamo a concepirne delle altre di altra natura. Rispondemmo naturalmente di no. Ebbene, egli disse: guarda. Guardammo, e la nostra mente vide due altre spirali distinte tra loro e dalle precedenti, come la destrorsa lo era dalla sinistrorsa. Fu un lampo. Per quanto abbiamo cercato, dopo, di riafferrare o di richiamare alia memoria questa visione trascendentale (o se proprio si ritiene vantaggioso di chiamarla cosi, questa allucinazione), non siamo mai riusciti a riportare alia nostra coscienza quello di cui aveva riconosciuto l’evidenza, la naturalezza e la indiscutibilità. Alia nostra richiesta di una seconda rappresentazione, A.A. rispose bastava avere avuto una volta nella vita tale esperienza. Quanto abbiam raccontato, naturalmente, accadde essendo noi perfettamente svegli, sani, a posto, tranquillissimi e in piena vita “normale”. (Arturo Reghini, Paganesimo, Pitagorismo, Massoneria, Messina, 1986).

Scrive Platone “…avviene che l’intuizione e l’intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi che può fare un uomo”. (Lettera VII 341, cd – 344, b c).

Ebbene, quanti e quali sacrifici o meglio quale percorso accidentato abbia dovuto battere Arturo Reghini per giungere all’intuizione e ad intelligere la visione della “spirale” lo abbiamo scritt ne “Il figlio del Sole”, dove abbiamo raccontato la Vita e le Opere del matematico e filosofo pitagorico. (v. Il figlio del sole https://www.amazon.it/dp/1080719105 )

Vediamo adesso di fare un piccolo passo avanti. Non sarà facile e per poterlo fare occorrerebbe possedere se non tutta parte della conoscenza iniziatica dei Maestri. ARA, in una sua celebre Massima (v. Amedeo Armentano, Massime di Scienza Iniziatica, Ancona:  https://www.amazon.it/dp/1081198117 ) ci ha assicurati che è possibile “conoscere” e che per giungere alla sintesi occorre partire dall’analisi. Ossia le cose si manifestano in maniera composta e dal composto si risale all’unità del semplice.

La “risalita” è un’operazione che l’anima può realizzare anche in vita benché si compia in maniera definitiva solo al momento della “separazione” dal corpo materiale, ossia al momento della cessazione della vita. Ed è lo stesso Reghini a ricordarci che l’esperienza può essere fatta “anche” in vita. Esperienza e conoscenza sono inseparabili, “la conoscenza è data dall’esperienza; ed ognuno possiede conoscenza delle cose in proporzione della sua diretta esperienza. Perciò le credenze e le opinioni dei profani dal punto di vista della conoscenza si equivalgono. Credere o pensare la verità non vale molto di più che credere o pensare il falso; perché non si tratta né di credere, né di pensare; ma di conoscere. Una fede vale l’altra, una teoria vale l’altra, la conoscenza è unica,” (op. cit.)

In poche parole conoscere significa, in via prioritaria, aver fatto l’esperienza gnoseologica dell’unità. Ed è qui che le menti e le teorie di molte celebrità della parola scritta sono naufragate sugli ignoti scogli di un periglioso mare.

Nella lunga storia della conoscenza umana sono poche le menti metafisiche che hanno rasentato il vero, a mio vedere si contano sulle dita di UNA mano.

Non pretendo infine di dare una spiegazione su ciò che Reghini si limitava a descrivere come l’esperienza simile a “un lampo” e quindi impossibile da fissare ed esplicare. Quel che è più sorprendente è che il “basta una sola volta” di Armentano è alquanto simile al “non nutrite più speranza” dantesco dal momento che la ricerca dell’“essenza” è più che difficile, è quasi impossibile. Ed è impossibile perché nell’ “essenza” si occulta il mistero della vita e della morte.

Di fronte a questo mistero sia ARA sia Reghini arrestarono il primo la parola, il secondo la curiosità.

Anche se avessimo avuto la grazia di una illuminazione, non sapremmo che parole impiegare sul mistero della vita e della morte, confessiamo la nostra ignoranza, ma leggiamo sempre con passione ed interesse i grandi trattati filosofici che si occuparono dell’argomento.

Infime vogliamo concludere con ciò che diceva Platone sullo stesso argomento (l’unico che ci sembra aver parlato con prudenza scienza e sapienza) in alcune frasi del celebre dialogo del Fedone:

“…credi tu che si conosce la realtà in sé delle cose per mezzo dei sensi del corpo, - chiede Socrate - oppure reputi che colui il quale si propone di conoscere il vero per mezzo dell’attività pura della ragione si avvicinerà più di ogni altro alla perfetta conoscenza di esso? E a questa perfetta conoscenza può pervenire soltanto colui che alla verità si volge con la sola mente, e non sorregge la sua ragione con alcun senso del corpo, ma solo in sé e puro, con la mente pura, cerca di attingere il vero, astraendosi, più che sia possibile, dagli occhi, dagli orecchi, dal corpo tutto, poiché questo sconvolge l’anima e non le permette di acquistare verità e sapienza.”

Socrate conclude con questa solenne dichiarazione: “Pare che ci sia come un sentiero a guidarci verso la verità, perché fino a quando abbiamo il corpo, e la nostra anima è mescolata con un siffatto estraneo, noi non riusciremo mai a raggiungere ciò che desideriamo. Infatti il corpo ci dà infinite brighe per la necessità del nutrimento; e se poi esso si ammala, nuovi impedimenti si frappongono alla nostra ricerca del vero. È ancora il corpo che ci riempie di amori, di passioni, di terrori, di immaginazioni, di vanità infinite, per cui non ci riesce di fermare il pensiero su cosa alcuna finché siamo in sua balìa. […] Il peggio è poi che se per un momento riusciamo ad essere liberi dal suo servizio e ci proponiamo di meditare su qualche cosa, ecco che d’un tratto (il corpo) si pianta nel mezzo della nostra meditazione e tutto turba e scompiglia disanimandoci, così che per causa sua non siamo più in grado di contemplare la verità. Resta, quindi, dimostrato che, se noi vogliamo pervenire alla visione pura del vero, dobbiamo distaccarci dal corpo e contemplare le verità con la sola anima.”

Ro Se


Il simbolismo dei numeri

Compendio metafisico

 

Il numero due nasce per partecipazione della dualità: noi sappiamo cosa è il due perché ce lo spiega chiaramente l’aritmetica, il due è il risultato di un’addizione, uno più uno, e la dimostrazione fatta con l’uso del pallottoliere ci mostra una pallina accanto a un’altra pallina, l'unione viene definita simbolicamente con la parola “due”.

Tale rappresentazione però va al di là della semplice aritmetica, interessa la dialettica, entra nel dominio della scienza naturale e contiene un simbolismo, perché a partire da Pitagora all’unione di sassolini sulla spiaggia del mar Jonio in Calabria, fu dato un certo nome, due, tre, quattro ecc. e questa attribuzione di un nome non è altro che una convenzione simbolica, in quanto dire due, tre o quattro serve unicamente a far risvegliare nella mostra mente una certa relazione tra la pronuncia di detto nome e il corrispondente simbolo grafico.

Se diciamo quattro, noi sappiamo in partenza cosa vogliamo dire e a cosa ci riferiamo, la nostra intelligenza rappresenta mentalmente e graficamente il numero quattro, o tradizionalmente ci mostra i quattro sassolini sulla spiaggia posti uno accanto all’altro, ma se diciamo un milione, che è costituito non solo simbolicamente da un insieme molto grande di sassolini, ci domandiamo: per quale motivo la nostra mente balbetta e non è in condizione di tracciare una immagine e ottenere una rappresentazione? Bene che vada, se si tratta di una persona erudita, concepisce quella  cifra con i fatidici sei zeri posti accanto al numero. Bene che vada! Tutto ciò dimostra una cosa sola: che la mente umana è molto limitata. E che nel migliore dei casi la memoria dell’uomo quando viene esercitata può toccare livelli molto elevati, ma non tutti i livelli.

E quindi, procedendo con il ragionamento mi chiedo: in che modo l’uomo può concepire o rappresentare la sua anima? Ammesso naturalmente e in via prioritaria, che sia convinto di due cose: che l’anima (e quindi anche la sua anima) esista e non solo che esista ma che sia immortale.

Visto che l’uomo ha molte difficoltà nella conoscenza della legge dei numeri, la cui scienza regola e spiega numerosi segreti della vita in generale e della vita dello stesso uomo, in che modo l'uomo pretende o come crede di potersi muovere tra le leggi che disciplinano la vita, la morte la sopravvivenza e l’immortalità dell’anima?

Proseguo con altre domande: è l’uomo in condizione di attribuire un numero a quei tre grandi misteri che vennero definiti vita, morte, anima?

È un caso che Pitagora, il più grande di tutti i maestri e da tutti riconosciuti come il più grande, non scrisse trattati filosofici, ma si limitò ad insegnare agli alunni della Schola Italica le leggi dell’aritmetica?

Cosa in realtà si nascondeva dietro il semplice uso di un pallottoliere, o dietro la grafia di segni che videro la nascita dei numeri, nella Schola di Crotone?

Tante volte mi sono chiesto il perché una grande mente come quella di Arturo Reghini espresse il meglio delle sue capacità, in un’opera difficile e colossale come quella “Dei Numeri Pitagorici” ( https://www.amazon.it/dp/B084DFY5MV )e alla quale solo una limitatissima schiera di lettori e di studiosi è in condizione di accedere.

Qualche bene informato potrebbe anche dirmi che Reghini si prodigò con altrettanta energia e sapienza nelle due riviste da lui dirette: Atanòr e Ignis.

Si, è vero, ma la somma di conoscenze e di energie profuse, considerato che Reghini continuò a dedicarsi alla sua opera di matematica negli ultimi anni della sua vita a Budrio, dove si era rifugiato durante la guerra, fu molto alta a favore dell’opera sui numeri aritmetici e geometrici. Reghini non era l’uomo che faceva le cose a casaccio e tutto ciò, secondo me, sulla base della mia conoscenza degli scritti di Reghini,sta tuttora alla base di un mistero. Probabilmente questo mistero ne occulta uno ancora più grande. (Vedi: Roberto Sestito, Il figlio del sole: vedi: https://www.amazon.it/dp/1080719105 )

Ritorno quindi all’assunto di partenza: se Pitagora profuse la sua scienza e la sua filosofia nei numeri rappresentandoli graficamente nella sua Scuola di Crotone, in che modo il pitagorico Reghini ha voluto insegnarci la scienza dell’anima attraverso i numeri?

Non ho la pretesa di rispondere in maniera esauriente a questa domanda: ma qualche accenno si può fare.

L’uno partecipa dell’unità, come il due della dualità, il tre della triade e così via dicendo. Noi abbiamo appreso fin dalle scuole elementari le nozioni basiche dell’aritmetica, ma nessuno ci ha mai spiegato cosa è l’UNO, cosa significa UNO, cosa vuol dire e a che cosa si riferiscono “i numeri interi considerati dall’aritmetica pitagorica (che) sono stati fatti da Dio mentre il resto è opera dell’uomo” come afferma categoricamente Reghini. Indagare quindi la proprietà dei numeri interi è addentrarsi nell’abisso dell’interiorità dell’Essere ossia, come scrive sempre Reghini nel “Simbolismo e Filologia” in quell’essere “che è limitato nella sua unicità. L’unità è unica senza altro né altri. La dualità e la molteplicità sono apparenze che non distruggono l’unicità dell’Essere”.

In parole più contenute l’Uno è l’Essere e nell’Essere si occulta il grande mistero della vita e della morte.

(ro se)

 

 

L’ultimo racconto di Socrate

 

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,

qual si fé Glauco nel gustar de l'erba

che'l fé consorto in mar de li altri dèi.

Dante, Paradiso, I, 67-69

 

Ciò che un uomo ha da dire nelle ultime ore della sua vita merita attenzione, tanto più se quell’uomo è Socrate che, in car­cere, attende la morte conversando con amici pitagorici. Si è già lasciato alle spalle il mondo, il testamento filosofico l'ha già fatto: ora è in quieta comunione con la sua verità. È, questa, la chiusa del Fedone (107 d-115 a) ed è espressa in forma dì mito. Parrà strano, ma innumerevoli commentatori non si sono presi la briga dì analizzarla a fondo, accontentandosi di estrarne qual­che pia affermazione generale sulle ricompense che attendano l'anima. Eppure si tratta di un esposto meditato e complesso, attribuito a un’autorità che Socrate (o Platone) preferisce non nominare e rivestito di una curiosa veste fisica. Vale la pena di accettare il suggerimento di Platone di prestarvi la dovuta at­tenzione. Socrate sta entrando quietamente nel mondo di là, ne è già un abitante, e le sue parole rappresentano, per così dire, un rito di passaggio:

«“E si dice così: che dunque, appena uno cessa di vivere, il suo demone, quello die lo ha avuto in sorte durante la vita, prende a menarlo in un certo luogo; quando poi, quelli che so­no stati ivi radunati, sì siano lasciati giudicare, allora bisogna che di lì passino nell'Ade, e per guida hanno appunto colui al quale è stato assegnato di condurre le anime da codesto luogo nell'Ade. E dopo subita colà quella sorte che debbono subire e aspettato quel tempo che devono aspettare, un'altra guida gli riconduce qua; e questo avviene entro molti e lunghi periodi di tempo. E la strada non è come dice il Telefo di Eschilei

...semplice via conduce all’Ade,

dice colui; e invece a me pare che non sia né semplice né una sola; altrimenti non bisognerebbero guide; né alcuno mai sba­glierebbe per andare in alcun luogo se la strada fosse una sola. In realtà pare ci siano diramazioni e biforcazioni parecchie; e dico questo argomentandolo dai sacrifici e dalle cerimonie che usano qui. Dunque, l'anima buona e intelligente segue il suo demone, o non ignora la sua sorte e condizione presente; ma quella che è tuttavia desiderosa del corpo, come già dissi prima, per lungo tempo è conturbata e agitata dalla passione di quello e della regione visibile; e alla fine, dopo molto lottare e molto patire, trascinata a forza e a stento dal demone che le fu asse­gnato, se ne va via. E, giunta dove sono le altre, l'anima impura e che ha commesso qualche cosa di impuro o perché si sia con­taminata -di uccisioni inique o abbia compiuto altre male azioni sorelle a queste e di anime sorelle; quest’anima, dico, ognuno la fugge e la cansa, e nessuno le vuol essere compagno e guida, e tutta sola se ne va errando in gran pena e incertezza fino a che non siano trascorsi quei certi periodi di tempo dopo i quali per forza è menata via alla sede che le spetta. Invece, l'anima che ha trascorsa la propria vita con purità e temperanza, trovati a com­pagni e guide degli dèi, ecco che sùbito se ne va ad abitare ognu­na nel Luogo che le conviene. Vi sono poi nella terra molti e mirabili luoghi; ed essa stessa la terra, secondo che un tale riuscì a persuadermi, non è né così fatta né così piccola com’è rite­nuta da coloro che ne sogliono ragionare”,

«E Simmia:"Che cosa vuoi dire, “disse” o Socrate, con que­sto? Perché veramente della terra anch’io ho sentito parlare più volte; non però al modo che persuade te. E perciò ascolterei volentieri

«"Ma ai, o S inuma; né credo ci voglia arte di Glauco a espor- ti le cose come io me le figuro, Piuttosto, dimostrare che sono vere, questo mi pare più difficile che se avessi l’arte di Glauco; oltre che, forse, nemmeno sarei capace; e, anche se fossi, la vita che mi rimane, caro Simmia, non credo basterebbe alla lunghez­za della dimostrazione. In ogni modo, dirti la forma della terra quale io ho potuto immaginarmi che sia, e i suoi luoghi, non ho nessuna difficoltà

«“Bene, “disse Simmia” anche codesto mi basta.

«”Io dunque, diss’egli, anzi tutto mi sono persuaso di que­sto, che se la terra è collocata nel mezzo dell’universo ed è sfe­rica ella non ha bisogno, per non cadere, né di aria né di alcun altro appoggio dì tal genere, essendo sufficiente a sostenerla il fatto che l’universo è tutto eguale da ogni pane a se stesso e che la terra è per se stessa perfettamente equilibrata. Infatti, una cosa equilibrata, posta nel mezzo di un’altra che sia eguale a se stessa, non potrà mai inclinarsi né un po’ più né un po’ meno <1a nessuna parte; e, trovandosi sempre in una condizione di perfetta eguaglianza, rimarrà ferma al suo posto senza veruna inclinazione. Anzi tutto, dunque, ” egli disse " io mi sono per­suaso di questo

« “ E con ragione” risponde Simmia.

« " Inoltre, ” disse “ credo che la terra sia qualche cosa di mol­to grande per se stessa, e che noi, dal Fast alle colonne di tracie, abitiamo soltanto una sua piccola parte; e abitiamo intorno al mare Mediterraneo come formiche o rane intorno a una palude; e altra gente molta abita altrove in molti altri luoghi simili a questo. Perché vi sono da ogni parte intorno alla terra molte cavità, e diversissime l'una dall’altra così di forma come di gran­dezza, nelle quali confluiscono insieme l’acqua la nebbia e l'aria: ma essa la vera terra si libra pura nel cielo puro dove sono le stelle, il quale la più parte di coloro che si occupano di queste cose chiamano etere; e l'acqua la nebbia e l’aria sono un sedi­mento di questo ètere, e insieme si riversano continuamente nel­le cavità della terra. Ora, noi che abitiamo queste cavità, non ce ne accorgiamo, c crediamo di abitare in alto sopra la terra: allo stesso modo di imo il quale, abitando in mezzo alla profon­dità del mare, s’immaginasse di abitare su la superficie, c veden­do, attraverso l’acqua, il sole e le altre stelle, credesse cielo il mare; e non essendo mai giunto, per sua inerzia e debolezza, su la superficie del mare, non avesse mai osservato, come avrebbe potuto emergendo dal mare e levando su il capo verso le regioni che abitiamo noi, di quanto queste sono più pure e più belle di quelle dì chi abita nel mare, e non ne avesse mai neanche sentito parlare da altri che le avesse vedute. Ebbene, anche a noi, credo, è capitato precisamente lo stesso: ché, mentre abitia­mo in una cavità della terra, crediamo di abitare in alto sopra rii essa; e l'aria la chiamiamo cielo perché ci pare che attraverso questa, quasi fosse cielo, facciano lor cammino le stelle. Ed è, ripeto, proprio la stessa cosa: anche noi, per nostra debolezza e inerzia, non siamo capaci di passare attraverso l’aria fino alla sua sommità; e infatti, se uno riuscisse a spingersi fin su all’estremo lembo dell’aria, o, messe le ali, vi giungesse volando; colui ve­drebbe, levando il capo fuori dell’aria, allo stesso modo che qui da noi i pesci levando il capo fuori del mare vedono le cose no­stre, così vedrebbe anche le cose di lassù; e se la natura sua fosse capace di sostenere codesta visione, riconoscerebbe che quello è il vero cielo, quella la vera luce e la vera terra. E in verità que­sta terra nostra e le pietre e tutta quanta la regione che noi abi­tiamo, sono guaste e corrose come le regioni di dentro il mare sono guaste e corrose dalla salsedine; e nel mare non nasce cosa alcuna che abbia pregio, e nulla v’è, diciamo pure, che sia perfetto, bensì vi sono scoscendimenti e sabbie e fango senza fine, e pantani dovunque sia anche terra, cose insomma che neppure sono da mettere a confronto con le bellezze dì qui; e a loro volta le bellezze di lassù anche meglio dovranno apparire dì gran lun­ga superiori a queste nostre di qui. Dunque, o Simmia, se anche dire una favola è bello, vai bene la pena che tu ascolti come sia­no le cose sopra la terra sùbito al di sotto del cielo ",

«Ma certo, - rispose Simmia - noi avremo gran piacere di ascoltare questa favola, o Socrate.

«Anzi tutto dunque, o amico, egli riprese, dicono questo, che la vera terra, chi la guardi dal l’alto ha l'aspetto delle nostre palle di cuoio a dodici pezzi, iridescente, e come intarsiata di diversi colori; e di codesti colori perfino quelli che adoprano i pittori qui da noi sono immagini appena. E tutta quanta la terra lassù è colorata di colorì siffatti, c assai più rilucenti e più puri di questi di qui; e parte infatti è porporina, di meravigliosa bel­lezza, parte ha lo splendore dell’oro, parte, tutta quella ch’è bianca, è più bianca del gesso e della neve; e così dico di tutti gli altri colori che la colorano nel rimanente, che sono anche di più e più belli di quanti mai noi ne abbiamo veduti. E le stesse cavità della terra, ripiene come sono di acqua e di aria, presen­tano lassù un loro colorito particolare: cosicché, rilucendo ancor esse tra mezzo la iridescente varietà di tutti gli altri colori, la superficie della terra apparisce alla vista come un’unica ininter­rotta iridescenza. Analogamente a questo suo aspetto crescono ivi i suoi prodotti, e alberi e fiori e i lor frutti; e così medesima­mente le montagne e le pietre vi sono levigate e trasparenti, c quindi i loro colori hanno più vivo splendore; e di codeste pie­tre e montagne anche quelle petruzze che qui da noi hanno sì gran pregio non sono che frammenti, sarde diaspri smeraldi e altre simili; e insomma non c’è niente lassù che non sia della stessa vista di queste nostre gemme e anche più bello di queste. E la ragione è che lassù codeste pietre sono pure, e non rose né guaste, come queste di qui, da putredine e da salsedine a cagio­ne dei sedimenti che qui confluiscono e posano, e che alle pietre e alla terra, come pure agli animali e alle piante, ingenerano deformità e malattie. La terra medesima riceve bellezza da tutti questi ornamenti, come anche dall’oro e dall’argento e da tutti gli altri metalli di simil genere: tanto più che quivi, per loro propria e naturale disposizione, si vedono allo scoperto, e ce n'è gran quantità, e sono grandi e disseminati da ogni parte: cosic­ché a mirarla codesta terra è davvero uno spettacolo di spettatori beati. E vi sono esseri viventi c molti e di specie diverse, e anche uomini; e gli uomini abitano alcuni verso l’interno della terra, altri su le rive dell'aria come noi su le rive del mare, altri in isole non lontane dal continente e circondate tutt’intorno dall’aria; e, in una parola, ciò che per noi, cioè, dico, per la consuetudine nostra, è l’acqua e il mare, per quelli di lassù è l’aria, e dò che per noi è l’aria, per costoro è l’ètere. E le stagioni hanno ivi tal temperanza che non vi sono ammalati; e gli uomini non salo vi campano assai più tempo che qui, ma anche, per la finezza della vista dell’udito dell'intelligenza e in genere di tutte le altre fa­coltà, sono alla stessa distanza da noi che la purezza dell’aria dal­la purezza del l’acqua e la purezza dell'ètere da quella dell’aria. E inoltre vi sono boschi sacri agli dèi e templi dove gli dèi abi­tano realmente; e vi sono oracoli e divinazioni e contatti diretti con gli dèi, e insomma personali comunioni di essi stessi gli uo­mini con essi stessi gli dèi, E anche il sole la luna e le stelle si veggono da codesti uomini direttamente quali sono in realtà; e così essi godono di ogni altra beatitudine che è conseguenza del­le cose sopra dette.

«Dicono dunque che la terra nel suo insieme sia cosi, e così siano le cose intorno alla sua superficie. Dentro di essa poi, tut­t’intorno, e in corrispondenza alle sue cavità, sono molte regio­ni, alcune più profonde e più aperte di questa che abitiamo noi, altre più profonde ma con minore apertura; e ce n'è di quelle che hanno minore profondità di questa nostra e sono più estese. Tutte queste regioni sono perforate in più parti da sotterratici ora più stretti ora più larghi che comunicano fra loro; e vi Mino appunto vie di comunicazione dove scorre molta acqua da una regione all’altra come da un bacino in altro bacino; e vi sono sotto la terra smisurate masse di fiumi perenni e di acque calde e fredde, e molto fuoco, e grandi fiumi dì fuoco, e molti anche di liquido fango, ora più chiaro ora più limaccioso, come in Sicilia quei fiumi di fango che scorrono davanti la lava, ed essa stessa la lava. E di codesti fiumi si empiono via via tutte le regio­ni, secondo che in ogni regione si riversi via via il flutto delle correnti. E tutte queste acque le agita in su e in giù come una specie di altalena che è dentro la terra. E questa altalena c do­vuta, io credo, a questa cagione. Una delle voragini della terra, oltre che fra tutte le altre grandissima, anche attraversa la terra tutta quanta da una estremità all’altra; ed è quella voragine di cui parla Omero quando dice

lungi, sotterra, dove profondissimo un baratro s'apre

e che anche altrove Omero e molti altri poeti hanno chiamata Tartaro. Di fatti in questa voragine confluiscono tutti i fiumi, e da questa di nuovo tutti quanti refluiscono fuori; c ognuno di questi fiumi diviene di volta in volta della stessa natura della terra in cui si trova a scorrere. Ora, la cagione di siffatto confluire e refluire di tutte le fiumane dal Tartaro è questa, che laggiù tutto questo umore non ha né fondo né base; e quindi oscilla e ondeggia in su e in giù, e anche l’aere e il fiato die gli sono d’attorno fanno lo stesso, perché sono tratti a seguirlo sia quando si spinge verso le regioni della terra che sono dalla parte di là, sia quando sì spinge verso le regioni di qua: e, come ac­cade di chi respira che il fiato sempre va e viene fluendo senza interruzione, così anche là questo fiato che oscilla insieme con l’umore produce venti terribili e sterminati entrando e uscendo. Quando dunque la massa d’acqua si ritrae verso la regione che la gente, come sai, chiama giù in basso, ecco che si riversa attra­verso la terra in que’ luoghi lungo le correnti che sono da quella parte, e le riempie come riempiono lor Canali quelli che attingono acqua; e quando poi recede di là e rompe dalla parte no­stra, allora empie le fiumane che sono di qua; e queste, come quelle, riempite, scorrono per i lor condotti attraverso la terra, e, giunte in quei luoghi ai quali ognuna s’è aperta la sua via, formano mari e laghi e fiumi e fonti; e poi di nuovamente si sprofondano giù sotto la terra, et dopo aver percorso, quale re­gioni più estese e di più quale meno estese e di meno, si river­sano di nuovo nel Tartaro, alcune molto più giù del punto da cui l’impeto dell’altalena te sospinse in alto, altre meno, ma tutte sboccano in un punto più basso di quello da cui sgorga­rono; e ce n'è che sboccano dalla parte opposta a quella da taxi ruppero fuori, altre dalla stessa parte; e ce n’è di quelle che, dopo fatto a dirittura tutto intorno il giro della terra, rivolgen­dosi intorno ad essa o una o più volte a modo di spirale come fanno i serpenti, discese il più possibile in giù, imboccano di nuovo nel Tartaro.

«Ed è possibile scendere giù in direzione di una parte e dell’altra fino al centro; ma non oltre il centro; perché, per cia­scuna delle due serie dei fiumi, viene a trovarsi in salita quella parte che discende al centro dal lato opposto.

«Di questi fiumi dunque ce n’è parecchi altri e grandi e di natura diversa; ma, fra questi molti, ce n’è quattro dei quali il maggiore, che scorre tutto intorno alla terra più lontano dai cen­tro, è quello chiamato Oceano; dirimpetto a questo, e scorren­do in senso contrario, c’è l’Acheronte, il quale attraversa luoghi deserti, e poi, inabissandosi, come sai, sotto la terra, giunge alla palude Acherusiade: quivi convengono la più parte delle anime dei morti, le quali, dopo rimaste colà quello spazio dì tempo che a ciascuna è destinato, alcune più lungo altre più breve, sono rimandate di nuovo nel mondo a rigenerarsi in forme di esseri viventi. Un terzo fiume scaturisce nel mezzo tra questi due, e, vicino alla sua scaturigine, dilaga in luogo ampio e riarso da motto fuoco, c’è una palude più vasta del nostro mare, ribol­lente d'acqua e di fango; dì là poi muove in giro, torbido e fan­goso, e, serpeggiando per entro la temi, passa per altri luoghi finché giunge a una estremità della palude Acherusiade, ma sen­za mescolare con quella le sue acque; e, dopo fatti più giri a spirale sotto la terra, imbocca nei Tartaro, ma in un punto più basso della sopraddetta palude. Questo fiume è quello che chia­miamo Piriflegetonte; del quale sono come frammenti anche quelle colate di lava che erompono fuori sopra la terra, dovun­que trovino una via d'uscita. Dirimpetto a questo scaturisce il quarto fiume: il quale dapprima dilaga, come dicono, in una regione orrida e selvaggia e che ha da per tutto il colore del ciano, ed è quella regione che chiamano Stigia; e la palude che fa questo fiume imboccandovi la chiamano Stige. Questo fiume, dopo imboccato in codesto luogo e attinte quivi nell’acqua cer­te sue orribili forze, si sprofonda sotto terra, e, girando a spirale, scorre in senso contrario al Piriflegetonte e con esso s'incontra nella palude Acherusiade dal lato opposto. Neppur questo fiu­me mescola con altra acqua le sue acque; e anche questo, dopo girato in cerchio, si getta nel Tartaro dal lato opposto al Piri­flegetonte. II suo nome, come dicono i poeti, è Cocìto,

«Questa dunque è la forma e la natura della terra. Ora, quando i morti giungono al luogo dove è menato ognuno dal suo demone, per prima cosa si sottomettono al giudizio; e si distin­guono coloro che hanno vissuto bene e santamente e quelli che no. E quelli i quali si riconosca abbiano tenuta nella vita una via dì mezzo, giunti alle rive dell'Acheronte, salgono su quelle navicelle che sono là appunto per loro, e arrivano così alla pa­lude Acherusiade; e quivi dimorano, e, scontando lor pene, sì purificano e sciolgano delle colpe se mai ne hanno commesse, e delle buone azioni ricevono premi ognuno secondo il suo me­rito. E quelli i quali siano riconosciuti in istato di inespiabilità per la gravezza dei loro peccati, come chi abbia commesso sacri­legi molti e gravi, e uccisioni inique e molte e in onta alle leggi, o altrettali misfatti, costoro il meritato castigo li getta nel Tar­taro. e di lì non escono fuori mai più. Quelli invece che siano incorsi in colpe espiabili sì ma gravi, come chi, per esempio, in un impeto di collera, abbia fatto violenza al padre o alla madre e poi se ne sia pentito e abbia vissuto così il resto dì sua vita; o chi sia divenuto omicida per altro motivo simile e allo stesso modo se ne sia pentito; costoro debbono sì, necessariamente, precipitare nel Tartaro, ma poi, trascorso laggiù un anno dalla loro caduta ecco che la marea li ricaccia fuori, gli omicidi lungo il Cocìto, i percotìtori del padre e della madre lungo il Piriflege­tonte; e quando, trasportati da queste fiumane, giungono a livello della palude Acherusiade, quivi allora gridano c invocano, gli uni quelli che uccisero, gli altri quelli cui fecero violenza, e. chiamandoli a nome, pregano e supplicano che li lascino uscir fuori nella palude e che li accolgano; c, se riescono a persuaderli, escono fuori e così hanno pace dai loro mali; se no, sono ripor­teli via un'altra volta nel Tartaro, e dal Tartaro sono ributtati un'altra volta nei fiumi, e mai cessano di patire quest’alterna vicenda se prima non hanno persuaso coloro a cui fecero offesa: perché questa è la pena die da quei giudici fu loro inflitta. Quel­li poi i quali si sono segnalati fra tutti per la santità della vita, costoro vengono a trovarsi senz'altro liberi e sciolti da questi luoghi terreni come da carceri, e giungono in alto nella pura abitazione e abitano su la vera terra. E di costoro quelli i quali siano divenuti al tutto puri c mondi praticando filosofia, questi, per il rimanente tempo, •vivono al tutto senza legami corporei e giungono in abitazioni anche più belle di queste, le quali non è facile descrivere, né basterebbe il tempo nell’ora presente. Così dunque, o Simmia, per tutto quello di cui abbiamo discor­so, giova non tralasciar nella vita cosa alcuna per acquistare virtù e intelligenza; ché -belio è il premio e la speranza è grande.

«Certo, ostinarsi a sostenere che le cose siano proprio così come io le ho descritte, non si addice a uomo che abbia senno; ma che sia così o poco diverso di così delle anime nostre e delle loro abitazioni dopo che s’è dimostrato che l'anima è immortale, sostener questo mi pare si addica, e anche metta conto di avven­turarsi a crederlo. E la ventura è bella. E giova fare a sé stesso dì tali incantesimi; e proprio per questo già da un pezzo oramai io tiro in lungo la mia favola.

«Ma qui appunto sta la ragione che timori per la propria anima non deve avere chi nella vita disse addio ai piaceri del corpo e ai suoi ornamenti, sapendo che le sono estranei, e per­suaso che più le possono far male che bene; e si curò invece dei piaceri dell’apprendere, e l'anima adornando non d'ornamenti a lei alieni ma di quelli suoi propri, temperanza giustizia for­tezza libertà verità, attende così preparato Torà del suo viaggio all'Ade, pronto a pigliar su la sua strada appena il destino lo chiami. E cosi, disse " anche tu, o Simmia, e tu, o Cebete, e voi altri tutti, ciascuno alla sua volta quando verrà il momento, prenderete la vostra strada. Quanto a me, ecco, oramai, direbbe un eroe tragico, il destino mi chiama! E credo sia l’ora di andar­mene al bagno. Perché mi par meglio ch’io mi lavi prima, e poi beva il farmaco, e non dia questo fastidio alle donne di lavare il cadavere''.

°°°

Il finale (Le ultime ore di Socrate sono di…) è d'una bellezza insuperabile, calmo, sereno, già acceso del riverbero dell'immortalità pur serbando quella lieve ironia scettica che caratterizza in questo mondo l’«uomo che abbia senno», Essa sigilla con la sicurezza interiore ciò che altrimenti potrebbe essere davvero una formula d’incantesimo che il mori­bondo ripete a sé stesso negli ultimi istanti.

Il lettore insensibile a questa magia sarà tentato di respingere il racconto come puro nonsense poetico. Certo, se Socrate, o me­glio Platone, parla veramente di un sistema di fiumi all’interno della terra, è chiaro che di idraulica non ne sa proprio nulla e ha semplicemente allentato le redini alla sua fantasia. Ma se si di un’altra occhiata allo scenario, s’incomincia a dubitare che egli si riferisca davvero alla terra così come la si intende. Socrate parla di un certo luogo in cui viviamo noi, il quale sembra una palude dentro una cavità o forse il fondo di un lago, pieno di rocce, di caverne e di sabbie e fango senza fine. La «vera terra», che assomiglia a una palla composta di dodici pezzi multicolori, è sopra di noi: verrebbe istintivamente da pensare che Platone si riferisca ai limiti superiori della stratosfera, ma naturalmente non ne aveva mai sentito parlare. Egli si riferisce a un «altro» mondo al di sopra dì noi, il quale, anche se sì fantastica un po’ di paesaggi incantevoli, di animali e di gemme, è situato nell’”etere” come lo intendevano i greci, È un mondo al di sopra di noi e, come il «nostro» (qualunque cosa esso sia), ha per centro il centro del Timi verso. Lassù ì corpi celesti sono diventati chiari alla mente e gli dèi sono già visibili e presenti. Se pos­siedono “templi e case in cui abitano realmente”, queste asso­migliano assai alle «case» dello zodiaco. Anche se alcuni ele­menti vengono mescolati e confusi per mantenere viva l’impressione del prodigioso, viene eia sospettare che si tratti del cielo puro e semplice. Poi arriva il contrassegno di autenticità, ine­quivocabilmente geometrico.

Quel mondo è un dodecaedro:[1] ecco cosa rappresenta la sfera fatta di dodici pezzi; la medesima similitudine compare nel Timeo (55 c), dove si dice inoltre che il Demiurgo aveva fatto decorare le dodici facce con figure che rappresen­tano certamente i segni zodiacali. A.E. Taylor sostenne alquanto prosaicamente che non è possibile immaginare la fascia dello zodiaco distribuita in modo uniforme su una superficie sferica, e avanzò l’ipotesi che Platone (e dopo di lui Plutarco) avesse in mente un dodecagono e parlasse senza sapere quel che diceva. E’ rischioso trattare cosi Platone, e il professor Taylor dovette presto pentirsi della sua suffisance; eppure Plutarco l’aveva mes­so in guardia: il dodecaedro «sembra assomigliare sia allo zo­diaco sia all'anno».


È forse vera l‘opinione dì coloro che pensano che egli abbia attribuito il dodecaedro alla forma sferica allorché dice che il dio si era servito di esso nel decorare la natura del tutto? In­fatti, per il gran numero delle basi e l’ottusità degli angoli, evi­tando ogni “rettitudine”, (il dodecaedro] è flessibile; e se teso all’intorno, come le palle fatte dì dodici pezzi di cuoio, diventa circolare e capiente. Ha infatti dodici angoli solidi, ciascuno dei quali è contenuto da tre piani ottusi» e ciascuno di essi con­tiene un angolo retto più una quinta parte. Ed è connesso in­sieme e composto da dodici pentagoni equiangoli ed equilateri, ciascuno dei quali consiste dì trenta dei primi triangoli scaleni. Perciò sembra assomigliare sia allo zodiaco sìa all'anno, essendo diviso nello stesso numero di parti di quelli.

In altre parole, esso è il numero 12 in termini stereometrici, e anche il 3O e il 360 («gli elementi che si producono quando ogni pentagono viene diviso in cinque triangoli isosceli e cia­scuno dì questi in sei triangoli scaleni»): in altre parole, la se­zione aurea. Ecco cos’è il pensare da pitagorici.

Platone non sì dava troppo pensiero dei futuri critici professionisti, si limitò a dare un'immagine dilettosa e li lasciò a sbro­gliarne Li senso da soli. Ma ciò che resta saldo è la terminologia. Narra il Timeo che dopo che il Demiurgo ebbe usato i primi quattro corpi perfetti per gli elementi, gli rimase il dodecaedro, che usò come struttura per avvolgere il tutto. Non occorre en­trare nelle ragioni geometriche e numerologiche che rendono adatta a quel ruolo la «sfera dai dodici pentagoni», come la si chiamava. Ciò che conta qui è il fatto che ci si riferisse al tut­to, al cosmos. Platone era rimasto fedele alla tradizione pitago­rica originaria che chiamava l’ordine del sole, della luna, dei pianeti, con tutto quanto vi era compreso. L'anima che vaga libera lo può guardare “dall'alto”. (Nell'Arenario, Archimede usa ancora il termine cosmos più o meno in questo senso, perlomeno in omaggio all'uso antico).

Concludiamo: la “vera terra” non era altro che il cosmo pi­tagorico, e i fiumi che scorrevano dalla superficie al suo centro e viceversa non possono certo venir immaginati come strettamente terrestri; non sorprende, peraltro, che, con quel curioso intrec­ciarsi arcaico di terra e cielo ormai divenutoci familiare e che fa scorrere grandi fiumi dal cielo alla terra, ci siano correnti infuocate «vere» come il Piriflegetonte, connesse al fuoco vul­canico. Ma dov’è lo Stige? Certo non qui da noi, con quel suo paesaggio soffuso di blu! Anche l'immenso abisso del Tartaro spaz­zato dalle tempeste non è una caverna sotterranea: appartiene a qualche regione dello spazio «esterno».

Questo è tutto il mondo dei morti, da cima a fondo, da un capo all’altro, altrettanto difficile da collocare quanto il mondo infero di cui si parla nella Repubblica. I fiumi dai percorsi a spirale che trasportano i morti per ritornare poi sui loro passi sanno più di astronomia che non di idraulica. L’oscillazione ad “altalena” della terra (sì noti bene: deve trattarsi della «vera terra») potrebbe benissimo essere l’oscillazione dell’eclittica e del cielo nel corso delle stagioni. Non occorre entrare ora nei disorientanti particolari, terrestri o infernali che siano, della de­scrizione, se non per sottolineare che Numenio di Apamea, im­portante esegeta di Platone, afferma nettamente che i fiumi del­l'altro mondo e lo stesso Tartaro sono la «regione dei pianeti». Proclo invece, esegeta ancora più importante ed erudito, si op­pone nettamente a Numenio. Conosciamo abbastanza, anzi più che abbastanza, la congerie di tradizioni orientali sui Fiumi del Cielo con il loro sconcertante miscuglio dì immagini astrono­miche e biologiche, tradizioni culminate nell’idea anassimandrea dell’"Apeiron”, il «flusso infinito», per capire da dove la Grecia arcaica attinse il suo sapere. Lasciamole stare, per ora. Socrate però cita una versione orfica (donde il suo ritegno a nominare le sue autorevoli fonti), e le strane entità che vi compaiono, come Okeanos e Chronos, meritano la nostra attenzione. Qui non s’in­tende infatti Kronos-Saturno, bensì proprio Chronos-Tempo. Per quanto riguarda Okeanos, la stessa Jane Harrison, cui non si vorrà certo imputare una propensità a cercare gli dèi altrove che sulla superficie o all’interno della terra, ha dovuto ammet­tere: «Okeanos è molto di più di Oceano, e altra è la sua nasci­ta». Essa vede in lui un “daimon dell'aria superiore”, conces­sione importante che potrà forse portarci assai lontano.

Tralasciamo per il momento l’imponente opera di Eisler, Weltenmantel und Himmebzelt, filone inesauribile, ma più ric­co di dati che di indicazioni sulla via da percorrere, e passiamo a The Origìns of European Thought di Oniaus, che offre una valutazione più recente: Okeanos vi viene paragonato all’Acheloo, il fiume primordiale che «veniva concepito come un ser­pente con le coma e la testa lunaria». Il testo prosegue:

«In un qualsiasi corpo, l’elemento procreatore era la psiche, che appariva in forma di serpente. Okeanos, come ci è dato ora di capire» era la psiche primordiale, e questa sarebbe stata concepita come un serpente in rapporto al liquido procreativo Così vediamo come per Omero — il quale allude all'opinione condivisa dai suoi contemporanei — l'universo abbia la forma di un uovo cinto da “Okeanos, che è la generazione di Tutto. “Possiamo forse comprendere meglio anche [...] perché in questa versione orfica [fr. 54, 57, 58 Rem] il serpente venisse chiamato Chronos e perché Pitagora» interrogato su che cosa fosse Chronos, rispondesse che era la psiche dell'universo. Se­condo Ferecide, fu dal seme di Chronos che sì produssero fuoco, aria e acqua».

La grande entità orfica era Chronos Aion (l'avestico Zurvan akaratia), comunemente inteso come «Tempo infinito»; in Aion il professor Onians ravvisa «il fluido procreativo con cui veni- va identificata la psiche, il midollo spinale che si pensava assu­messe la forma dì un serpente»; e può benissimo essere così, dal momento che si tratta di idee antichissime vive ancor oggi nei culti ofìdici e nella kundalini dello Yoga indiano. Ma è in­dubbio che Aion significasse «periodo di tempo» ed età, donde « età del mondo » e piu tardi * eternità », né sì ha motivo di ri­tenere che il significato biologico debba esser stato antecedente e dominante. È noto che per gli orfici Chronos era il paredro di Ananke, la Necessità, la quale, secondo i pitagorici, circonda an­eli essa l'universo. Tempo e Necessità che cingono l’universo: ecco una concezione piuttosto chiara e fondamentale: è collegata ai moti celesti indipendentemente dalla biologia e porta diret­tamente all’idea platonica del tempo come «immagine mobile dell’eternità»,

Sarebbe utile cosa se gli storici del pensiero arcaico presentas­sero innanzi tutto i semplici dati, senza comprimere e costrin­gere il loro materiale in una forma che riflette la conclusione preconcetta che le immagini biologiche, come tutto quanto con­cerne la generazione, siano le prime ad apparire nella psicologia ‘primitiva’.

Chi vuole della psicologia può tornare a Socrate in un’assai diversa fase della sua vita, quando egli parla davvero di psico­logia: «Omero [...] quando dice “e Oceano origine degli dèi, e madre Teti "non ti sembra forse intendere che tutte le cose sono progenie del flusso e del moto?» (Teeteto, 152 e). Ci si può chiedere: l'oceano sarebbe un’immagine di flusso se non ci fossero le maree? Ma l'Egeo di Socrate non aveva maree. L’im­magine gli viene in realtà dalla descrizione esiodea di Okeanos (Teogonia, 790 sggd: «Con nove vorticose correnti argentate si avvolge intorno alla terra, e all'ampio dorso del mare, indi cade nel pelago; ma quella che sola scorre dalla roccia [la decima], è grande sventura agli dei». Questa temuta decima corrente è il fiume di Stige, Jane Hanison aveva ragione: «altra» da quella del nostro Oceano è la nascita di Okeanos.

L’autorevole analisi di Berger può ricostruire l’immagine. Gli epiteti di Okeanos nei testi sono «profondo-fluente», «ri­fluente su sé stesso», «instancabile», «placidamente fluente», «senza marosi». Queste immagini, nota Berger, suggeriscono silenzio, regolarità, profondità, quiete, rotazione: tutte cose che in realtà appartengono al cielo stellato. Successivamente, il no­me venne trasferito a un altro concetto, più prettamente terre­stre: il mare vero e proprio, che si pensava circondasse la terra da ogni lato. Ma l’esplicita e più volte ripetuta distinzione tra esso e “pelago” dimostra che questa non fu mai l'idea origi­naria. Se Okeanos è un fiume «dalle vorticose correnti argen­tate», con molte diramazioni che evidentemente non sono mai state in mare o in terra, allora nemmeno il pelago è il mare (pontos) deve trattarsi delle «Acque superne».

L’Okeanos del mito conserva queste maestose caratteristiche di lontananza e di silenzio; era l’unico che poteva restarsene per conto proprio quando Zeus imponeva la presenza nell’Olimpo di tutti gli dèi. Fu lui a mandare le proprie figlie a piangere su Prometeo proscritto e incatenato, lui a offrire la propria pos­sente mediazione in suo favore. Egli è il Padre ilei Fiumi; anzi, appare nebulosamente come l’originario dio del cielo di un lon­tano passato. In un inno orfico viene presentato come «diletto limite della terra, signore del Polo», e in quella famosa opera lessicografica del l’antichità che è l’Etymologicum magnum il suo nome viene fatto derivare da «cielo».

 

Giorgio de Santillana - Hertha von Dechend Il mulino di Amleto Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adeplhi. 1983



[1] Il dodicesimo numero è divino, perché serve a misurale i cieli e aiuta a governare i suoni celesti e gli spiriti dato che lo zodiaco ha dodici segni a cui presiedono dodici angeli principali, sorretti dal gran nome di Dio. Giove compie il suo ciclo in dodici anni e la Luna percorre dodici gradi in un giorno. Il corpo umano ha dodici giunture principali, ossia nelle mani, nei gomiti, nelle spalle, nelle cosce, nelle ginocchia, nei piedi. Il potere del numero dodici è anche grandissimo nei misteri divini. (E.C. Agrippa, La filosofia occulta o la magia, Vol. II)

Jupiter, questo sconosciuto


Dichiaro subito, a scanso di equivoci, di non essere un a-theos (un senza dio), nonostante questo “dio” sia stato e continua ad essere un gran dolore di testa per filosofi e letterati.

La filosofia greca, nella sua serenità ed impassibilità, se l’era cavata molto bene. Aveva identificato nel Monte Olimpo la sede privilegiata degli dei e là, in cima alla divina montagna, sedeva imperterrito, severo  e sovrano Zeus, Jupiter in latino, circondato e coccolato da una schiera di divinità, ad ognuna delle quali il Padre aveva assegnato un compito ed una funzione: c’era chi si occupava dell’amore e chi della guerra, amore e guerra coesistevano sicure e tranquille nelle loro funzioni, sicure di adempiere al meglio le loro attribuzioni, tranquille e consapevoli del fatto che il genere umano non poteva fare a meno né dell’amore, né della guerra.

Senonché, l’uomo non aveva ancora scoperto la scissione dell’atomo, e alla divina potestà di Zeus preferì la sovranità del fungo atomico, Zeus allora si ritirò sulla cima della montagna in solitaria meditazione, ordinando alle sue divinità subordinate di fare altrettanto.

L’uomo rimase solo ed ebbe paura dell’amore e della guerra.

In lontananza il fungo atomico sbirciava dal suo atollo al centro dell’oceano consapevole del fatto che avrebbe potuto suscitare nell’uomo un unico sentimento: quello del terrore, al solo ricordo di quel fungo atomico l’uomo sarebbe rimasto terrorizzato.

Amore e guerra si ritirarono contriti e frustrati: Zeus di fronte ai loro piagnistei rimase pensieroso e in silenzio.

Quando Jupiter si ritira in silenzio fe meditabondo sulla cima del monte, l’uomo resta solo, e quando l’uomo resta solo ha paura, ha paura di tutto, dell’amore e della guerra.

Ha paura dell’amore ed inventa la trasgressione dei sentimenti e della natura, ha paura della guerra ed inventa il terrore e la barbarie.

Quando l’uomo aveva la guerra, generava guerrieri fedeli ai propri ideali di rispetto, di stile, di tradizione, quando l’uomo aveva l’amore, amava una donna le era fedele ed era da questa riamato e da tale sentimento nascevano figli orgogliosi, forti, sicuri di poter continuare la tradizione dei padri.

Gli uomini diedero allora a questo sistema un nome: TRADIZIONE, tradizione di famiglia, tradizione di costumi, tradizione di culti.

Jupiter dall’alto dell’Olimpo si sentì rasserenato e scagliò un fulmine di soddisfazione, smentendo i solidi idioti e i soliti presuntuosi che il fulmine annunci e preceda solo la guerra. Parlano così perché non conoscono il fulmine, il fulmine della pace. (r. s.)

 

 

Ascesa e Immortalità

(Arturo Reghini alla Torre Talao)



 

Platone definisce la filosofia come un esercizio di morte e il filosofo come l'uomo che non teme la morte perché contempla la totalità del tempo e dell'essere

Per l’Ascesa spirituale sono necessari:

1)         la Purificazione

“La purificazione di cui parla Platone nel “Fedone” è la catarsi che constava cerimonialmente di semplici pratiche esteriori, ed in realtà aveva un carattere fisiologico trascendente, senza preoccupazioni moralistiche, e consisteva nel “superare e rimuovere l’anima quanto si può dal corpo, e assuefarla a raccogliersi in sé medesima, e rimanere sola, sciolta dai vincoli di esso, per il tempo presente e futuro” (Fed. XII). Ed a scioglierla, molto si adoperano a ogni ora quelli soli che filosofeggiano dirittamente, ossia quelli che intendono a morire. Pochi erano dunque coloro che potevano dirsi Bacchi, perché identificatisi con Dioniso-Zagreo per mezzo dell’iniziazione; ed a questi pochi era riserbata la epopteia effettiva che era raffigurata e velata dalle cerimonie del dramma mistico”. (A Reghini, Le parole sacre e di passo, Roma, 1924)

“La preliminare purificazione interiore, in pratica, non si effettua senza un’esperta guida. Occorre a Dante la sapienza di Virgilio, che di servo lo trae a libertade, e lo conduce sino alla catarsi del paradiso terrestre da cui esce rinnovellato di novella fronda, puro e disposto a salire le stelle; ed occorre poi altrettanta sapienza per arrivare a dislegare l’anima sua da ogni nube di mortalità. Questa è la funzione dell’Hermes Psicopompo, di Tot Trismegisto. Occorre dunque un maestro e benché la selva sia oggi non meno aspra, selvaggia e forte di quanto fosse al tempo di Dante, pure noi riteniamo che il pellegrino che vi si smarrisca possa e debba ancor oggi rinvenirvi il suo Virgilio”. (A Reghini, Le parole sacre e di passo, Roma, 1924)

“Come si proceda a questa purificazione ed alla resurrezione è stato esposto, facendo astrazione da ogni scuola, credenza ed allegoria, nel capitolo La resurrezione iniziatica e quella cerimoniale del nostro libro “Le parole sacre di passo”. In esso è riportato un documento rinvenuto alla Biblioteca Magliabecchiana, intitolato: La prattica dell‘estesa filosofica, attribuita a Tommaso Campanella, che descrive precisa ed esplicita tutta l’operazione.”

“Quest’opera di purificazione e della successiva pratica dell’estasi filosofica occorre che siano condotte con lo stesso spirito di impersonalità, colla stessa freddezza scientifica con cui si può procedere ad una lunga preparazione in un laboratorio di fisica. Si tratta di ottenere la propria indipendenza dall’istinto, dai pregiudizi, dai sentimenti; non di conformare sé stessi ad un modello di perfezione secondo una determinata morale. Non si tratta di diventare l’uomo perfetto, ma di transumanare. La morale fa parte delle consuetudini, dei pregiudizi, della mentalità della razza o del paese, e non bisogna essere schiavi di essa. La catarsi era presso i greci ed i latini una funzione puramente rituale; la sua degenerazione in purificazione morale, dal punto di vista tecnico della palingenesi, è un errore". (Rif, idem)

Altro errore è quello di credere che sia conveniente mortificare, macerare la carne; se bastasse digiunare, astenersi dal mangiare cadaveri e dal bere alcoolici per avviarsi sulla strada della iniziazione, se bastasse togliere il vigore al corpo per acquistare una condizione di coscienza superiore, una carestia dovrebbe dare la stura a migliaia di iniziati. Mentre invece è giusto l’opposto che occorre fare; perché la pratica dell’estasi filosofica, il cui aspetto negativo consiste nell’astenersi dal pensare, ha un lato positivo che richiede un grande dispendio di energia, e dura tanto che pur dedicandole quotidianamente solo quel massimo di tempo che si è in grado di sostenere, finisce coll’esaurire le forze; ed è perciò necessaria la buona salute del corpo e non il deperimento o la fiacchezza”. (Rif: AReghini, Le parole sacre e di passo, Roma, 1924)

2)         l’Intuizione

“L’ Intuizione è la facoltà trascendente la ragione ed indica il volgere dello sguardo verso un mondo interiore, l‘intueri. L’intueri è dunque una funzione che non ha nulla a che vedere col mondo fenomenico.

La stessa metafora si trova nella radice sanscrita gah, da cui gahayati (penetrare, intelligere) e nella parola iniziare da initium, in-ire, andare verso l’interno.

L’etimologia fa dunque consistere l’iniziazione nell’andare verso quella modalità dell’essere che in opposizione alle cose esteriori, ex-istenti, si può chiamare il mondo interiore (v.), verso l’intrinseca essenza del mondo nascosta dalla ex-trinseca parvenza come l’interno di un oggetto è nascosto dalla superfice.

La superficie non è che l’aspetto, l’apparenza (lat. facies) delle cose, ed anche quest’illusorio aspetto delle cose non sarebbe possibile senza la retrostante realtà (lat. res, cosa) come una superficie non può esistere materialmente che come limite esterno di oggetti aventi uno spessore, non può sussistere senza una consistenza”. (Rif. AReghini, Simbolismo e Filologia. Roma, 1914)

L‘intuizione umana dello spazio consente di concepire lo spostamento del punto, e di ottenere in tal modo un altro punto, e quindi la coppia di punti ed il segmento individuato da essi. Aritmicamente si ottiene così il due, e filosoficamente si ha la diade, la dualità, il dualismo, la differenziazione. Se ora consideriamo l’aggregato del punto e del segmento di due punti, otteniamo una figura piana composta di tre punti. Operando analogamente nello spazio, cioè aggregando il punto col triangolo composto di tre punti, sottoponendo il triangolo al punto, si ottiene una figura solida composta di quattro punti, ossia la piramide. Se ci si attiene alla via puramente geometrica è necessario arrestarsi ai numeri piramidali, perché l’intuizione umana dello spazio è tridimensionale.

3)         la Contemplazione

Contemplazione: la parola contemplazione trae l’odierno significato metafisico da un antico senso divinatorio e magico.

Templum, infatti, contrazione di tempulum, diminutivo di tempus, indicava, secondo Varrone, una porzione separata e specialmente lo spazio che l’augure segnava nei cieli colla sua bacchetta al fine di circoscrivere un dato limite dentro il quale faceva le sue osservazioni sul volo degli uccelli, ed anche significò una porzione di campo consacrato dall’augure e destinato a fini religiosi. Da questo primitivo significato etrusco-romano è passato all’odierno in modo affatto simile alle parole desiderare, considerare (v.), passate dal senso astrologico a quello sentimentale e razionale. (AReghini, Simbolismo e Filologia, Roma,1914)

Per poter contemplare è necessario non farsi dominare dai sensi (v.), perché chi ne è schiavo od anche è semplicemente incapace di astrarre da essi, non può assorbirsi nella contemplazione. Questa libertà va conquistata rimanendo nei sensi e non fuggendone; accettandoli e non combattendoli; adoperandoli e non rinnegandoli. (ARA, Massime di scienza iniziatica, Ancona, 2004)

«Pur sorvegliando la propria salute, non potrà essere del tutto privo dellesperienza della malattia. Non vorrà nemmeno restare privo dellesperienza delle sofferenze. E se non capitano, desidererà conoscerle da giovane; ma arrivato alla vecchiaia, non <vorrà> essere turbato né dalle sofferenze né dai piaceri, né da una qualsiasi delle cose di quaggiù, sia essa piacevole oppure il suo contrario, per non <essere costretto> a prestare attenzione solo al corpo». Cfr. I, 4 [46], 14, 21-26. Nel suo volume, Plotino o la semplicità dello sguardo, cit., p. 77, P. HADOT commenta al riguardo: «Plotino, come si vede, non ricerca la malattia, la sofferenza, la bruttura di per sé. Non combatte il corpo, ma un eccesso di vitalità fisica che rischierebbe di sbilanciare lanima nel suo slancio verso la contemplazione del Bene. Bisogna abituarsi a non fare più caso alle sensazioni fisiche, diventare indifferenti al piacere e al dolore per non venire distolti dalla contemplazione», e nota che tanto questo come altri aspetti dellascesi, si trovano in maniera simile negli «esercizi spirituali». (per questi ultimi, cfr. P. HADOT, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit.). (Mystes)

  

Contemplazione e Conoscenza

   

Massima n.77 - È possibile conoscere?

- È possibile.

- Come?

- Dominando il pensiero, facendo a meno di credere e liberandosi dalle passioni e dalla paura del nulla.

78 - La contemplazione dà la conoscenza.

79 - Per contemplare è necessario essere libero nei sensi.

80 - Per essere libero nei sensi adopera i sensi liberamente.

“Benché il testo nella lapidaria sua concisione…” Con queste parole Reghini inizia il suo straordinario e inimitabile Commento alle Massime di Scienza Iniziatica di Amedeo Armentano.

Reghini ha perfettamente ragione: il testo “nella sua lapidaria concisione” dice tutto quel che occorre sapere sulla “conoscenza” per cui sarebbe inutile aggiungere una qualsiasi parola in più. Mi allontano pertanto dalla tentazione esegetica, per avvicinarmi a una visione prettamente metafisica, la stessa che avrebbe usato il grande maestro pitagorico.

In realtà cosa sappiamo noi della “conoscenza” e in prima istanza, prima di azzardare una teoria della conoscenza, ci domandiamo “cos’è la conoscenza?” Al di là delle non facili risposte e spiegazioni di cui sono pieni i libri e i manuali teorici, quale senso diedero a questa parola i padri della filosofia?

Platone, di solito bene informato, nella sua complessa descrizione della “conoscenza” chiarisce:

“…la conoscenza è anámnesis, cioè un ricordare ciò che già si trova nell’interiorità della nostra anima. E poiché l’anima, ci avverte Platone, è immortale, non vi è nulla che non abbia imparato, avendo visto tutte le cose dell’aldilà e dell’aldiquà nel corso delle sue innumerevoli esistenze. Così Platone nel Menone: «[…] nulla vieta che chi si ricordi di una cosa – ciò che gli uomini denominano apprendimento – costui scopra anche tutte le altre, purché sia forte e non si scoraggi nel ricercare: infatti, il ricercare e l’apprendere sono in generale un ricordare».”

Platone usa poche parole e non ha bisogno di perdere molto tempo per far capire cos’è la “conoscenza”: Platone, dall’alto del suo sapere, la sapeva lunga, ma noi, modesti mortali, da quale lato dobbiamo collocarci per entrare e quindi percorrere il labirinto della “conoscenza”?

Se la “conoscenza” è un ricordare, è inutile nascondere che entriamo in un meandro di concetti e di definizioni filosofiche dove riconosciamo la parola “metempsicosi” risvegliatasi subito dopo quella di “ricordare” e dove la vediamo dominare incontrastata.

Armentano, come riconosce Reghini suo discepolo, è lapidario! Afferma: è possibile conoscere!

Segue la conferma, si è possibile, e se è possibile, quali sono gli strumenti di tale conoscere? Sono il ricordo e solo il ricordare? Torniamo punto e a capo!

Ma anche Platone è perentorio: conoscere è ricordare! Quel verbo ricordare si affaccia su un emisfero di dubbi e di domande alle quali non è facile rispondere anche con l’aiuto dei Maestri che hanno trattato l’argomento.

Andiamo per gradi e iniziamo dalla contemplazione che sembra essere l’azione chiave per ottenere la “conoscenza”. Vediamo la definizione che Reghini da della contemplazione: “la parola contemplazione trae l’odierno significato metafisico da un antico senso divinatorio e magico.

Templum, infatti, contrazione di tempulum, diminutivo di tempus, indicava, secondo Varrone, una porzione separata e specialmente lo spazio che l’augure segnava nei cieli colla sua bacchetta al fine di circoscrivere un dato limite dentro il quale faceva le sue osservazioni sul volo degli uccelli, ed anche significò una porzione di campo consacrato dall’augure e destinato a fini religiosi. Da questo primitivo significato etrusco-romano è passato all’odierno in modo affatto simile alle parole desiderare, considerare, passate dal senso astrologico a quello sentimentale e razionale.

Per poter contemplare è necessario non farsi dominare dai sensi, perché chi ne è schiavo od anche è semplicemente incapace di astrarre da essi, non può assorbirsi nella contemplazione. Questa libertà va conquistata rimanendo nei sensi e non fuggendone; accettandoli e non combattendoli; adoperandoli e non rinnegandoli.”

La contemplazione è associata quindi a una pratica magica di divinazione. Noi sappiamo che la sorte sinistra toccata a questa parola come a tante altre, stando l’origine sacra delle parole, precipitate col tempo, subito dopo l’avvento del cristianesimo, in un baratro di volgarità e di incomprensione, ha colpito numerosi vocaboli, tra cui conoscenza, il cui uso mantrico e sacrale era attribuito ai soli collegi sacerdotali che si occupavano dei sacrifici e dei rituali magici.

Manlio Magnani autore del “Supremo Vero”, nel citare l’Opus Magicum di Luce espone in modo molto chiaro l’uso dei “Nomi” nel senso magico o sacro: “Il Nome è il suono prodotto dalla forza sottile che genera, o costituisce, una cosa o un essere, però non quale risuona nel mondo fisico, ma quale è colto direttamente e incondizionatamente dallo spirito in un etere interiore libero da spazio e tempo, non sub specie di una serie di vibrazioni materiali, sibbene di movimento-in-se, di suono puro, continuo, omogeneo. Per conoscere cotesto stato è necessario saper identificarsi con esso: è altissima realizzazione iniziatica”.

La chiarezza di Magnani è fuori discussione, ma è opportuno aggiungere, per concludere, alcune nostre parole di spiegazione. La filosofia di Magnani ha carattere magico ed ermetico senza disdegnare la elevata componente metafisica. Questa componente, nelle sue parole e nelle sue spiegazioni, fa eco alla grande dottrina dei “mantra” del mondo indù e delle parole di potenza dell’antico Egitto.

La sola spiegazione è la seguente: dal grande trono dell’antica spiritualità sul quale sedevano sacerdoti e magi e facevano uso dei mantra per evocare le forze divine, le parole sacre sono state destituite e svuotate dal loro autentico e antico significato e ridotte a un semplice suono vocale senza più quelle vibrazioni e quella profondità attraverso i quali la divinità si manifestava all’uomo.  (Mystes)

 

Mistero cosmogonico del padre 

Da qualche giorno ho cominciato a farmi l’idea che molti commentatori di testi di filosofia platonica e in special modo quelli del “Fedone”, il dialogo dove Platone parla della vita, della morte e dell’immortalità dell’anima, sono degli emeriti ignoranti o in alternativa sono in mala fede, con le ovvie dovute e nobili eccezioni.

Spiego subito in che modo e il perché sono giunto a questa conclusione.

Il fatto che il filosofo debba “esercitarsi a morire” non significa e non c’è scritto da nessuna parte che il filosofo, “disprezza i piaceri del corpo” e, “reputa senza valore la vita” e “deve rompere ogni comunanza con il corpo, in modo che la sua anima possa acquistare la Verità” come ho letto recentemente in alcuni trattati di filosofia.

Sono valutazioni di carattere strettamente personali gabellate per lezioni di filosofia e quel che è peggio di filosofia platonica.

Esamineremo per un momento quel che ha scritto ARA sullo stesso argomento nelle “Massime di Scienza Iniziatica”, e lo metteremo a confronto con le affermazioni fatte da un presunto e presuntuoso filosofo “platonico”:

Massima n. 261 - Che cosa è la morte?

- Se vuoi sapere della morte abbandona i sogni.

Massima n. 262 - Esiste un problema della morte?

- I vivi sono vita e della vita si occupano: solo i morti pensano alla morte.

La sentenza del Maestro pone una pietra lavica sulla tesi del “disprezzo della vita per acquistare la verità e la sapienza” e rappresenta la giusta e retta condanna di una visione funerea della vita, visione che giudica la vita in modo manicheo come il contrario della morte.

Sapendo il grande interesse che avrebbe suscitato, l’occuparsi e parlare della morte è stato fin dall’antichità il trastullo di alcuni filosofi. Ma io nego, nella maniera più chiara e inoppugnabile, il fatto che la morte sia la negazione della vita. L’unica realtà di cui noi abbiamo scienza e conoscenza è la vita anche perché tutte le teorie filosofiche formulate dagli antichi saggi sono l’espressione della loro forza vitale e della loro intelligenza, nonché della capacità che hanno dimostrato, da vivi, di formulare tutte le teorie filosofiche, da quelle più elevate di Platone, a quelle più strampalate dell’ultimo filosofastro moderno.

Il pensiero umano, ai livelli più alti, non è l’espressione della materia, semmai si serve di una serie di supporti materiali, tra cui il corpo e la mente umani, per manifestarsi ed affermarsi nella forma migliore, dai temi della filosofia, a quelli più comuni ed ordinari della letteratura colta.

Chiarito ciò devo riconoscere che nessun essere umano, filosofo o dilettante del sapere, è stato in grado di spiegarci i misteri della morte e dell’aldilà: Omero, per esempio, ricorse ai miti e alle leggende e lo stesso Platone, il filosofo che più di ogni altro si è inoltrato nel suddetto mistero, fa dire a Cebete, nel Fedone, che solo gli insensati potranno compiacersi del destino mortale umano:

«Ma quello che mi sembra assurdo è il fatto che proprio i filosofi debbano desiderare la morte se, come dicevi poco fa, di noi si prendono cura gli dèi e, anzi, noi stessi siamo un loro possesso. Infatti non riesco proprio a capire come costoro, che sono i più saggi, non debbano dolersi di liberarsi, con la morte, da questa tutela che impedisce loro di continuare a servire i migliori padroni che ci siano, cioè gli dèi. Infatti, non è possibile credere che un uomo con la testa sulle spalle possa pensare di star meglio, una volta libero; soltanto un pazzo potrebbe avere una simile idea e credere che sia un bene fuggire dal proprio padrone, senza pensare che è, invece, un grosso errore e che è un bene, al contrario, restar legati, quanto più è possibile, al buon padrone: chi ha un po' di senno, desidera restare sempre con chi è migliore di lui.» (Platone, Fedone, 62d)

Un uomo ragionevole non può sentire soddisfazione di un tale destino. Nonostante ciò Socrate opporrà un ragionamento col quale proverà che un vero filosofo deve desiderare la morte e «esercitarsi a morire».

Tre sono le principali motivazioni che Socrate adduce a sostegno della sua tesi:

1. Se la morte è separazione dell’anima dal corpo, il filosofo, che disprezza i piaceri del corpo, reputa senza valore la vita.

2. Se il filosofo tende alla verità, e i sensi sono d’impedimento al pieno possesso della Verità, egli disprezza il corpo e cerca di allontanarsi da esso, in maniera che la sua anima se ne stia tutta in sé raccolta, nella pura contemplazione del vero.

3. La «realtà in sé», non è percepibile con i sensi, ma solo col puro pensiero.

La morte, come liberazione definitiva dal corpo, permette all’anima del filosofo di poter godere della visione piena della Sapienza.

Ciò facendo, si abbandonano i bisogni del corpo e si allontana la nostra anima dal mondo sensibile; ed è in questo senso che la filosofia è un prepararsi a morire, dove per morire si intende lo stato in cui corpo e anima sono distaccati.

Senonché, sottolineo senonché, questa esperienza della separazione dell’anima dal corpo che la maggioranza dei filosofi identifica con lo stato di morte può essere sperimentata e vissuta in vita senza che subentri nell’uomo la cessazione della vita. Ho usato il verbo “vivere” per confermare che non si tratta di una prova di morte, ma di una conferma della vita.

Arturo Reghini che trattò nei suoi scritti con scienza e sapienza questo argomento, alla voce “morte” del Dizionario Filologico dice: “La morte è un passaggio da una modalità della vita, la vita corporea, ad un’altra. Siccome tutto ciò che è non può cessare di essere, la morte non arreca la distruzione o l’annichilimento in nessun caso. Ma nel caso dell’uomo ordinario, l’individualità umana finisce, con la morte, col rientrare nello stato non manifestato, e quindi scompare e cessa di esistere in quanto individualità; non è annientata, ma “trasformata”.” Si tratta quindi di un passaggio, di una mutazione! E al filosofo spetterebbe un solo compito: spiegare ai colti e agli incolti le modalità e le finalità di tale passaggio. È chiaro?

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Manlio Magnani ha trattato l’argomento con la sua consueta lucidità pitagorica. Riproduciamo dal Dizionario Filologico ( https://www.amazon.it/dp/168818063X ):

“La morte o mistero cosmogonico del padre è espressione della tendenza al ritorno all’Uno Unissimo.

L’uomo chiama morte la fine di una forma nell’aspetto fenomenale percepito dai suoi sensi. Mentre invece quella non è la morte, ma il segno, il riflesso, il simbolo della morte, potremmo dire un aspetto analogico della morte. Morte pertanto deve intendersi la fine rispetto alla manifestazione fenomenale, la cessazione dello stato di necessità o di “ordo” proveniente dal caos. Quindi è parola non da riferire solamente a un’esistenza effimera. Forse per questo gli antichi davano l’attributo dell’immortalità a tutto ciò che concepivano come superiore all’uomo e al fisico, per esempio gli dei o dio. Nelle iniziazioni si parlava di morte dell’iniziando per rinascere immortale quando iniziato; perché l’iniziato ha realizzato la coscienza dell‘essere, ha superato il caos, sebbene porti tuttavia attorno la pesante appendice fenomenale e formale della umana e fisica esistenza. Ecco il significato pieno della parola morte.”

E Magnani così prosegue: “Precisamente nel fine visibile delle forme e delle vite singole, degli aggregati, delle cose composte e delle cose semplici, in una parola in ciò che gli uomini chiamano morte è il segno visibile tangibile di un limite insorpassabile da parte del caos. La cosiddetta morte in quanto dissolve una esistenza, di qualunque ordine essa sia, ha valore e significato di negazione e di opposizione alla fissità o alla stabilità del divenire fenomenale, del processo della molteplicità, dell’impulso del caos: quindi è come espressione di un tendere verso il ritorno allo stato anteriore al caos e al verbo stesso, cioè a quell’unicità in molte tradizioni indicata con la parola padre. Ecco perché la morte fu detta "mistero cosmogonico del padre”

(Manlio Magnani., Supremo Vero, Ancona, 2003).

                                                                                                                                                        Mystes

 

IL MIO COMMENTO AI VERSI D’ORO

Se la saggezza, come dice Socrate, si incontra solo “colà” ossia solo quando l’anima sarà separata dal corpo, sorge spontanea la domanda: lo stato in cui noi ci troviamo, ossia di unione col corpo, è uno stato di ignoranza?

Si, risponderebbe il saggio, e quindi noi, nello stato di unione col corpo ossia quando siamo in vita, siamo destinati alla perenne ignoranza! A meno che non ci sia la possibilità di produrre volontariamente in vita la separazione dell’anima dal corpo, ossia di sperimentare in vita lo stato di morte. In tal caso occorre essere in grado non solo di produrre il viaggio di andata (la separazione dal corpo) ma soprattutto avere in tasca il biglietto di ritorno, giusto il verso degli Aurei Detti:

Così, se, il corpo lasciando, nell’etere libero andrai,

Spirito Nume immortale, non più vulnerabil sarai”. (versione A. Reghini).

Il verso di Pitagora, sottoposto ad un’attenta analisi, presenta diverse situazioni che l’anima deve affrontare. Esaminiamole separatamente e brevemente:

“…Così, se, il corpo lasciando …” si riferisce al momento stesso della cessazione della vita fisica, quando si è dato l’ultimo respiro, ossia nel preciso istante in cui il movimento di liberazione ha inizio. Tale processo di liberazione non è un fatto scontato, si presume che avvenga nell’istante in cui l’uomo passa da uno stato di coscienza integrato al corpo, ad uno stato di coscienza fuori del corpo, ossia quando il corpo ha cessato di vivere. Il primo è ben noto all’uomo, il secondo è letteralmente sconosciuto. È quindi, a mio avviso il momento più difficile in quanto la coscienza deve essere pienamente consapevole del fatto di dover abbandonare un corpo che l’aveva ospitata in tutti gli anni in cui è stato in vita e se la coscienza non ha la lucidità, la prontezza e la consapevolezza di decidere quale direzione prendere rischia di essere risucchiata e annichilita da un corpo in cui sono attive le larve della putrefazione.

“… nell’etere libero andrai …” in queste poche ma espressive parole i Versi mostrano la loro potenza espressiva e danno una certezza al discepolo pitagorico che si è già liberato di un mondo fatto di dubbi e di incertezze. L’uso del verbo “andrai” garantisce che il concetto dell’ascesa ossia la promessa che il Maestro aveva fatto al Discepolo quando era ancora in vita non era la promessa vana di una vana speranza, ma il primo passo, il passo decisivo e definitivo in vista dell’indiamento il fine ultimo e sublime al quale aspira il discepolo pitagorico. Ma non basta la sola ascesa. Il verso seguente promette e garantisce il giusto trofeo che si riceve al termine dell’accidentato percorso.

“… Spirito Nume immortale, …”

Il sostantivo “immortale” non si riferisce a una semplice promessa, fornisce al discepolo una certezza, la certezza che al termine del viaggio il discepolo sarà nella giusta condizione di concludere quella palingenesi iniziata quando sedeva sui banchi della Scuola Pitagorica, proseguita al riparo della sua abitazione, durante il giorno con una vita sana e salutare, e soprattutto la notte nelle ripetute prove ed esperienze e nelle visioni beatifiche di una compiuta realizzazione spirituale.

“… non più vulnerabil sarai

Questo verso è il più difficile da intendere e da commentare. A mio vedere, il verso implica una promessa, la più significativa, la più ambita. Come dire, se avrai rispettato a puntino e osservato scrupolosamente le istruzioni contenute nei versi precedenti, non andrai incontro a una “semplice” morte, non sarai più vulnerabile, come vulnerabili sono i comuni mortali ma sarai capace, sarai in condizione di vincere la morte.

A mio avviso la vulnerabilità nel senso etimologico e filologico della parola sottintende la fragilità non solo fisiologica dell’uomo, bensì la sua instabilità di carattere, le ripetute debolezze che l’uomo dimostra nei passaggi più difficili della sua vita ed infine in quello più decisivo e misterioso, il momento della “morte”, momento in cui la vulnerabilità dell’uomo si fa più marcante: quando Pitagora richiede fermezza, e soprattutto rispetto di se stesso, l’uomo si dimostra debole e ostile verso se stesso.  “Qui si parrà la tua nobilitate”, disse Dante dialogando con la sua Mente. Verso più consono non si potrebbe citare per suggerire all’uomo che sta per intraprendere il suo viaggio di risalita: “E’ ora il momento di dimostrare chi sei, o chi dici di essere…”

1 - continua

 

 

Atanor: 100 anni fa la rivista di studi iniziatici di Arturo Reghini

https://www.youtube.com/watch?v=KGIzpB_wRPU&t=677s


 

HYGIEIA



Se il tuo genio ti venisse in sogno e ti chiedesse di esprimere tre desideri, cosa risponderesti? Risponderei: l'amore, per primo, subito dopo la realizzazione spirituale e al terzo posto metterei la salute.

Ma come potresti ottenere i primi due, senza la salute? Ergo, devi invertire l'ordine delle priorità, replica il genio.

Bene, risponderei la salute, la realizzazione spirituale e per ultimo l'amore.

E di nuovo il genio interviene: come pensi di ottenere salute e spiritualità, senza la potenza e la grazia dell’Amore? Infine dovetti ammettere ancora una volta di aver sbagliato e definii la priorità nel modo giusto, in primo luogo la salute, subito dopo l’amore e infine la realizzazione spirituale. La salute infatti non è solo un bene del corpo, ma soprattutto un bene dell'anima e per poter aspirare all'elevazione dell'anima e alla sua immortalità a seguito della separazione dal corpo, occorre si amare, ma l'amore si manifesta se i tuoi organi sensori e le tue antenne spirituali sono intatti ed efficienti, per cui occorre la salute.

Per concludere è lei YGEIA la regina della nostra vita, la via verso la luce e verso l'immortalità.


 

 

 

ULTIMO TRENO DELLA NOTTE



Scrive Giovanni Reale: “Le questioni metafisiche più importanti e le loro possibili soluzioni sono legate al grande problema della generazione, della corruzione e dell'essere delle cose, e sono particolarmente connesse all'individuazione della "causa" che funge da fondamento.”

Ossia il perché sono nato, il perché ho vissuto gli anni che ho vissuto, il perché dovrò esalare l’ultimo respiro e fondamentalmente il perché di tutto questo che si vede intorno a me e che esiste lontano da me.

Ebbene, se saprò dare una risposta o meglio una spiegazione coerente e convincente a tutti questi perché, potrò considerarmi un essere intelligente e meritevole di aver vissuto bene la mia vita, diversamente dovrei considerarmi simile se non uguale a qualunque animale stupido o intelligente che vive sulla terra. Con l’unica differenza: che a me è stato dato il dono della parola, della quale forse non ho saputo fare un buon profitto, se non quello preposto ai bisogni alimentari e riproduttivi.

Perché le cose si "generano", perché si "corrompono", perché "sono"?

La risposta più ovvia e più ingenua: nel mio caso sono stato generato da mia madre in seguito a una copula feconda con mio padre. L’aggettivo “fecondo” ha una sua importanza: non basta copulare, “l’animaletto” come lo avrebbe chiamato Gigi Proietti, deve poter colpire il bersaglio.

Tutto ciò rappresenta un “inizio” che prelude a una “fine”: l’animaletto, dopo esser diventato grande, un giorno dopo l’altro si corrompe, comincia a perdere pezzi (i primi ad andarsene sono i denti, i più importanti, perché senza denti non puoi mangiare) mi correggo, i primi sono i capelli e dopo tutto il resto, e quel poco che ti resta se ne va al diavolo in un processo indefinito di corruzione, che i più hanno chiamato vecchiaia alla segue inesorabilmente la morte. La chiamano morte quando quella nuvoletta che parte dai polmoni e che definiamo respiro prende “l’ultimo treno della notte”  in un viaggio di andata, senza ritorno, che non si sa bene dove va a parare.

Ma il buon Reale, grande filosofo e grande furbacchione, al termine della sua frase scrive “perché sono!”

E no, caro il mio filosofo, se tu cominci a tirare in ballo il verbo “essere” i conti non tornano più, c’è qualcosa che non va o che va in modo molto diverso.

“Ego sum qui sum” disse il conte Cagliostro; “Ehyeh”, lo affermò Mosè e non vedo perché non devo credergli.

E dunque, caro il mio furabacchione, mi consenta (lo diceva il grande Berlusca) di fare qualche ingenua domanda: perché “sono”?

Per non farla tanto lunga e per non annoiare i lettori di Cdc che hanno tante cose da leggere, concludo con alcune affermazioni del “napoletano” Plotino (un ottimista) che sul verbo “essere” la sapeva lunga.

Plotino è quel sapiente che riuscì a prendere “l’ultimo treno della notte” per ben quattro volte durante la sua breve esistenza trovando sempre all’arrivo il treno per il ritorno (sul tipo del pendolare Milano-Garbagnate) e quindi la doveva sapere lunga.

Infine Porfirio biografo di Plotino ha raccontato “che In verità, anch'io, Porfirio, posso attestare di essermi accostato e unito a Lui una volta sola: ed ora ho sessantotto anni. 'Apparve', dunque, a Plotino e gli 'si pose proprio accanto, il Fine supremo'. Meta, infatti, e Fine, per lui, si era l'accostarsi e l'unirsi col Dio che è al di sopra di tutto; ma egli raggiunse ben quattro volte, a quel ch'io mi so, nel tempo in cui gli ero vicino, questo Fine, con un atto ineffabile.”

Mi è bastata questa frase di Porfirio per comprendere che quel “ego sum qui sum” ha un grande significato solo se lo fai accomodare sull’ “ultimo treno di mezzanotte” in viaggio verso la stazione del “Fine supremo” dal cui primo binario forse sarà lecito, un giorno, prenotare un biglietto per il treno diretto a quel “Dio che è al disopra di tutto”. Plotino ci riuscì per ben quattro volte, io non pretendo tanto, ma di grazia se ci fosse un posticino libero, gradirei anch’io avere la fortuna di salire su quel fortunato “ultimo treno della notte”.

 

 

 

 

Emile BREHIER

L'ANIMA

 

Per Plotino la vera realtà è una vita spirituale unica che parte dall'Uno e termina nel mondo sensibile. È la vita spirituale ipostatizzata. Da qui il suo approccio al problema filosofico: spiegare una forma di realtà è determinare il punto esatto in cui essa si inserisce nella corrente spirituale; è reintegrarla in quella corrente, determinare quanto è lontana dal centro e qual è la serie di intermediari che la collegano ad esso.

Se ogni forma fosse compresa nel flusso della realtà solo in modo statico, come le parti di un'unica linea, la continuità del flusso esisterebbe per un osservatore esterno, ma non per ciascuno dei suoi frammenti. Per partecipare efficacemente alla vita spirituale, ogni forma di realtà deve essere per così dire dilatata o, in termini plotiniani, "assimilata" alla realtà superiore. La continuità sarebbe solo una parola se non si realizzasse all'interno di ogni forma successiva.

Da ciò si deduce il doppio aspetto di ciascuna delle ipostasi di Plotino e, in particolare, dell'Anima.

Infatti, da un lato, l'Anima ha un posto particolare nella catena delle ipostasi. "È l'ultima delle ragioni intelligibili e delle ragioni del mondo intelligibile; è la prima di quelle dell'universo sensibile, e per questo è in relazione con entrambe". (Enneade IV, 6, 3) "Ha una posizione intermedia tra gli esseri; ha una parte divina; ma, posto all'estremità degli esseri intelligibili e nei confini della natura sensibile, quest'ultima gli dà qualcosa di sé". (Enneade IV, 8, 7)

D'altra parte, l'anima è la potenza capace di passare da un capo all'altro della catena delle realtà e di assimilarsi a ciascuna di esse attraverso una serie di trasformazioni. "L'anima possiede molteplici poteri, in virtù dei quali occupa il principio, il mezzo e la fine delle cose". (Da un certo livello è sempre possibile salire a un livello superiore di vita spirituale che costituisce per essa un ideale o, come dice Plotino nel suo linguaggio metaforico, un demone. "Se riusciamo a seguire il demone che è al di là di noi, ci eleviamo noi stessi, vivendo la sua vita; quel demone a cui tendiamo è allora la parte migliore di noi stessi... Poi prendiamo per guida un altro demone, e così via, fino a raggiungere colui che è più alto. Perché l'anima è molte cose; è tutte le cose, quelle superiori e quelle inferiori, e si estende su tutto il dominio della vita. Ognuno di noi è un mondo intelligibile; legati alle cose inferiori dal corpo, tocchiamo le cose superiori con l'essenza intelligibile del nostro essere. "( Enneade III, 4, 3.)

Come sostiene Inge, l'anima è il grande viaggiatore nel paese metafisico. Per l'immaginazione realistica di Plotino, essa è l'espressione stessa della continuità che esiste tra le forme più umili della vita psichica e quelle più elevate della vita spirituale. Più che altro è slancio e movimento.

La psicologia plotiniana studia i vari livelli in cui si trova l'anima, dal più alto - l'estasi e la comunione con l'Uno, dove l'anima non è più un'anima" (VI, 7, 35) - al più basso, dove è una forza organizzatrice del mondo sensibile. Tra questi due punti si colloca quella che chiamiamo propriamente psicologia, cioè lo studio delle facoltà umane di comprensione, memoria, sensazione e passioni, facoltà che compaiono a un certo livello nella vita dell'anima.

Da qui l'ordine da seguire nello studio della psicologia di Plotino: prima tratterò della funzione propria dell'anima come intermediaria tra il mondo sensibile e quello intelligibile e come organizzatrice del primo; poi del viaggio dell'anima attraverso le varie regioni della realtà e del suo

destino; infine, mi soffermerò sui problemi psicologici in senso stretto, che riguardano le funzioni della coscienza.

Ma prima di affrontare il primo punto, e come necessaria introduzione, devo sottolineare il contrasto che, nel pensiero di Plotino, esiste tra l'anima concepita come forza organizzatrice dei corpi e l'anima concepita come sede del destino. Dal primo punto di vista, il contatto dell'anima con il corpo è il risultato della sua normale funzione, è buono e necessario. Al contrario, dal secondo punto di vista, il contatto dell'anima con il corpo è il risultato della sua impurità e dei suoi vizi.

Secondo l'azzeccatissimo suggerimento di Inge, questo contrasto è dovuto al fatto che in Plotino si scontrano due diverse tradizioni riguardo alla natura dell'anima: quella animistica, rappresentata dagli Stoici, che considera l'anima come una forza organizzatrice, e quella orfico-pitagorica, che giudica l'ingresso dell'anima nel mondo sensibile come una decadenza.

Va aggiunto, naturalmente, che Plotino ha trovato questa contraddizione in Platone, e che la cita espressamente. Dopo aver indicato i filosofi che hanno parlato dei rapporti tra l'anima e il corpo, aggiunge: "Ci resta il divino Platone, che ha detto molte cose belle sull'anima... e speriamo di ottenere qualcosa di chiaro". Che cosa dice dunque questo filosofo? Sembra che non dica sempre la stessa cosa. Da un lato, dice che essa è nel corpo come in una prigione e in una tomba... Nel Fedro, la perdita delle ali è la causa della sua caduta? Quindi, secondo tutti questi passi, l'ingresso dell'anima nel corpo è qualcosa di riprovevole. Ma, parlando nel Timeo dell'universo visibile, egli loda il mondo e lo dichiara un dio benedetto; l'anima è un dono della bontà del Demiurgo, destinato a introdurre l'intelligenza nell'universo. Perciò l'anima dell'universo è stata inviata da Dio nell’universo, così come l'anima di ciascuno di noi, affinché l'universo sia perfetto". (Enneade IV, 8,1.)

Ma in Plotino questo contrasto non era solo il risultato di un conflitto di tradizioni; egli ne aveva un vivo sentimento interiore. Come può l'anima, quell'essere vile che, ammirando le cose sensibili, "riconoscendosi inferiore ad esse, si pone più in basso delle cose soggette a nascere e a perire, e si ritiene la più spregevole e la più mortale delle cose che onora", essere la stessa "che ha creato tutti gli animali infondendovi la vita, che ha creato il sole e l'immenso cielo e vi ha messo ordine conferendogli un regolare moto rotatorio?" (Enneade V, 1, 2).

Questo conflitto è solo una manifestazione particolare del grande conflitto che ho evidenziato nel pensiero di Plotino: l'universo rappresentato come ordine razionale e l'universo rappresentato come luogo del destino. Esso viene risolto con una duplice elaborazione: da un lato, trasformando la dinamica dell’anima in senso favorevole alla sua visione del destino; dall'altro, cercando un accordo tra il pensiero greco e la teoria dell’anima. Gli ultimi grandi rappresentanti di tale teoria prima di Plotino, gli Stoici, cercarono tuttavia di restringerla e di mostrarne i limiti precisi. Tra le forze motrici della natura ammettevano l'esistenza di potenze inferiori all'anima, come la forza coesiva nei minerali o la forza vegetativa nelle piante. Nel senso preciso del termine, l'anima ha due caratteristiche specifiche: la rappresentazione e la tendenza, e può essere attribuita solo agli animali.

Al contrario, Plotino conferisce all'anima un'estensione illimitata. Ogni forza attiva in natura è un'anima o è legata a un'anima. Non solo il mondo ha un'anima e le stelle hanno un'anima. Anche la terra ha un'anima, grazie alla quale "dà alle piante il potere di generare"; a causa di quest'anima "una zolla di terra estratta dal terreno non è più la stessa di quando c'era; è evidente che le pietre aumentano di dimensioni finché sono attaccate al terreno e che smettono di crescere non appena vengono estratte dal terreno". (E. IV, 4, 27) Non esistono esseri inanimati nell'universo; se crediamo il contrario, è perché siamo ingannati da un'illusione: "diciamo che qualcosa non vive perché vive senza ricevere dall'universo un movimento accessibile ai nostri sensi, perché la sua vita ci sfugge; l'essere la cui vita è percepibile ai nostri sensi è composto da esseri che vivono in modo impercettibile alla nostra vista, ma i cui meravigliosi poteri si esercitano sulla vita dell'animale composto. L'uomo non potrebbe muoversi in tanti modi se il suo movimento derivasse da poteri interiori del tutto privi di anima; e l'universo sarebbe privo di vita se ognuna delle cose che lo compongono non vivesse di vita propria.... Ogni essere possiede una potenza efficace in quanto è stato fatto e formato nell'universo; ha quindi una parte di anima che gli proviene dall'universo". (E. IV, 4, 36, 37; cfr. anche E. VI, 7, 11).

A causa della sua fiducia nella vita, Plotino accettò con particolare attenzione la teoria stoica delle ragioni seminali. La ragione seminale è la forza che contiene in uno stato indivisibile tutte le caratteristiche che si svilupperanno separatamente e successivamente in un essere vivente; è qualcosa come la legge di sviluppo di quell'essere. Plotino la presenta spesso come un intermediario tra l'anima e l'essere vivente: "la ragione sarebbe in un certo senso uno degli atti dell'anima, un atto che non può esistere senza un soggetto agente. Tali sono le ragioni seminali; esse non esistono nell'anima e non sono semplicemente anime". (E. VI, 7, 5.) Ma a volte la ragione viene identificata con l'anima: "Le anime, nell'universo, non sono che frammenti della ragione universale. Tutte le ragioni sono anime". (VI, 2, 18.) Quindi la ragione seminale è solo un lato dell'attività dell'anima e non designa una forma di essere diversa dall'anima.

Questo vitalismo intemperante, questo panpsichismo, la cui eco risuona chiaramente nei pensatori del Rinascimento e persino in Leibniz, in Plotino non è altro che un mezzo per portare le forze della natura nella grande corrente della vita spirituale. E in effetti, essendo l’anima una forza naturale non è solo una forza motrice e attiva, confusa con la materia che comanda; è anche un'attività contemplativa che porta in sé l'ordine che impone, poiché ha contemplato questo ordine nell'Intelligenza. Da un lato, l'anima è in contatto con l'Intelligenza che è l'ordine stesso; dall'altro, è in contatto con la materia che ubbidisce e organizza.

È una forza organizzatrice nella sua parte inferiore solo perché, nella sua parte superiore, è un'attività contemplativa. Se Plotino attribuisce l'organizzazione e la contemplazione a due anime distinte o a due parti dell'anima, e se a volte oppone queste due parti come l'anima in senso stretto alla natura, queste differenze di espressione non alterano fondamentalmente le sue idee. In tutti i casi Plotino afferma che l'azione organizzatrice presuppone una contemplazione immutabile dell'ordine. "La parte principale dell'anima è in alto; sempre vicina alla vetta, in eterna pienezza e illuminazione, vi rimane e partecipa all'intelligibile; l'altra parte dell'anima che partecipa alla prima, agisce eternamente, seconda vita che proviene dalla prima vita, attività che si proietta ovunque e che è presente ovunque. L'anima, procedendo, lascia la sua parte superiore nel luogo intelligibile che la sua parte inferiore ha abbandonato; infatti, se la processione le facesse abbandonare quella parte superiore, non sarebbe più in tutto, ma solo dove la processione conduce." (E. III, 8, 5.)

È così che la produzione di cose sensibili non danneggia la vita spirituale dell'anima, che rimane intatta. Non significa né fatica né inquietudine per l'anima; "il corpo non danneggia l'anima che lo comanda, poiché essa sussiste nelle altezze intelligibili, amministrando tutto. L'universo animato è nell'anima che lo contiene; non c'è nulla in esso che non partecipi all'anima; è come una rete gettata nel mare: vive interamente permeata dall'acqua, ma non può appropriarsi dell'acqua in cui vive. E la rete si allarga il più possibile insieme al mare.... Così l'anima è sufficientemente grande per natura e può abbracciare in una sola e medesima potenza tutta la sostanza corporea; non ha una quantità limitata; ovunque si estenda un corpo, lì si trova; se non ci fossero corpi, la sua immensità non sarebbe intaccata; rimarrebbe così com'è". (E. IV, 3, 9).

L'anima del mondo assomiglia, quindi, a un oceano spirituale che bagna la realtà sensibile; non è come un operaio che ricorda, calcola e combina. In questo senso, la dottrina dell’anima di Plotino è lontana da qualsiasi antropomorfismo: come potrebbe Zeus, l'anima del mondo, ricordare i periodi passati del mondo, se ce ne sono un numero infinito? Ma "vede che questa infinità è una, e che c'è una sola scienza e una sola vita". (IV, 4, 9) "L'ordine del mondo è l'atto di un'anima che dipende da una sapienza permanente, la cui immagine è l'ordine interiore di quell'anima. E poiché questa sapienza non cambia, non deve cambiare nemmeno l'ordine, perché non c'è momento in cui l'anima distoglie lo sguardo da essa; se cessasse, l'anima cadrebbe nell'incertezza". (IV, 4,10).

Secondo quanto è detto, le forze all'opera nell'universo sono forze immutabili perché sono la contemplazione di un ordine immutabile. Esse non agiscono "come il medico che parte dall'esterno e procede parte per parte, che tenta e delibera a lungo, ma come la natura che guarisce partendo dal principio e senza bisogno di deliberare". (IV, 4, 11.)

La produzione di cose diverse, lungi dal significare un attacco alla loro immutabilità, la presuppone. "Il principio regolatore del mondo conosce il futuro come conosce il presente, con la stessa certezza e senza ragionamenti. Se non conoscesse il futuro che produce, non lo produrrebbe con cognizione di causa e secondo un modello; la sua produzione sarebbe accidentale e lasciata al caso. Quindi, nella misura in cui produce, è immutabile. Se è immutabile nella misura in cui produce, produce solo secondo il modello che porta in sé; produce tanto, in un solo e medesimo modo; perché, se cambiasse il suo modo di produrre a ogni istante, cosa impedirebbe il fallimento della sua creazione? Il governatore del mondo non deve mai sbagliare, non deve mai variare, anche se a volte si pensa che il governo del mondo sia una fatica. Ci sono difficoltà solo quando si lavora in un lavoro strano e dove non si è il padrone. Ma quando si è il padrone, e l'unico padrone del proprio lavoro, si ha bisogno solo di sé stessi e della propria volontà". (E. IV, 4, 12.)

Si vede chiaramente che la dottrina dell’anima di Plotino è quella di trasmutare le forze cosmiche in attività spirituali. Ora, esiste una parte inferiore dell'anima, al di sotto della parte dell'anima che contempla l'ordine intelligibile, che possa avere una propria attività creativa? Assolutamente no. Quella parte inferiore, produce solo perché è una ragione della natura, cioè "una contemplazione e un oggetto di contemplazione.... L'essere che contempla produce un oggetto di contemplazione. I geometri, per esempio, producono figure mentre contemplano. Ma io (è la natura che parla) non ne disegno nessuna; contemplo, e le linee dei corpi si disegnano come se scivolassero dal mio petto". (E. III, 8, 3, 4).

La potenza che, per produrre, si volge verso l'opera che compie, è, per così dire, solo un caso limite in cui la contemplazione è indebolita all'estremo; "l'azione non è che un'ombra della contemplazione e della ragione". È facile scoprire le intenzioni di Plotino in questa trasformazione della teoria animica. Per lui l'unica vera realtà è un ordine spirituale.

L'unica cosa che rimane dell'essere spirituale che si riflette, della legge o della ragione che si esprime, è il non-essere, la materia, il luogo vuoto della realtà in cui l'ordine si realizza. Un ordine o una ragione non possono esistere in quanto tali se non come oggetto di contemplazione o di scienza; anche nel mondo sensibile l'unica forza reale è la contemplazione e il suo oggetto. Le uniche forze efficaci sono di natura spirituale. La natura è come un sogno di questo ordine riflesso nella materia.

Questa dottrina spiritualista è quanto di più radicalmente opposto si possa concepire a tutta la fisica meccanicistica dello spirito. I suoi principi sono: Non considerare mai le parti come i veri elementi del tutto, ma come le produzioni del tutto; di conseguenza, considerare l'idea o la produzione del tutto come più reale delle parti stesse. Questi principi portano a stabilire relazioni di natura puramente spirituale tra le parti dell'universo; in questo modo il mondo sensibile diventa trasparente allo spirito e le forze che lo animano possono entrare nella grande corrente della vita spirituale.

L'intero sistema di Plotino nasce dallo sforzo di sopprimere tutto ciò che può essere opaco per la vita dello spirito nella realtà. L'anima non è che un barlume della vita spirituale. È l'espressione concreta, vivente, rappresentativa della forza che genera ordine nelle cose sensibili grazie alla sua contemplazione dell'ordine intelligibile.

L'ordine delle cose sensibili è rivelato dalla contemplazione dell'ordine intelligibile.

Ma c'è un evidente contrasto tra la vita universale e ordinata del mondo così come si rivela, in particolare nelle leggi dell'astronomia, e l'esplosione spontanea di molteplici vite che appaiono in disordine sulla terra. Da un lato, dunque, un ordine fisso; dall'altro, generazione e corruzione, vite in formazione e in decadenza.

Dopo Aristotele, questo contrasto è stato oggetto di gran parte della speculazione fisica e metafisica dell'antichità. Molti filosofi si sono proposti di far rientrare le molteplici vite, i destini particolari, nell'ordine dell'universo. Sappiamo, in particolare, come lo stoicismo risolse la questione.

Le singole anime sono frammenti dell'anima universale e sono soggette a un unico ordine, il Fato, che è la "connessione delle cause". Nonostante il declino dello stoicismo ai tempi di Plotino, la teoria della connessione delle anime nel sistema cosmico sopravvisse nelle credenze propagate dall'astrologia. Il culto del Sol invictus, che Aureliano istituì a Roma, comprendeva una teologia in cui la relazione delle anime con il cosmo era uno degli articoli principali: "Il sole, dio supremo", dice Franz Cumont, "fuoco dotato di ragione, è il creatore di ragioni particolari che dirigono il microcosmo umano. A lui si attribuisce la formazione delle anime; il suo disco splendente, emettendo i suoi raggi, è in grado di creare un'anima.

Egli invia costantemente particelle di fuoco nei corpi che risveglia alla vita e, dopo la morte, li riporta a sé. . . Nei bassorilievi mitraici, uno dei sette raggi che circondano la testa del Sole invitto si estende al toro, l'animale cosmogonico". Alcuni neoplatonici del II secolo, come Numenio, accettarono queste opinioni e, secondo la testimonianza dello stesso Plotino, possiamo vedere come cercarono di accordarle con i testi di Platone (IV, 3, 1). Plotino comprese anche molto bene l'intima relazione tra le credenze astrologiche, la tesi stoica del Fato e il riassorbimento delle anime individuali nell'anima universale (III, 1, 2, 7).

A questo insieme di credenze si oppone una concezione dell'anima completamente diversa, già presente nei miti platonici e sostenuta dagli gnostici conosciuti da Plotino. Essa ritiene che l'anima non sia di questo mondo; è solo per caso che viene coinvolta nell'ordine visibile e, per sua sfortuna, come risultato di una caduta. Per l'anima caduta si è formato l'ordine sensibile; ma l'anima ha una sua spontaneità radicale che le permette di riscattarsi.

Plotino attribuisce un'importanza fondamentale a questo conflitto di idee. Infatti, se la nostra anima fosse una porzione dell'anima universale, come il nostro corpo lo è del suo corpo, il nostro destino si limiterebbe a "subire l'influenza del moto circolare del cielo" (IV, 3, 7, fine). (IV, 3, 7, fine)

Perché le dottrine che concepiscono la nostra anima sono una porzione dell'anima universale, quest'ultima si frappone come uno schermo opaco tra noi e il mondo intelligibile.

D'altra parte, come possiamo ammettere che le anime siano isolate e separate l'una dall'altra, e non sentiamo una reciproca simpatia delle anime che garantisce la loro unità? "Noi uomini abbiamo in comune la sofferenza e la gioia, e sperimentiamo naturalmente l'attrazione dell'amicizia, e l'amicizia nasce dall'unità delle anime. Se gli incantesimi magici ci avvicinano e comunicano a grandi distanze, è grazie all'unità dell'anima. Le frasi pronunciate a bassa voce producono affetti lontani e sono udite a distanze immense; e questo permette di comprendere l'unità di tutte le cose che deriva dall'unità dell'anima" (E. IV, 9, 3).

Ma, stando così le cose, non sarebbe necessario negare la reale esistenza di una molteplicità di anime, e non ricadiamo nella dottrina che fa dei nostri pensieri "i pensieri di un altro essere...? Eppure è necessario che ciascuno sia sé stesso, che i nostri pensieri e le nostre azioni siano nostri, che le nostre azioni, buone o cattive, vengano da noi" (III, 1, 4.). (III, 1, 4.) In una parola, come si concepiscono le relazioni delle anime particolari con l'anima totale?

Le anime parziali sono parti dell'anima totale, e in che senso va intesa la parola parte? Se si immagina l'anima dell'universo come una massa corporea frammentata, si otterranno, è vero, anime multiple, ma a costo dell'unità. "L'anima si consumerebbe in un'infinità di punti". (IV, 9, 4) "Questo sarebbe distruggere l'anima (una) e ridurla a un semplice nome; se mai è esistita, è come il vino diviso in molte anfore, dicendo del vino che è in ciascuna delle anfore che è una parte dell'intera massa del vino". (IV, 3, 2.)

Le singole anime sono "parti dell'anima totale nel senso in cui, in un animale, si direbbe che l'anima dell'alluce è parte dell'anima del piede"? Accettando questa nuova ipotesi si manterrebbe l'unità della vita universale, ma non si spiegherebbe in alcun modo la molteplicità delle vite particolari. Infatti, secondo questa ipotesi "è necessario che l'anima sia la stessa dappertutto, che esista nella sua interezza dappertutto, una e la stessa in molti esseri allo stesso tempo. Ma allora non si può dire che da una parte c'è l'anima universale e dall'altra le parti di quest'anima". Si può forse aggiungere che la diversità dei poteri che l'anima universale esercita nelle diverse parti dell'universo non basterebbe a spiegare la molteplicità delle anime? Per esempio, l'anima universale si manifesta qui come potenza vegetativa, là come potenza sensibile. Questo però non spiega nulla, perché allora ogni anima, identificata con una potenza particolare, non possiederebbe, come invece possiede, almeno di diritto, le stesse potenze dell'anima universale. "Ciascuna delle parti, da sola, sarebbe incapace di pensare; solo l'anima universale ne sarebbe capace, oppure la pretesa parte sarebbe un'anima dotata di ragione, dotata di ragione quanto l'anima universale, e quindi sarebbe un'anima dotata di ragione quanto l'anima universale totale, diventando così identica a quest'anima e non una sua parte". (E. IV, 3, 3.)

Così, o si afferma l'unità a scapito della molteplicità, o la molteplicità a scapito dell'unità. È necessario concepire questa molteplicità e questa unità in modo totalmente diverso. In primo luogo, dobbiamo insistere sul fatto che le anime multiple sono omogenee tra loro e che hanno tutte, per così dire, la stessa capacità e possibilità di elevarsi a una vita spirituale. "Le nostre anime si elevano verso gli stessi oggetti dell'anima del tutto, e la loro funzione intellettuale è simile" (IV, 3, 1.). (IV, 3, 1.) "La nostra anima è della stessa specie dell'anima degli dèi; quando la consideriamo a parte e senza l'eccedenza che la avvolge, la troviamo preziosa come l'anima del mondo". (V, 1, 2) Ogni anima è in potenza in tutti gli esseri, e quindi è in unità con le altre anime. Poiché "anche gli altri, come noi, sono esseri, noi siamo tutti esseri, essi e noi siamo esseri; tutti insieme siamo esseri; tutti noi, dunque, non siamo che uno". (VI, 5, 7) Questa unità non è l'unità astratta di un punto. È l'unione delle anime che, attraverso la loro parte superiore, partecipano tutte alla stessa contemplazione intelligibile. Ma noi ignoriamo la nostra unità perché guardiamo fuori dall'essere da cui dipendiamo. Siamo tutti come una testa con molte facce rivolte verso l'esterno che non si rendono conto che all'interno della testa c'è n’è una sola. Se fosse possibile tornare spontaneamente, o se avessimo la fortuna che "Atena ci tiri fuori dalla testa", saremmo in grado di tornare spontaneamente, o se avessimo la fortuna che "Atena ci tiri fuori dalla testa i nostri capelli" vorremmo vedere sia Dio stesso e l'essere universale. Poiché non c'è alcun punto in cui porre i propri limiti per dire: "Questo è quanto sono", dobbiamo rinunciare a separarci dall'essere universale.

Non si può quindi dire, citando Plotino, che un'unica anima sia frammentata in più anime. Il problema della molteplicità delle anime si risolve facendo appello alla vita spirituale, nel cui massimo grado le anime raggiungono un tale stato di unione che non si può più parlare di molte anime. È uno stato di unione che si ipotizza in un'unica anima che precede tutte le altre. O, se si preferisce, l'anima singola è come un sistema la cui unità corrisponde a quella del sistema di idee intelligibili che contempla. "Le anime hanno, ciascuna, un legame di dipendenza con un'intelligenza e sono le ragioni delle intelligenze… Corrispondendo ciascuna a un intelligibile meno diviso di loro, hanno tuttavia la volontà di dividersi, ma non possono raggiungere il fine di questa operazione; conservano la loro identità con la differenza; ciascuna sussiste come essere, ma tutte insieme non formano che un solo essere. Ecco il punto principale della nostra tesi: tutte le anime procedono da un'unica anima; queste molteplici anime che procedono da un'unica anima sono come intelligenze; sono separate e non separate". (E. IV, 3, 5).

La moltiplicazione delle anime non consiste nella creazione di nuovi esseri, ma in un allentamento della tensione dei legami che le legavano all’anima universale e in un'accentuazione della particolarità di ogni anima. Mentre alcune anime "non hanno abbandonato l'anima universale, loro sorella" (IV, 3, 6) e "nascondono nell'universalità del mondo intelligibile ciò che possiedono di particolare, ve ne sono altre che, per così dire, balzano fuori dall'essere universale in un essere particolare in cui dirigono un'attività particolare" (VI, 4, 16.) Ogni anima o è universale in atto e particolare in potenza, oppure è "una con l'anima universale in atto e particolare in potenza". (VI, 4, 16.) Ogni anima o è universale in atto e particolare in potenza, essendo allora una cosa sola con l'anima universale, oppure, "deviando la sua attività, diventa un'anima particolare, anche se in un altro senso (in potenza) conserva la sua universalità". (Ibid.)

Infine, la molteplicità delle anime è quella di una vita spirituale che gradualmente diminuisce e svanisce dallo stato di unione a quello di dispersione. Tutte le immagini che Plotino utilizza per esprimere il suo pensiero tendono a mettere in primo piano l'idea di continuità tra i vari livelli della vita delle anime. È, dice riferendosi all'unica anima da cui tutte le anime procedono, "come se una città avesse un'anima. Ha degli abitanti, ciascuno dotato di un'anima, ma l'anima della città è più perfetta e più potente, anche se nulla impedisce alle altre di essere della sua stessa natura". O ancora: "Da un'unica anima derivano anime molteplici e diverse, così come da un unico genere derivano le specie superiori e inferiori". (IV, 8, 3).

Secondo questa teoria, il mondo delle anime è sottratto al dominio di un destino interiore del mondo, ed è direttamente collegato all'ordine intelligibile.

Plotino si trovava in presenza di una difficoltà analoga, ma molto più grande. In definitiva, la moltiplicazione delle anime termina con la loro dispersione nella materia e con la loro unione con corpi particolari ai quali conferiscono la vita. È un effetto naturale e necessario della legge della processione, della progressiva diffusione del potere spirituale. Un corpo vive perché ha ricevuto "come un'illuminazione o un'eccitazione" il segnale dell'anima che era preparato a ricevere. Di conseguenza, non c'è nulla che non sia un fatto naturale e necessario.

Ma, d'altra parte, i miti di Platone e le credenze religiose prevalenti al tempo di Plotino rappresentavano la caduta dell'anima nel corpo come il risultato di un'azione spontanea dell'anima, un'azione cattiva in sé, conseguenza e principio allo stesso tempo di tutte le disgrazie dell'anima. Plotino si chiede: come si può conciliare questo con quello? "Se l'anima (che illumina i corpi) non è cattiva in sé, se questo è il suo modo di entrare e di essere presente nei corpi, che senso hanno le periodiche ascese e discese delle anime? Perché le punizioni? Perché la trasmigrazione nei corpi di altri animali? Questi sono insegnamenti ricevuti dai filosofi antichi che meglio si sono occupati delle questioni dell'anima; è conveniente mostrare che la nostra tesi concorda, o almeno non è in disaccordo, con la loro". (E. VI, 4, 16.)

Per quanto buona possa essere la volontà di Plotino in questo senso, dobbiamo sottolineare che nella sua teoria permane un persistente contrasto tra le due concezioni. Da un lato, la produzione di corpi viventi e animati è considerata una funzione naturale dell'anima. "Le anime non devono esistere da sole senza che i prodotti della loro attività si manifestino; è insito in tutta la natura il prodursi e lo svolgersi da un principio indivisibile - una specie di seme - in un effetto sensibile.... Essendo la materia eterna, è impossibile, dal momento che esiste, che non partecipi del principio che dà il bene a tutte le cose, nella misura in cui esse sono in grado di riceverlo". (E. IV, 8, 6) “L'animazione dei corpi entra nell'ordine universale. Tutto nel mondo è determinato dalla sottomissione a un'unica ragione; tutto è regolato: la discesa e l'ascesa delle anime, così come tutto il resto. La prova dell'armonia delle anime con l'ordine universale, la prova che esse non agiscono isolatamente ma coordinano le loro discese e si accordano con il moto circolare del mondo, è che le loro condizioni, le loro vite e le loro volontà sono simboleggiate dalle figure che formano i pianeti e si armonizzano in un unico tema melodico. Non potrebbe essere così se nell'universo non ci fossero azioni e passioni in corrispondenza con questa vita delle anime, e se non ci fossero volontà in corrispondenza con…i loro periodi, le loro disposizioni e la loro vita nel corso che seguono". (E. IV, 3, 12.)

L'anima tende, senza riflettere prima, verso il corpo che l'anima del mondo le ha destinato; "si muove verso il corpo che più le assomiglia... Quando arriva il momento scende, come al suono di un araldo". (IV, 3, 12, 13 e VI, 7, 7.) L'anima si estende così naturalmente, in virtù di una processione necessaria, dal mondo intelligibile dove rimane sempre la sua parte superiore, alla pianta che stimola e anima. "Sembrerebbe che l'anima si estenda alle piante; e in effetti si estende, poiché il principio vegetativo appartiene all'anima. Ma non si estende con tutti i suoi poteri; arriva fino alle piante perché, scendendo nella regione inferiore, produce un'altra esistenza nella stessa processione, per benevolenza verso gli esseri inferiori; ma lascia che la sua parte superiore connessa con l'intelligenza, e che è la sua stessa intelligenza, rimanga immobile in sé stessa". (E. V, 2, 1.)

Ma in altre parti della sua opera Plotino si esprime diversamente, e l'orgoglio e l'audacia dell'anima sono allora le cause della sua caduta in un corpo. "Le anime contemplano la loro immagine riflessa come nello specchio di Dionisio e si scagliano su di essa dall'alto". (IV, 3, 12) L'anima non si accontenta di irradiare luce, ma è attratta dal riflesso che essa stessa produce. Mentre alcune rimangono immobili, altre sono attratte dal riflesso brillante che producono nelle cose che illuminano.... Trattenuti nei loro corpi, i legami magici li incatenano e le sollecitazioni proprie della natura del corpo le possiedono interamente. (E. IV, 3, 17)

Non si tratta più dell'eterna processione con cui l'anima si estende, ma di una decisione positiva e momentanea con cui l'anima si esclude dalla corrente della vita spirituale e ne viene posseduta. "Le anime passano dall'universo alle loro parti; ognuna vuole esistere da sola, si stanca di vivere con gli altri e si separa. Quando rimane a lungo in questo allontanamento e in questa separazione dal tutto senza dirigere lo sguardo verso l'intelligibile, diventa un frammento, si isola... attratta da un solo oggetto sottratto al tutto, si estranea da tutto il resto. Si concentra su quest'unico oggetto, che subisce l'azione distruttiva di tutti gli altri, si esclude dal tutto, governa con difficoltà il suo oggetto particolare con cui è ora in contatto; lo preserva dagli oggetti esterni, è presente in esso e infine lo penetra in larga misura. Questa è l'origine di ciò che si chiama perdita delle ali". (E. IV, 8, 4)

È infatti necessario distinguere tra l'atto naturale e necessario con cui l'anima avvolge un corpo e l'atto con cui aderisce volontariamente, per così dire, al corpo. Al momento della riflessione nella materia (il corpo vivente) "essa è ancora al suo posto, nella regione intermedia. Ma riflette di nuovo l'immagine; in questo secondo sguardo le ha già dato una forma e, gioiosa, scende verso di essa" (III, 9, 3). (III, 9, 3.)

Così vediamo che, nel mito della discesa, l'anima va "al di là del necessario", cioè al di là di ciò che è richiesto dalla legge di processione. Una volta completata la processione, l'anima ha nell'intelligibile la sua parte superiore, più giù un riflesso di sé nella materia, e tra la parte superiore e il riflesso, una parte intermedia. Solo allora avviene la "discesa": la parte superiore rimane nell'intelligibile, ma la parte intermedia dell'anima si precipita nel suo riflesso.

Tra queste due rappresentazioni c'è un'innegabile contraddizione. Plotino non fornisce i mezzi per superarla, ma forse è possibile spiegarla. La teoria della processione presenta l'anima come un'attività spirituale ipostatica che si estende dal mondo intelligibile a quello sensibile. Ma questa ipostasi che costituisce la nostra anima non è noi stessi, o almeno non del tutto. A questa realtà che esiste in sé e costituisce la nostra anima si aggiunge il nostro atteggiamento nei suoi confronti; possiamo infatti essere in essa su livelli diversi, separati dalla sua parte superiore.

Ora, che cos'è il noi che si differenzia dall'anima, ma non del tutto? Plotino sembra talvolta avere l'intuizione di un'attività propriamente soggettiva che non può essere trasformata in cosa e ipostasi. La nostra anima si estende davanti a noi come un oggetto e, propriamente, non è l'anima ad essere dotata di un movimento discendente, ma è il corpo che si avvicina ad essa per essere illuminato. Siamo in grado di identificarci con il riflesso e anche di separarci, e in questo modo introduciamo una sorta di scissione tra noi e la parte superiore della nostra anima, una scissione che solo per il bene della nostra stessa anima possiamo essere in grado di identificarci con il riflesso.

Esistiamo senza rompere la continuità tra il mondo intelligibile e quello sensibile. In altre parole, il nostro io, ciò che siamo, non si adatta alla nostra anima. "Essendo padroni di cose così grandi", si chiede Plotino dopo aver enumerato le proprietà dell'anima, "perché non le percepiamo? Perché non esercitiamo queste attività per la maggior parte del tempo? Perché alcuni uomini non le esercitano affatto? Queste cose importanti sono sempre in attività, sia l'intelligenza che il principio primo? Anche l'anima è animata da un movimento eterno, ma non percepiamo tutto ciò che è nella nostra anima. Solo ciò che noi percepiamo attraverso la sensazione ci raggiunge; finché un'attività non si trasmette alla sensibilità, non passa attraverso tutta l'anima. Poiché abbiamo la facoltà di percepire, ignoriamo il fatto che non siamo un frammento dell'anima, ma l'anima intera. Ogni parte dell'anima vive e agisce sempre secondo la propria funzione, ma noi la conosciamo solo nella misura in cui ne abbiamo comunicazione e percezione (ossia nel contatto col sensibile)".

Così vediamo che, nonostante la logica del sistema della processione, la nostra stessa attività, il nostro atteggiamento spirituale soggettivo - se possiamo usare questa espressione - tende, in Plotino, a staccarsi da quell'attività spirituale trasformata in ciò che è l'ipostasi. Sebbene sia l'ordine stesso delle cose a fornirgli le immagini di questa attività, sebbene non sia esso stesso a stabilirle, non è del tutto imprigionato, poiché può muoversi.

"Questo principio già citato domina l'intera psicologia di Plotino, intesa nel senso speciale del termine. Negli stati spirituali superiori, il sentimento della personalità scompare, così come l'attenzione alle cose esterne. L'uomo che ha raggiunto il mondo intelligibile non conserva un ricordo completo di sé; non ricorda che è stato lui, pinco pallino, a contemplare; non sa se è un'intelligenza o un'anima. Pensiamo a quegli stati di contemplazione molto profonda che a volte si verificano quaggiù, dove il pensiero non si ripiega su sé stesso. Noi possediamo noi stessi, ma tutta la nostra attività è diretta verso l'oggetto contemplato, diventiamo quell'oggetto, ci offriamo ad esso come materia che esso plasma; non siamo più noi stessi se non in potenza".

Le normali funzioni dello spirito, il ragionamento, la memoria, la sensibilità, non sono il centro, ma derivazioni, limitazioni della vita spirituale. Per Plotino, la coscienza, lungi dall'essere l'essenziale, è un accidente, qualcosa di simile a un rilassamento. Quando l'anima è meno cosciente, possiede le proprie qualità in modo più forte (IV, 4, 4). Pensiamo sempre però non sempre percepiamo il nostro pensiero. (IV, 3, 30) "Questa azione (del pensiero) sfugge quando non è in relazione con un oggetto sensibile, perché solo attraverso la sensazione è possibile mettere in relazione la sua attività con gli oggetti intellettuali.... L'impressione sembra aver luogo quando il pensiero si ritira in sé stesso, e quando l'essere in azione nella vita dell'anima diventa, per così dire, invertito, come l'immagine in uno specchio quando la sua superficie lucida e brillante è immobile.... Se la parte di noi stessi in cui si manifestano i riflessi della ragione e dell'intelligenza non viene scossa, i riflessi sono visibili, e allora non solo l'intelligenza e la ragione conoscono, ma si ha anche una sorta di conoscenza sensibile di quell'azione. Ma se lo specchio si frantuma a causa di una sovrastante agitazione dell'armonia del corpo, la ragione e l'intelligenza agiscono senza riflesso, e allora c'è pensiero senza immagini.... Anche nella veglia si possono trovare attività molto belle, meditazioni e azioni non accompagnate dalla coscienza. Chi legge, per esempio, non è necessariamente consapevole di leggere, soprattutto se legge con attenzione".

Da ciò consegue che l'anima, nel più alto grado di vita spirituale, non ha memoria, perché l'anima è al di fuori del tempo, non ha sensibilità, perché l'anima non ha relazione con le cose sensibili, e non ha ragionamento o pensiero discorsivo, perché "non c'è ragionamento nell'eterno". Tra le funzioni normali della coscienza e della natura intima dell'anima c'è una contraddizione.

La spiegazione di Plotino consisterà nel mostrare come queste funzioni dell'anima nascano da un graduale declino della vita spirituale. A causa dell'abbassamento del livello dell'anima nella realtà metafisica, vediamo sorgere in essa la memoria, la sensibilità e la comprensione. La psicologia consiste nel determinare il livello preciso di una determinata funzione. La psicologia è molto frammentaria in Plotino, ma egli dedica lunghe indagini alla memoria, che è proprio ciò che studierò per primo.

A che livello ha origine la memoria? La memoria, come pensavano gli stoici, è una funzione della parte dell'anima legata al corpo? Assolutamente no, perché la memoria ha luogo una volta che l'impressione sensibile è svanita. D'altra parte, non c'è memoria solo delle cose sensibili, ma anche delle conoscenze acquisite dalla scienza (IV, 3, 25.).

La risposta è che la memoria esiste solo nell'anima legata al corpo? Senza dubbio. Ma, per prima cosa, l'impressione prodotta dall'oggetto sensibile non è qualcosa di materiale; l'anima non è una "superficie con uno strato di cera". L'impressione è una "specie di intellezione" nell'anima, anche nel caso delle cose sensibili. Inoltre, se la memoria è qualcosa di che si conservi, è a causa di certe caratteristiche dell'anima e che "non è una delle cose che sono in perpetuo divenire". E infine, il corpo è un ostacolo alla memoria: bere non porta forse alla dimenticanza? (Ibidem, 26).

La memoria, dunque, è qualcosa di proprio dell'anima finché non è legata al corpo. Ma quale livello occupa nell'anima? È necessario attribuire a ciascuna facoltà il ricordo degli oggetti corrispondenti, dicendo, per esempio, che è grazie alla facoltà di desiderare che ricordiamo gli oggetti desiderati? Assolutamente no. È vero che, come risultato di un desiderio soddisfatto, si produce una modificazione nella facoltà di desiderare che viene conservata; ma questa modificazione è una semplice disposizione o affetto presente, e non è la memoria stessa. (Ibidem, 28.)

La memoria non è nemmeno la persistenza dell'impressione sensibile. L'esperienza ci dimostra che non esiste il legame necessario, che dovrebbe esistere in questo caso, tra una buona memoria e una percezione precisa e raffinata. Si tratta di fatti di ordine diverso. La memoria, almeno quella delle cose sensibili, ha come oggetto proprio l'immagine, alla quale tende la sensazione, ma la cui conservazione dipende dall'immaginazione (Ibidem, 28).

Si potrebbe obiettare che questo spiega la memoria delle cose sensibili ma non quella delle cose intellettuali. Plotino risponde che, se c'è, propriamente parlando, memoria di esse, è solo nella misura in cui le cose intellettuali sono legate alle immagini sensibili. Se, come dice Aristotele, un'immagine accompagna ogni pensiero, la persistenza di questa immagine, che è come il riflesso della concezione del pensiero, spiegherà il ricordo dell'oggetto conosciuto. Alcune di queste immagini hanno un'importanza del tutto particolare: sono le formule verbali che accompagnano ogni pensiero. Il pensiero è un indivisibile; finché non si esprime all'esterno, finché rimane interiore, ci sfugge. Svelandolo e facendolo passare dallo stato di pensiero a quello di immagine, il linguaggio riflette il pensiero come uno specchio. Ed è così che il pensiero viene percepito; viene conservato e ricordato". (IV, 3, 30).

Si vede così qual è il luogo proprio della memoria: è nell'anima, ma non nell'anima purificata da ogni contatto con il corpo. Man mano che avviene la purificazione, la memoria viene gradualmente eliminata. "Quanto più l'anima tende all'intelligibile, tanto più dimentica le cose di quaggiù; e, in questo senso, si può dire che l'anima buona che è un’anima smemorata". (Ibid., 32) Quando si trova nella regione intelligibile non conserva più ricordi. "Quando il pensiero si applica alle cose intelligibili, non si può fare altro che pensarle e contemplarle; e il pensiero attuale non comporta il ricordo di aver pensato". Non si può obiettare che il pensiero intellettuale è un movimento che comprende momenti successivi come la divisione del genere in specie e, quindi, ad ogni movimento, è il ricordo dei momenti precedenti. Si tratta, infatti, di un'anteriorità e di una posteriorità logiche che hanno a che fare con l'ordine e non con la successione nel tempo. Né l'ordine di dipendenza delle parti di una pianta impedisce di coglierla con un solo sguardo (IV, 4, 1.).

Da questo stato superiore si può vedere come nasce la memoria nell'anima. Nasce nel momento in cui l'anima lascia l'intelligibile e tende a distinguersi dal resto. Allora non c'è più completa assimilazione tra l'anima e il suo oggetto. È questa distanza tra l'anima e il mondo intelligibile che determina il fatto che l'anima non possiede altro che immagini. "L'anima possiede ancora tutte le cose, ma le possiede secondariamente, e quindi non può essere perfettamente tutte le cose". L'immagine nasce, dunque, da una penetrazione incompleta dell'oggetto, che basta, tuttavia, a disporre l'anima in conformità a quell'oggetto (Ibid., 3).

Si potrebbe ora obiettare: la vita delle anime, compresa quella delle anime superiori come le anime delle stelle, non è forse soggetta alla durata? L'anima della stella non agisce nella durata per dirigere il suo corpo stellare e non deve, nonostante la sua superiorità, conservare il ricordo dei momenti passati della sua attività? Ma la memoria di questi momenti presupporrebbe che un momento possa essere distinto e isolato dagli altri. Ma non è sempre così. La vita di una stella non è divisa in frammenti che possono essere separati. "Distinguere nel periodo di una stella un ieri e un ultimo anno, equivale a pretendere di dividere il movimento di un piede che fa un passo in molte direzioni, e come se si vedesse in questa singola impulsione una moltitudine di impulsi singoli e successivi". La durata della vita di una stella è indivisibile; siamo noi che, dal nostro punto di vista, distinguiamo i giorni e le notti e le parti del tempo (E. IV, 4, 7).

Le considerazioni precedenti ci mostrano meglio a quali condizioni la vita nel tempo è accompagnata dalla memoria. È a condizione che la durata temporale perda la sua unità e si frammenti. La memoria dipende allora dall'atteggiamento dell'anima. Essa rivive il passato solo quando è interessata a farlo rivivere. Non accoglie nella memoria certe sensazioni provocate da vari oggetti quando non le interessano. In particolare (e questo è il caso della stella), se dobbiamo compiere sempre la stessa azione nelle stesse condizioni, non conserveremo il minimo ricordo della successione del tempo. Quando si ripete sempre lo stesso atto, è inutile conservare il ricordo di ogni dettaglio di questo atto, perché è sempre lo stesso". (La memoria, quindi, ha luogo solo in una vita frammentata, incessantemente assalita da nuove impressioni e da bisogni che rinascono continuamente.

Lo studio di Plotino sulla memoria è uno dei più appropriati per dare un'idea del metodo che segue nelle indagini psicologiche. Vediamo come ha applicato questo metodo al problema del piacere e del dolore.

Il livello del piacere e del dolore è inferiore a quello della memoria. Non appartengono interamente all'anima, ma anche al corpo che si aggiunge ad essa e al composto di anima e corpo. Nel corpo inanimato non c'è affetto che sia indifferente alla dissoluzione delle sue parti, perché la sua sostanza rimane. Ma quando il corpo si unisce all'anima, forma con essa "un'alleanza pericolosa e instabile", che genera difficoltà. Il corpo, infatti, è soggetto a ogni sorta di modificazioni, più o meno compatibili con la presenza della vita che gli viene dall'anima. Quando la sua organizzazione viene intaccata, "si verifica una regressione del corpo, che rischia di essere privato dell'immagine che possiede dell'anima" e, nel preciso momento in cui viene intaccata, si verifica il dolore. Ecco perché il dolore viene sperimentato e localizzato nella parte malata. Solo il corpo soffre. Al contrario, il piacere si verifica nel momento in cui la modificazione corporea è di natura tale da permettere al corpo di ricevere nuovamente l'influenza dell'anima.

In una parola, il piacere è un aumento e il dolore una diminuzione della vitalità corporea. Da distinguere dal piacere e dal dolore è la percezione dell'anima, che avviene a un livello superiore. "La sensazione, in quanto tale, non è sofferenza, ma conoscenza della sofferenza; ed essendo conoscenza, è impassibile". (IV, 4, 18-19).

Il desiderio è, secondo Plotino, un fenomeno complesso che si svolge a diversi livelli. Il corpo vivente è il corpo vivente. "Non è l'anima che cerca i sapori dolci o amari, ma il corpo, ma un corpo che non vuole essere un semplice corpo" e che li cerca per aumentare la sua vitalità. In questo grado, il desiderio è inclinazione o pre-desiderio; dipende dallo stato attuale del corpo. In un secondo grado, il desiderio è in natura, cioè in quella parte emanata dall'anima che mantiene in vita il corpo. Delle inclinazioni del corpo, la natura accetta solo quelle che possono essergli utili; si unisce ai desideri del corpo solo quando si tratta di desideri che non dipendono dall'interesse momentaneo dell'organo interessato, ma che tendono alla conservazione dell'organismo. In un terzo grado, infine, il desiderio raggiunge l'anima. "La sensazione presenta l'immagine dell'oggetto; in base a questa immagine l'anima, secondo il suo ruolo, o soddisfa il desiderio, o lo resiste, lo sopporta, senza badare né al corpo, da cui è partito il desiderio, né alla natura che lo ha desiderato in seguito". (IV, 4, 20-21).

Anche nell'ira Plotino distingue ciò che proviene dal corpo - l'agitazione della bile e del sangue - e ciò che proviene dall'anima. Prima c'è l'immagine dell'oggetto che ha causato la rivoluzione organica, poi la prontezza dell'anima ad attaccare e a difendersi. Ma c'è anche "un'ira che viene dall'alto"; la rappresentazione dell'oggetto e la disposizione morale sono quindi precedenti alle modificazioni fisiologiche (IV, 4, 28).

Questi esempi bastano a rivelare l'ampiezza del metodo di Plotino in materia psicologica e l'intuizione, forse più precisa di qualsiasi altro filosofo dell'antichità, dell'importanza dei fenomeni organici nella vita dell'anima.

Plotino ritiene che la comprensione sia il livello proprio e normale dell'anima, intermedio tra l'intelligenza e il mondo sensibile. La comprensione equivale a noi stessi, mentre il corpo, da un lato, e l'intelligenza, dall'altro, sono solo nostri.

La comprensione ha tre funzioni principali: innanzitutto, compone e divide partendo da immagini derivate dalla sensazione. Dispiega, ad esempio, l'immagine di Socrate, dettagliandola con l'aiuto dell'immaginazione. In secondo luogo, adegua i dati della sensazione a quelli che riceve dalle idee intelligibili: giudica se Socrate è buono, non in base ai meri dati sensibili, ma secondo la regola del bene. Infine, cerca la corrispondenza tra le immagini presenti e recenti e quelle passate, cioè riconosce; nella persona che gli viene presentata, riconosce Socrate.

Secondo Plotino, la comprensione ha una funzione discorsiva e relazionale. Essa "sa di essere discorsiva, cioè cerca di capire le cose esterne". Ma, in questo sforzo di comprensione, sale verso l'intelligenza e riceve l'illuminazione (V, 3, 2-3.).

Fraintenderemmo questa psicologia se pensassimo che le facoltà inferiori si aggiungono all'anima quando questa scende di grado. Sarebbe come ammettere che, lungi dall'impoverirla, tale discesa la arricchisce, la fa progredire mettendo in azione poteri fino ad allora latenti. In realtà le facoltà inferiori non sono che un'espressione impoverita e una forma carente di ciò che è eternamente contenuto nell'anima. La facoltà di sentire dell'uomo sensibile è, per esempio, il riflesso di una facoltà di sentire superiore che "l'uomo intelligibile", cioè la parte superiore dell'anima, possiede. "Gli esseri intelligibili possono essere chiamati senzienti, perché sono, a loro modo, oggetti di percezione. Qui sotto, la sensazione che chiamiamo sensazione perché è legata ai corpi, è più oscura della percezione che avviene nell'intelligibile, e solo in apparenza è più chiara. Chiamiamo l'uomo di quaggiù sensibile perché percepisce meno perfettamente e percepisce immagini inferiori ai suoi modelli; le sensazioni sono pensieri oscuri e i pensieri intelligibili sono sensazioni chiare". (VI, 7, 7.)

 

N.B – I brani delle Enneadi di Plotino citati nel testo sono una traduzione di quelle riprodotte nel volume di Brehier “Storia della Filosofia” dal quale è tratto il presente articolo.

 

(Traduzione dal francese di Mystes)

 

 

INCANTAMENTI MAGICI

 

“Tuttavia, quando mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa, risposi a fatica che lo conoscevo.
«Qual è allora?» chiese.
E io risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c'era una formula magica; e se veniva cantata mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire completamente; senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilità.
E quello di rimando: «Allora trascriverò la formula da te».
«Se mi persuaderai o anche se non mi persuaderai?», dissi io.
Scoppiato a ridere dunque disse: «Se ti persuaderò, o Socrate».
«E sia», conclusi; «e tu conosci bene il mio nome?» «Sarei colpevole, se non lo conoscessi», disse, «si fa non poco parlare di te tra i giovani della mia età, ma io poi mi ricordo che quando ero ancora un fanciullo eri in compagnia di Crizia qui presente».

«Ben fatto», dissi io, «ti parlerò così più liberamente della formula magica, di cosa si tratti: poco fa non sapevo in che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide, la sua natura e tale per cui non è in grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai già sentito da bravi medici, quando uno va da loro perché è malato agli occhi, dicono che non è possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme anche la testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per sé stessa senza il corpo intero è una follia totale. In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di curare e di sanare con il tutto la parte; o forse non ti sei accorto che dicono questo e che le cose stanno così?» «Certo», rispose.

«E pensi che parlano bene e accetti questo ragionamento?» «Assolutamente», rispose.

E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio e a poco a poco si risvegliò di nuovo in me l'arditezza, mi ravvivai e dissi: «Tale dunque, o Carmide, è anche il caso di questa formula magica.

Io l'imparai laggiù, nell'esercito, da uno dei medici traci di Zalmoxis, dei quali si dice che sanno rendere immortali. Questo Trace diceva che i Greci facevano bene a dire quel che io dicevo poco fa, ma Zalmoxis, continuava, il nostro re, che è un dio, dice che non bisogna cercare dì guarire gli occhi senza la testa né la testa senza il corpo, allo stesso modo il corpo senza l'anima, ma questa sarebbe anche la causa del fatto che molte malattie sfuggono ai medici greci, perché trascurano il tutto, di cui bisognerebbe aver cura; e se il tutto non sta bene, è impossibile che la parte stia bene. Disse che infatti dall'anima muove ogni cosa, sia i beni sia i mali, al corpo e all'uomo intero, e da qui fluiscono come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare l'anima in primo luogo e in massimo grado, se vuoi che anche le condizioni della testa e del resto del corpo siano buone. Disse che l'anima, mio caro, va curata con certi incantamenti: questi incantamenti sono i bei discorsi; in seguito a tali discorsi appare nell'anima la assennatezza, per la comparsa e la presenza della quale è ormai più facile procurare la salute e alla testa e al resto del corpo.

Nell'insegnarmi dunque il rimedio e gli incantamenti, aggiunse "Che nessuno ti persuada a curare la propria testa con questo rimedio, nessuno che non abbia prima consentito a far curare l'anima da te con questa formula magica. E infatti ora", continuò, "è diffuso questo errore tra gli uomini: alcuni cercano di essere medici separatamente dell'una e dell'altra, della assennatezza e della salute". E mi comandò con molta decisione che non dovesse esserci nessuno così ricco né nobile né bello, che mi persuadesse a fare diversamente. Io allora - infatti gli ho prestato un giuramento e devo necessariamente obbedirgli - obbedirò dunque, e a te, se, seguendo gli ordini dello straniero, vorrai consentire in prima istanza a che l'anima venga incantata dalle formule magiche del Trace, fornirò il rimedio per la testa; altrimenti non sapremmo cosa fare per te, caro Carmide».

Dopo aver ascoltato le mie parole, Crizia disse: «Sarebbe un colpo di fortuna per il giovanetto, o Socrate, il mal di testa, se sarà costretto a diventare migliore anche nel pensiero per via della testa. Ti dico tuttavia che Carmide ha fama di eccellere tra i giovani della sua età non soltanto per la bellezza, ma anche per questa stessa cosa per la quale dici di possedere la formula magica: tu intendi l'assennatezza, o no?» «Certamente», dissi io.

«Dunque sappi bene», continuò, «che ha fama di essere di gran lunga il più assennato di quelli di adesso, e in tutto il resto, per l'età che ha raggiunto, non è inferiore a nessuno».

Ho citato in apertura di questo mio scritto un brano del dialogo di Platone intitolato “Carmide” nel quale il celebre filosofo tratta, sia pur brevemente ma di maniera molto efficace, il tema della malattia e della cura.

La terapeutica, fin dall’antichità, è stato sempre un tema importante, per l’argomento, ma soprattutto perché la salute dell’uomo è la materia su cui si sono cimentati un po' tutti.  Alcuni lo hanno fatto e lo fanno ancora oggi con estremo rigore e competenza, appoggiandosi sulle conoscenze trasmesse loro dai grandi maestri della medicina e sulle proprie esperienze, altri di maniera empirica e approssimativa.

Questi ultimi si sono limitati a esprimere solo opinioni o a dare modesti consigli che lasciano il tempo che trovano.

Il brano di Platone è di una importanza straordinaria e spiego subito il perchè: prima di tutto Platone è il padre della filosofia mentre il brano su citato deve essere classificato come una lezione di terapeutica magica e non come una lezione di filosofia. Cosa significa? Che Platone oltre ad essere il padre fondatore della filosofia deve essere considerato simile a un Hermes Trismegisto padre della scienza dei magi?

Sulla posizione storica di Hermes Trismegisto crediamo di avere le idee chiare, e anche su Platone filosofo, mentre sul Platone terapeuta abbiamo la necessità di fare e ricevere alcuni chiarimenti.

Pierre Hadot, per esempio, uno dei maggiori esperti di Platone, nelle sue opere sulla filosofia antica, ha richiamato l'attenzione su alcuni aspetti pratici della vita filosofica concepita nell'antichità. La filosofia antica si caratterizzava per essere la proposta di uno stile di vita che prevedeva basicamente la pratica di esercizi spirituali finalizzati all'assimilazione della dottrina filosofica e alla trasformazione della stessa vita del filosofo, definito in taluni casi un iniziato. Il fine ultimo di queste pratiche o esercizi era quello di realizzare un cambiamento radicale di vita nel filosofo e il fine ultimo del filosofo, come è noto, è l’immortalità dell’anima.

Chi ha dimestichezza con gli scritti e gli insegnamenti di Giuliano Kremmerz, fondatore della Fratellanza Terapeutica Magica di Myriam, sa benissimo l’importanza che il Maestro di Portici dava alle “pratiche” della Scuola, considerate la linfa vitale nella vita e nelle realizzazioni della via ermetica.

Chiarisce Alcinoo nel Didascalico: “Raggiungiamo la divinità per natura e con l'ausilio di uno stile di vita e di esercizi secondo la tradizione, nonché il più importante: la parola, l'insegnamento e la trasmissione delle cose contemplate, in modo da allontanarci dalla maggior parte degli affari umani ed essere sempre vicini all'intelligibile”.

Ma cosa vuol dire Alcinoo quando si riferisce all’uso della “parola”?

Ce lo spiega Manlio Magnani nel capitolo “Mantra” del Supremo Vero: “La Parola anzitutto è una massa di suono puro, di energia radiante, che gli indù chiamano "vajra-âkâçâ", un etere "rigido e di fulmine". Questa parola primigenia, ha un senso, cioè un artha; ha un "dentro" cioè un "svârupa", questa folgoranza che non ha forma, e esso è appunto il Brahman supremo ed occulto. I due sono uno, dualità-unità. Non vi è luogo per una "pratyaya", cioè apprensione o appercezione. E perciò quello stato è chiamato falera anche "il senza suono, l'ineffabile, l'immobile", perché non vi è stato o condizione di apprensione o appercezione. La rivelazione in tale stato è autorivelazione, perché l'espressione è rivelazione, identità, spirito, senso eterno; "artha" e "çabda" sono una sola cosa. Nel simbolismo Indù questa Parola così rivelantesi è detta la dea "Çakti", (che corrisponde a la Aisha o forza volitiva efficiente di Aish, di Mosé), femmina ardente che vibra e si muove scostandosi e tornando all'amplesso sul corpo "fisso" "ghiaccio" del maschio "Çiva" che essa avvolge (corrisponde all'Adamo - Aish di Mosé)”.

Nel linguaggio filosofico l’ineffabile può essere identificato con ciò che nella letteratura magico-terapeutica è considerata la realizzazione oggettiva del rito terapeutico praticato come atto di amore. Un atto magico se eseguito con regolarità ossia nel rispetto delle regole dell’incantamento così come definito da Carmide può avere solo il risultato perseguito e rappresentato nel segno magico e dalle parole che lo racchiude e lo simbolizza.

Esaminando più da vicino il dialogo del Carmide, la nostra attenzione si è soffermata soprattutto su queste parole: “…poco fa non sapevo in che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide, la sua natura è tale per cui non è in grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai già sentito da bravi medici, quando uno va da loro perché è malato agli occhi, dicono che non è possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme anche la testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per sé stessa senza il corpo intero è una follia totale. In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di curare e di sanare con il tutto la parte…”

Leggendo con calma mi sfolgoravano in mente gli insegnamenti della scuola ermetica.

Infatti, ogni qual volta si parla di curare un dolore e una malattia, non si può e non si deve prescindere dallo stato generale dell’ammalato, sicchè pur rendendosi necessario intervenire ritualmente sulla parte ammalata, non si può e non si devono ignorare le condizioni generali e spirituali della persona che si rivolge alla Fratellanza in cerca di aiuto.

Come possiamo meglio definire il senso occulto di questa magica parola: “amore”?

In latino “amore” recita “AMOR” e “amor” è l’anagramma di “ROMA”. Su questa spiegazione sono state scritte tante cose e non è mia intenzione ripeterle né rievocarle. Vorrei andare un poco più oltre e per farlo cerco di nuovo l’aiuto di Manlio Magnani.

Amore – scrive nel capitolo del “Supremo Vero” dedicato all’amore - è causa dei fenomeni, esso dà origine all’energia e alla materia, ai processi chimici e fisici, all’organizzazione dei corpi materiali, all’organizzazione vitale del regno vegetale e del regno animale, all’istinto nelle specie zoologiche e nell’uomo dà pure origine all’IO, alla coscienza, alla cosiddetta volontà, ai sentimenti ecc.

In ciascuno di tali stati o condizioni il suo procedere è apparentemente diverso, ma sostanzialmente è unico.

Qui lo chiamiamo pensiero o sentimento, là attrazione e ripulsione perché sono differenti i campi dove osserviamo le sue opere, ma è sempre la stessa cosa.”

L’amore, inteso nel senso platonico e dantesco, come aspirazione all’unione con Dio, può attuare l’identificazione (con Dio) e - secondo Dante - l’indiamento (ossia il rendersi simile a Dio o a un dio).

L’amore è il desiderio che ci porta verso la bellezza, ma soprattutto verso la bellezza nascosta, quel bello considerato da Plotino una delle ipostasi e di cui le bellezze sensibili non sono altro che un’immagine.

L’Amore ha la capacità di sottrarre al sonno ed alla morte, dando al Fedele d’Amore una vita nuova. Ciò si raggiunge per gradi di perfezionamento successivo.

Ma secondo la concezione filosofica vi sono quattro specie di furore divino, e la quarta che è di Venere e di Amore, è la migliore e la quale Venere Urania, dice Platone, non è lasciva manco per ombra.

Per concludere, diciamo che il nome e il suono prodotto dalla forza sottile che genera, è una “formula magica se viene cantata mentre si fa uso del farmaco” o costituisce, una cosa o un essere, però non quale risuona nel mondo fisico, ma quale è colto direttamente e incondizionatamente dallo spirito in un etere interiore libero da spazio e tempo, un incantamento non sub specie di una serie di vibrazioni materiali, sebbene di movimento-in-se, di suono puro, continuo, omogeneo.

“Per conoscere cotesto stato – afferma Magnani - è necessario saper identificarsi con esso: è pura realizzazione iniziatica”.

 


 

INVERSIONE DI VALORI

 

Età del ferro – Pietro da Cortona.

                                                                              Sala della Stufa, Firenze 1641

Recenti espressioni di malcostume e non mi riferisco agli antichi mali che da sempre affliggono l’Italia ma ad alcuni fenomeni che si distaccano dai codificati parametri di illeciti e perversioni a tutti noti, specialmente nella sfera della sessualità e della moralità dell’uomo, mi danno l’opportunità di scrivere la presente nota.

A parziale ma non giustificata comprensione c’è da dire che tanti eccessi sono la naturale reazione specialmente italiana alla repressione dei costumi operata per molti secoli dal cristianesimo, specialmente contro la donna, e contro le naturali leggi dell’amore e i naturali istinti dell’attrazione fisica, per qui quella che doveva essere la religione dell’amore e della carità, si è trasformata nella religione della repressione e dell’intolleranza. Tutto ciò ha pesato e tuttora pesa sul cambiamento (in peggio!)  delle regole di vita, sul modo di pensare, o come io credo, sul decadimento dei costumi.

Una cosa però è certa: l’etica e la sensibilità del genere umano, quello maschile come quello femminile, sono le manifestazioni della natura, e sono questi che registrano i maggiori attacchi, dal che si giunge alla semplice constatazione che qualcosa di maligno e di velenoso è all’opera, come un cancro, per distruggere non più una classe sociale o una ideologia, o un governo, ma l’intero genere umano o una buona parte d’esso. Questo tarlo, infine, nel mondo moderno ha i suoi apostoli, configurabili nelle varie ideologie di morte, nel modo in cui si sono espressi e si esprimono tuttora nei due settori più sensibili della società: la politica e la salute. Mi limito a questi due, senza tirare in ballo la religione, sulla quale il discorso è sicuramente più lungo e delicato.

Tutto ciò si riassume in quella visione mitica che Esiodo ripartì e riassunse nelle età del mondo. Nell’età del ferro, che per Esiodo coincide con il presente, classificare e giudicare le azioni degli uomini diventa molto difficile: in esse si mescolano, a un tempo, giustizia e ingiustizia, armonia e discordia. Gli uomini hanno il compito, - aggiunge Esiodo in forma poetica - siano essi agricoltori guerrieri o sacerdoti, di realizzare il trionfo di Dìke (Giustizia) all’interno di ogni ambito sociale. È una speranza per Esiodo, per noi è il simbolo di un fallimento.

Infatti, guarda caso, in questa ultima e finale età della terra, a mancare è soprattutto la giustizia, la stessa idea di giustizia, soffocata dall’arbitrio, dal crimine, dalla corruzione, dall’egoismo, dalla droga, dal sesso (di questi ultimi si serve la politica per plagiare la coscienza dei giovani).

Inoltre, la quinta età, quella del ferro, è l’età a cui Esiodo ha dato maggiore attenzione ed è caratterizzata dalla ‘hybris’ e dall’angustia.

Leggiamo nella Teogonia:

‘Ora infatti è la stirpe di ferro né mai di giorno

né di notte smetteranno da fatica e dolore

di venire consumati; e gli dei infliggeranno loro dure angustie.’

(w. 176-178)

E prosegue profeticamente con qualche espressione enigmatica:

‘Zeus distruggerà anche questa stirpe di uomini mortali,

nel momento in cui alla nascita appariranno canuti sulle tempie;

né il padre avrà più lo stesso sentire dei figli né i figli del padre,

né l’ospite all’ospite o l’amico all’amico,

né il fratello al fratello sarà caro come prima;

disprezzeranno i genitori non appena questi invecchiati,

se ne lamenteranno usando dure parole,

sventurati, neppure consapevoli dello sguardo degli dei; né essi

ai genitori vegliardi vorranno dare, a loro volta, cibo.’

(w. 180-188)

E poco più avanti:

‘Nessun favore si accorderà a chi è fedele alla parola data né al giusto

né al virtuoso: di preferenza l’autore di misfatti e la tracotanza

fatta uomo apprezzeranno; la giustizia sarà nelle mani e il pudore

non esisterà; il malvagio nuocerà all’uomo nobile

ricorrendo a parole tortuose e per di più giurerà;

la competitività invidiosa tutti quanti i poveri umani,

col suo sguardo sinistro, accompagnerà, chiassosa e compiaciuta del male’

(w. 190-6).

L’uso del futuro, in tono oracolare, per annunciare la decadenza e il trionfo del male, che prelude, probabilmente alla sparizione della quinta stirpe, fa capire che, seppure il processo sia in atto, è però proiettato in un tempo a venire, o almeno sono proiettati in un tempo a venire i segni di una più marcata e irrimediabile decadenza, cui farà seguito la fuga di Aidos (un personaggio della mitologia greca che corrisponde alla divinità della vergogna, della modestia, del rispetto e dell’umiltà) e Nemesi dal mondo (Nemesi, nella mitologia, provvedeva soprattutto a metter giustizia ai delitti irrisolti o impuniti). Senza queste divinità, che sono personificazioni di precise condizioni psichiche e umane, non ci saranno più, dice il veggente Esiodo, le condizioni dell’armonia e dell’ordine (cioè di Dike, la dea della giustizia) e prevarrà il male. Inversamente, senza Dike non può esserci pudore o rispetto e non c’è la reazione al male che si trasforma in giusta punizione del malfattore.

Mancanza di pudore e di decenza come persecuzione contro i giusti e gli onesti per favorire i criminali e i corrotti è una caratteristica del tempo che viviamo e ne abbiamo visti esempi, anche eclatanti, nel nostro Paese.

Stupisce ed addolora che il regno di Jupiter, (latendum in latium) che trionfò infine sull’informe, sul mostruoso e, noi diremmo, sull’irrazionale, si trovi a registrare la progressiva e forse irrimediabile decadenza del genere umano, e che il poeta Esiodo racconta bene con dettagliate intuizioni, con illuminazione nonché coerenza nella Teogonia di cui sto parlando.

È un’antica convinzione, quella secondo cui il mondo conosce cicli, morti e rinascite epocali; in ogni modo, le cinque stirpi non vanno intese tanto come fasi che si succedono cronologicamente, per quanto Esiodo sembri suggerirlo in vario modo, quanto come esempi fuori del tempo a somiglianza del mito teogonico. Dunque, non deve stupire il fatto che sotto il regno di Zeus (età dell’oro) ci siano crisi e involuzioni, per quanto questa affermazione sia temperata dalle sagge parole secondo cui anche per quelli dell’età del ferro ´si troveranno beni mescolati ai mali’.

Emerge, com’è nella natura stessa fortemente personale ed esortativa del poema, la funzione del poeta, amato dalle Muse, che conosce, sia pure oscuramente, la mente di Zeus che è al fondo però imperscrutabile, e quindi indica la strada all’umanità, quella del meglio ovvero della virtù, cioè della responsabilità, delle scelte consapevoli, in un’epoca in cui si è spenta la stirpe gloriosa degli eroi.

Il punto di partenza della storia umana è l’età dell’oro, cioè quell’epoca quando «comuni erano le mense, comuni le adunanze per gli dèi immortali e per gli uomini mortali: un’epoca distinta da tutte le altre generazioni, per la mancanza assoluta di fatiche, di affanni e di miseria per gli uomini che vivevano al pari degli dèi, e passavano la vita con l'animo sgombro da angosce, fuori dalle fatiche e dalla miseria; né la triste vecchiaia incombeva su loro, ma sempre con lo stesso vigore nei piedi e nelle mani godevano nelle feste, lontani da tutti i malanni».

La causa della scomparsa di questa vita serena e felice, e dell'avvento di un'età considerata di gran lunga inferiore alla prima, è insita nella natura umana, ed è affiorata spontaneamente nella seconda età - quella d’argento -, quando gli uomini crescevano felici e beati per cento anni nella loro innocenza, però dopo, «poco tempo essi vivevano, con angosce nell'animo, a causa della loro stoltezza, dacché non riuscivano a tenersi lontani dalla tracotante violenza nei loro rapporti, cessarono di venerare gli dei immortali che è pio dovere degli uomini, secondo le tradizioni locali».

La stirpe mortale è stata stolta, dacché non ha saputo approfittare della sua condizione beata; e la sua cattiva volontà l’ha portata ad azioni di forza nei rapporti umani, al disprezzo del culto degli dei, che è in realtà la prima espressione della comunità umana. Violenza e disprezzo hanno determinato la scomparsa della beatitudine umana; gli uomini sono caduti sempre più in basso. La terza generazione, che Esiodo chiama «quella del bronzo», esprime in maniera diversa dalla seconda le medesime doti di violenza e di empietà, e giunge alla stessa fine: «sopraffatti dalle loro stesse mani – dice Esiodo - se ne andarono alla squallida dimora del terribile Ade, ingloriosi, ché la nera morte li rapi, quantunque terribili, ed essi abbandonarono la luce splendente del sole».

 Con la quarta generazione si entra nel campo della storia, la stirpe «più giusta e più buona, la stirpe divina degli uomini eroi, che vengono chiamati semidei, la stirpe che ha preceduto la nostra”.

Alla generazione che segue, spetta il nome di «età del ferro» ; gli uomini vivono nella miseria e negli affanni; pochi sono i beni, che essi possono godere, e molte le angosce; ma quando Zeus deciderà di fare scomparire anche questa età ferrea, ciò che avverrà nel mondo sarà immensamente peggiore: gli uomini nasceranno già vecchi « con le tempie canute »; i figli non saranno simili al padre; non vi sarà più rispetto per i genitori, non più fedeltà al giuramento né piú differenza di funzioni e di sesso. L'umanità avrà così compiuto l'intera parabola della sua degradazione, cominciata con il disprezzo della divinità e delle sue leggi, e terminata con il disprezzo del prossimo e delle norme del viver comune.

Esiodo conclude infine con la dea Giustizia che trionfa sempre nel tempo, e con la visione di due città: la città della giustizia e quella dell'ingiustizia. Ai due quadri segue la necessaria, logica conclusione di tutto il discorso esiodeo: un invito ai sovrani, ai giudici, perché seguano sempre la giustizia, con la mente rivolta agli dei, i quali vogliono sulla terra le opere giuste: «Tre decine di migliaia sono infatti sulla terra gli immortali, occulti custodi da parte di Zeus degli uomini mortali. Essi stanno a guardia della giustizia e delle opere scellerate, vestiti di tenebra, aggirandosi per ogni luogo della terra».

Ma più significativi ancora sono gli ultimi tre versi, che concludono tutto il poema di Esiodo: «Felice e fortunato chi tutte queste cose conoscendo lavora senza colpa di fronte agli immortali, osservando i presagi ed evitando gli errori». Qui è condensata tutta la saggezza, espressa attraverso i miti, i moniti, i precetti etici, religiosi, pratici, del Poema sulle Cinque età del mondo: felice e fortunato deve considerarsi chi lavora con giustizia; nel rispetto della giustizia e rendendo onore agli dèi

 

SPOSTATI, MI FAI OMBRA!

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Parafrasando le celebri parole di Plutarco quando narra l’incontro del grande Alessandro con il filosofo Diogene:

Essendosi radunati i Greci all’Istmo, e avendo decretato di fare una spedizione militare contro i Persiani con Alessandro, fu nominato comandante in capo. Essendogli andati incontro molti uomini politici e filosofi e congratulandosi con lui, sperava che anche Diogene di Sinope avrebbe fatto la stessa cosa, dal momento che dimorava presso Corinto. Ma poiché quello, avendo una scarsissima considerazione di Alessandro, se ne stava in ozio nel Craneo, si recava personalmente da lui; ed egli si trovava ad essere sdraiato al sole. Allora si sollevò un po’, visto che sopraggiungevano tanti uomini, e rivolse lo sguardo ad Alessandro. Ma quando egli, dopo averlo salutato e dopo avergli rivolto la parola, gli chiese se per caso avesse bisogno di qualcosa, disse: “Spostati un po’ dal sole”. Davanti a questa risposta si dice che Alessandro fu così colpito dalla fierezza e la grandezza di quell’uomo, pur essendo stato disprezzato, che, mentre quelli intorno a lui lo deridevano e sbeffeggiavano quando se ne andavano, disse: “Ma io, se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene”.

Parafrasandolo, vorrei dire poche parole riferendomi ad alcuni personaggi moderni, ad alcuni cosiddetti grandi della terra che fanno ombra agli esseri umani, ai semplici esseri umani non investiti di poteri e di responsabilità come lo sono loro, ma portatori dei valori di libertà di pensiero e di parola. Gli uomini, è vero, che nascono liberi e che in tante occasioni vengono soggiogati, dai meccanismi sociali moderni, a un ruolo umiliante di lavoratori stanchi e mal pagati, di mariti umiliati da un femminismo insensato e crudele, di padri sottomessi ai capricci di figli viziati dal consumismo e dal libertinaggio incontrollato, senza parlare degli abusi di alcool e del consumo illecito di droghe.

E su questo ultimo tasto vorrei evidenziare la defezione assoluta dello stato (fatto di governi, parlamenti e forze armate, politicanti con sogni autoritari di aspiranti dittatorelli da strapazzo, codardi e crudeli: se fanno qualcosa la fanno male e col risultato di nuocere) che ormai è stato piegato e sottomesso dalla mafia, dal crimine (era post Falcone e Borsellino, vittime designate con la complicità di uno stato inetto e forse connivente!)

Innanzitutto, di brutte controfigure di capi di stato come Alessandro (non oso dire imperatori!) ai tempi d’oggi se ne contano a profusione, mentre non si vede l’ombra di uomini fieri, orgogliosi, sicuri, virili consapevoli del ruolo e soprattutto del destino che ricoprono per decisione propria per sorte divina o per volontà popolare. Dal modo come si comportano gli uomini politici moderni sembrano pensare che la carica che ricoprono è come se fosse dovuta, non si capisce se in virtù di quale sentenza divina e non di una democratica volontà popolare, effimera e transitoria e che perciò può cambiare alla prima occasione. 

Sono tentato di dire a molti personaggi come questi o simili a questi che operano nel mondo politico, culturale, dello spettacolo, dell’informazione: mettetevi da parte, spostatevi, perché state facendo ombra, voi stessi siete un’ombra sui valori veri della cultura, della libertà di informazione, di parola, sui valori dello stato, della nazione, della sovranità politica ed economica, della volontà popolare, della giustizia, soprattutto della giustizia, siete l’ombra funesta che non solo appanna e oscura, ma corrompe, adultera, imputridisce quei principi di base che nel passato hanno consentito a uomini e donne di poter governare e convivere in pace e prosperità in quella che viene chiamata società civile e sulla quale innumerevoli sociologi e letterati hanno scritto e sul cui destino non sempre furono felici e buoni profeti.

Ebbene, spostatevi, soprattutto nel vostro interesse, rinunciate ai facili guadagni, ai lauti compensi, ai quattrini sporchi, agli ideali dispotici che vi dominano, alle parentele ong-organizzative che vi guidano e controllano, fatevi da parte, perché, nonostante tutto, nonostante il progresso, la tecnologia, la guerra nucleare che incombe come una sinistra minaccia sulle teste di tutti, prima o poi qualche nazione, o qualche gruppo organizzato, o qualche setta fra quelle che non hanno bisogno di coprire la testa col cappuccio, muniti dei cosiddetti “c…” gonfi all’inverosimile, potrebbe svegliarsi una mattina e dire alto e forte: adesso basta, avete abusato “patientiae nostrae” e, tanto faremo, tanto penseremo, tanto ci organizzeremo, fino a quando ve la faremo pagare cara e non sarà solo una Bastiglia, sarà molto, molto di più, tanto di più da farvi dire che “la Bastiglia fu solo una passeggiatina di vecchietti e vecchiette che marciarono su una carrozzella per invalidi!”

Questo testo non vuole essere una minaccia, ma una semplice esortazione, simile a quella di Diogene che rivolto al grande Alessandro disse: spostati, stai oscurando il sole e mi fai ombra! Come dire: mettiti da parte grande imperatore perché neanche a te è permesso di sottomettere i popoli liberi e non ti sarà possibile distruggere il libero pensiero e la felicità della gente

 

 

L’importanza della preghiera magica

  

Tutti gli uomini portano nell'anima un'impronta o un principio del sacro. I rituali della Fratellanza Hermetica, utilizzando "simboli ineffabili", come i nomi misteriosi usati nelle invocazioni, attiva l’elemento divino in noi e, attraverso la corrispondenza col pianeta presente nell’astralità, permette al fratello in preghiera di assumere un ruolo preciso.

Giamblico, citato da Manlio Magnani in un suo celebre scritto sui “Mantra o nomi magici”, alla fine del libro Vº del De Mysteriis, descrive una teoria piuttosto sintetica con distinzioni tecniche sulla preghiera la cui opera consiste nello stabilire un rapporto di amicizia col mondo superno, svolgendo una funzione anagogica, che porta alla perfezione e alla completezza, ma soprattutto preservando il legame dell'anima con il mondo divino nella misura in cui le è stato originariamente concesso.

Tuttavia, è importante ricordare che, sebbene la preghiera, sia stata profondamente influenzata dalla tradizione teurgica, il concetto di preghiera rimane quel che è sempre stato fin dalle origini. La preghiera magica si avvicina a quella dei papiri magici, che prevedono l'uso di nomi magici, parole sacre e soprattutto sequenze vocaliche da pronunziare in maniera corretta.

La preghiera si recita normalmente durante il rito, a volte anche alla fine di esso, ma in ogni caso nessun rito può avere successo senza la recita della preghiera prevista nello stesso rituale ermetico.

Dato il suo ruolo, il contributo della preghiera magica è tutt'altro che mediocre: Le preghiere contribuiscono al massimo compimento dei riti; è attraverso di esse che le  richieste vengono rafforzate e rese efficaci, che si produce un contributo alla catena magica e si entra in una indissolubile comunione ieratica con il mondo divino.

L’iniziato alla scuola distingue tre momenti della preghiera:

1) il primo è di preparazione, ed è caratterizzato dall'imprimere un avvicinamento e una realizzazione della realtà divina; è il momento dell'illuminazione della mente.

2) Il secondo, a sua volta, è congiuntivo, e si caratterizza per regolare una comunione intellettuale tra l'uomo e la realtà occulta; è il momento dell'azione congiunta con il mondo divino; la concessione dei benefici, soprattutto di quelli terapeutici, richiesti nel corso del rito avviene ancor prima che la ragione pensi e ancor prima che l'intelletto ne prenda coscienza, un'affermazione molto importante in cui si ribadisce la superiore intelligenza del rito e l’assimilazione col mondo divino.

3) Infine, nel terzo momento si verifica l'ineffabile unificazione con l´entità invocata nella preghiera, caratterizzata da un totale abbandono all'autorità divina, che fornisce nei simboli sacri un riposo per la nostra anima; questo è il momento della perfetta congiunzione col genio invocato nel rito iniziatico.

Tutto indica che le preghiere magiche sono un appello a entitá specifiche che accompagnano rituali specifici e servono ad aiutare l'invocazione e l'interiorizzazione dell´entità chiamata. L'appello magico ha lo scopo di introdurre un lavoro iniziatico in cui si avvia uno stadio di elevazione e un processo universale vissuto in privato, individualmente o in catena con la corrente magica.

Una pratica abituale e ricorrente come quella in uso nella Fratellanza Hermetica nutre il nostro intelletto, amplia enormemente la ricettività dell'anima verso la realtà divina, rivela ai fratelli il segreto della pratica magica, abitua alla luce della candela e ai segreti che il suo  tremolio nasconde e porta a un'imminente perfezione della nostra genialità attiva nella corrente, fino a raggiungere la vetta delle nostre capacità; eleva tranquillamente le nostre disposizioni spirituali, suscita la persuasione, la comunione e una fratellanza indissolubile; accresce l'amore, afferma l'elemento superiore dell'anima, espelle le contrarietà presenti nel corpo lunare del fratello e ne favorisce la purificazione, allontana dall'aura mercuriale tutto ciò che di torbido la circonda e che appartiene alla generazione, perfeziona la fede nella luce e, in breve, rende i fratelli uniti e solidali per la finalità suprema della Scuola pro salute populi.

La preghiera si rivela strettamente per la finalità insita in essa, ma si ripercuote sull'intera struttura dei quattro corpi dell'uomo, mettendo ordine e armonia nel corpo mercuriale e purificandolo dagli elementi legati all’elemento saturniano.

I riti magico\teurgici sono al di là di ogni spiegazione razionale, e tra le motivazioni della pratica vi è soprattutto l'assimilazione di un'intimità del nostro essere col mondo segreto e in seguito al lavoro individuale il rafforzamento della catena ermetica con la partecipazione all’antico ideale egizio, lontano dal dominio della materia. Inoltre, non è solo la volontà individuale, ma la volontà collettiva degli iniziati che illumina i fratelli in catena e li unisce nella realizzazione della finalità suprema.

La preghiera, come descritta dai nostri Maestri, è una forma di comunicazione dell’uomo con la parte già purificata della sua individualità, un linguaggio sacro attraverso il quale lo spirito umano può elevarsi verso il divino e infine unirsi ad esso. In questa prospettiva, la preghiera si presenta come una forma di mediazione tra l'anima umana e il mondo degli eoni e dei geni dell’ermetismo magico.

Anticamente le preghiere erano ancora soggette a un'intermediazione (tra l'uomo e gli dei) da parte della volontà dei demoni, che ricevevano le richieste dagli uomini e le esaudivano (o meno). Specialmente nel mondo egizio e nei papiri magici esiste un ricchissimo repertorio di nomi e di simboli sacri che successivamente attraverso la mediazione dei maestri italici vennero utilizzati con finalità magico-terapeutiche.

I "nomi sconosciuti" usati nei nostri rituali implicano un processo in cui il genio personale del discepolo  comunica e si assimila col genio magico rappresentato nel simbolo ermetico. Soggetto e oggetto in un certo senso si assimilano.

Tuttavia, il divino mantiene la sua trascendenza e la sua superiorità causale: nella metafisica ermetica, i geni sono contemporaneamente trascendenti e immanenti.

L'ascesa al mondo divino è la possibilità per l'uomo di partecipare al potere e all'attività divina attraverso l'assimilazione e la somiglianza con il livello più alto grazie all'uso efficace dei riti dei simboli e dei “nomi occulti" contenuti nelle varie forme rituali di cui la Scuola Hermetica è dotata.

Salilus


Amo i miei giorni

 

Amo i miei giorni uguali

E le mie notti dense di sogni

Amo fissarti negli occhi e dirti sempre ti amo

Amo viaggiar col pensiero e ciò che mi resta

nella vita sedentaria affollata di ricordi

E nella rimembranza di chi ero

Amo l’infantile attesa della morte

Come un giocattolo della befana

Che il mattino dopo scartavo deluso

Sperando di trovarne uno più bello

Cosa ci può esser più bello di un sogno

Quando il sonno tarda a venire?

Amo i miei mattini luminosi

E le tue stoviglie rumorose in cucina

Amo il giardino fiorito

Che mi sorride languido e puro

E il tuo sgambettare monotono

Di spalle alla pentola sibilante

Il mio mondo mi parla

Sornione mi osserva e sorride

Amo questa terra salmastra

Che profuma di basilico in fiore

E che racchiude nel grembo

Il mistero dell’eterno ritorno

Del trascorso passato dell’incerto futuro

Del presente vibrante e sereno

 

Amo i miei giorni

Che risuonano nel tuo Bluthner avito

Il diluvio dei sensi sopiti

Il risveglio di immagini antiche

Le parole sublimi e severe

La rutilante nostalgia di un tempo passato

La struggente certezza di un presente che vive

Nei cuori e nelle anime nostre future.

 

Nel giorno di Jupiter di un anno qualsiasi

 

 

 

 

 

LONGEVITÀ. LA SCIENZA PUÒ SCONFIGGERE LA MALATTIA?

In un recente programma televisivo di Canale Italia intitolato "Longevità. La scienza può sconfiggere la vecchiaia?" gli intervistati hanno discusso con un alto grado di preparazione e di buona volontà un argomento che a mio avviso è stato collocato in maniera errata.

Personalmente, se fossi stato io il programmatore, avrei consigliato l’intervistatore, il bravo Vito Monaco, di formulare la domanda in maniera diversa.

https://www.youtube.com/watch?v=7n23ZfFEzBM&t=195s

Avrei domandato: "La scienza può sconfiggere la malattia?"

Il motivo è molto semplice: nessuno vorrebbe diventare centenario, se sapesse che gli ultimi dieci o venti anni della sua vita potrebbe passarli entrando o uscendo da un ospedale, o dallo studio del medico di famiglia, o peggio ancora su una sedia a rotelle.

Ecco perché sostengo che il problema é stato posto di maniera errata e che la domanda corretta avrebbe dovuto essere: "La scienza può sconfiggere la malattia?" e quindi mantenere la discussione sulla "longevità" ma concentrandola sulla malattia che ci impedisce di essere sani e longevi, nel migliore dei casi perché ci costringe di stare a casa o a letto e nel peggiore a entrare e ad uscire da un ospedale.

Ora, tutti sappiamo fin dall’antichità, da Alcmeone di Crotone, per giungere al nostro buon Paracelso, passando dalle cure magiche e "miracolose" di un Cagliostro, che la cura e la guarigione dalle malattie è stato sempre la priorità assoluta della scienza sacra e profana.

Ecco come la pensava Paracelso, considerato uno dei padri della moderna medicina. Paracelso in uno dei suoi primi Trattati affermava esplicitamente:Poiché dunque il fondamento della medicina sta nella filosofia, dobbiamo soprattutto sapere come questo fondamento può essere ricavato dal­la filosofia. Ma prima che sia data notizia di ciò, è necessario spiegare la falsa filosofia che mi po­trebbe a questo punto opporre resistenza”.

L’intera opera di Paracelso deriva da questa premessa, cioè dalla necessità di un corretto modo di pensare al quale deve seguire un corretto modo di operare. Non è mia intenzione fare critiche alla medicina moderna, ma tutti noi siamo a conoscenza delle difficoltà che i medici incontrano per esercitare la loro arte e professione conosciuta col nome di “medicina” con fondamento e sapienza.

La medicina ha registrato grandi progressi negli ultimi tempi per la cura di "alcune" malattie, mentre peró ne curava alcune, se ne diffondevano rapidamente altre e tanto per fare un esempio, se nel secolo scorso si poteva morire facilmente di una febbre malarica (fino a che non fu scoperto il chinino che veniva fornito gratis alle famiglie dai "Monopoli" col nome di “Chinino di Stato”) era raro morire di cancro, mentre oggi ci si ammala facilmente e frequentemente di cancro e si muore raramente di malaria. Alcuni dicono che il motivo principale va cercato nel benessere e nell’alimentazione…Mah!

A parte altre considerazioni che farò in seguito, in via preliminare voglio affermare che la vita detiene nelle sue mani una sorta di bilancia: da una parte la vita e dall’altra la cessazione della vita che tutti noi chiamiamo morte.

L’Italia, nella medicina e nella terapeutica in generale, vanta una tradizione antichissima ed una cultura che all’estero ci hanno sempre invidiato e se non fosse per l’insulsaggine e l’intromissione della politica la nostra cultura medica potrebbe proseguire anche oggi sulla scia di un passato illustre ed essere di esempio al mondo. A questo proposito voglio ricordare un semplice nome, un personaggio legato a un gruppo terapeutico misterioso che si distinse a Napoli per le ricerche sulle cure del colera.

Parlo di Giustiniano Lebano il quale scrisse nel raro trattato sul Cholera: “Del morbo oscuro” (Napoli, 1884) le seguenti parole: “L’attuale medicina empirica non è ancora scienza perché fondata sopra sistemi. Quanti sono i medici in Europa, tutti hanno un particolare sistema, o scuola. Chi è Bruniano, chi è Felicettiano, chi è Omiopatista, chi Controstimolista Rosario, o Brussuista, chi Boeravio, chi Galenico… chi di qua, chi di la; per modo che gli infiniti sistemi non sono altro che tante opinioni che si distruggono a vicenda. E la scienza attuale della medicina? È un argine rotto dal torrente devastatore delle opinioni e degli interessi. Se dunque non vi ha scienza, ed i farmachi che si apprestano agl´infermi essendo veleni, poiché la voce Farmacon in greco corrisponde alla nostra voce Tossico, e Veleno, la medicina che gli dispensa nella insipienza dell’Arte Medica è più nociva alla vita umana che tutt´i morbi riuniti insieme, perché non ha basi scientifiche – teoriche – matematiche”.

Ripeto: era l’anno 1884 e non il 2022 quando in Europa imperversava la pandemia da Covid 19 con tutte le conseguenze che conosciamo e che abbiamo ben documentato e denunciato nei nostri recenti scritti.

La vita non ha paura della morte e alla vita non importa molto di sapere in che modo il regno animale cessa di respirare ed entrare così nel regno dei morti (l’antico Ade), perché l’equilibrio generale dell’essere e del cosmo si conserva mantenendo equilibrati i due pesi e lo fa seguendo un’intelligenza che è quella generale della natura.

I problemi metafisici sono soltanto umani, ed è solo l’uomo che si pone mille perché ai quali pretende dare mille risposte sensate ed intelligenti, dimenticando molto spesso che le risposte ai suoi grandi quesiti sulla vita, sulla morte e sulla malattia sono già insite e presenti nelle domande ed è solo la sua ignoranza a non vederle e a non tenerle in conto.

Chi può rispondere alla domanda: perché l’uomo vive mediamente 80-90 anni e non 200 anni? La risposta può essere di carattere filosofico o scientifico: se filosoficamente rispondiamo con Platone che visse fino ad 81 anni, scientificamente siamo obbligati a continuare con una domanda senza risposta perché le risposte vengono date dai numerosi scienziati e dai numerosi laboratori di ricerche che trattano la questione: ossia nessuno di loro ha una risposta univoca sicura e incontrovertibile. Voi mi direte: è qui che sta la bellezza della scienza, sono d’accordo, ma l’uomo la bellezza la cerca in Donatello, dalla scienza vorrebbe risposte soddisfacenti e positive che ancora non ha avuto.

Alcuni scienziati sono convinti che la medicina sia in grado di sconfiggere la vecchiaia. Non dico che sia impossibile, (ognuno è libero di studiare, sognare o di fantasticare come vuole) ma col passar del tempo rischia di diventare da esercizio di ricerca una utopia.

Sul tema della longevità inoltre, e concludo, non tutti la pensano allo stesso modo. Faccio un esempio: a che serve essere longevi quando si è pieni di affanni, di acciacchi, senza il minimo necessario per vivere (la pensione INPS, per esempio) o con lo spettro della povertà davanti agli occhi? Il problema pertanto dal campo sanitario si sposta a quello sociale e politico e su questo terreno la società e soprattutto la politica stentano a trovare risposte e soluzioni che permettano a “tutti” gli anziani, soprattutto ai poveri, o con poche risorse, di vivere una vita serena senza affanni e possibilmente senza malattie.

GIUSEPPE LAZZARETTI - ESOTERISMO DI APULEIO, AMLETO, FAUST   

PRESENTAZIONE


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Sulla vita dell’autore Giuseppe Lazzaretti non si sa assolutamente nulla.
Le poche, pochissime notizie che pubblico le ho avute dal figlio che viveva a Taranto, la stessa città natale del padre Giuseppe.
Giuseppe Lazzaretti era un capitano di lungo corso, in poche parole un ufficiale di marina.
Nella vita privata a quanto mi ha riferito il figlio ebbe una tormentata storia d’amore con una donna aristocratica, storia contrastata dalla famiglia nobile di lei.  
A quel che mi fu dato di sapere nel corso dell’unico colloquio che ebbi a Taranto col figlio di Giuseppe Lazzaretti, suo padre era stato iniziato alla Fratellanza di Myriam probabilmente dallo stesso Kremmerz. Credo che sia vero perché nel corso della lettura del libro ho potuto verificare che Lazzaretti accenna spesso, con cognizione di causa, ai misteri di una iniziazione “isiaco-osiridea”.
Nel capitolo dedicato ad Apuleio scrive infatti: “Ma è appunto l’invocazione a quel «segreto signore» che ci dà il riferimento alla iniziazione isiaca-osiridea alla quale con prudente riserbo non fa accenno, mentre cita quella persiana desunta da Platone della cui scuola intende farsi credere fedele seguace.” E subito dopo: “I greci, ereditandone la tradizione, cambiarono i nomi servendosi - secondo il dott. Kremmerz - di designazioni prese a prestito dalla mitologia e dal simbolismo astrologico e cioè:
1° Corpo saturniano —- L’organismo sensorio che nel continuo ricambio della materia si rinnova e riproduce (corrispondente al Khat degli egizi).
2° Corpo lunare — Emanazione sottile, plastica che risulta della vita del primo (Nivoi).
3° Corpo mercuriale —- Individualizzazione del Principio. L’uomo mentale, alato al capo e ai piedi ed a contatto con Giove, l’Io superiore (Ba).”
Con tutta probabilità Lazzaretti era iscritto ad un’Accademia di Bari.
Fu un autore prolifico. Alcuni libri furono pubblicati a Taranto in proprio dalla Tipografia Michele Santoro nel 1931. L’autore si occupò della stampa e della distribuzione anche del presente libro che ricevemmo in dono da un amico crotoniate.
La sua opera più importante, inedita, è “L’AMORE, IL CUORE, LA DONNA nella DOTTRINA SEGRETA DI DANTE E DEI FEDELI D’AMORE” dedicata ai Fedeli d’Amore. Di quest’opera il figlio mi fece dono di un esemplare manoscritto che custodisco con rispetto e amore.
In Appendice riproduco di quest´opera il piano editoriale e l´indice generale con la speranza che in futuro un Editore mostri qualche interesse alla pubblicazione.

Equinozio di primavera 2023 e.v.                                

                                                                                                                                       Roberto Sestito


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EPICURO E IL TETRAFARMAKON


 

 

Nell'Atene del V secolo a.C., nel periodo d'oro della democrazia ateniese, ogni cittadino era in un certo senso un principe. Il vecchio demos governava l'impero ateniese. Come cittadino, l'ateniese era padrone di se stesso, perché la costituzione della vita democratica era data dalla partecipazione effettiva dei cittadini, che dovevano decidere sul destino collettivo.

Questi fatti segnano la necessità storica di pensare a una nuova etica. A differenza di quanto accadeva nell'etica aristotelica, impegnata nell'ideale della polis, in questa nuova concezione etica l'uomo deve trovare in sé stesso il principio della sua libertà.

Epicuro rispose a questa domanda. La scuola di Epicuro era composta da una casa e da un giardino, che era una sorta di orto o giardino di erbe dove si concentravano i suoi studenti e aderenti. Questo era il noto giardino di Epicuro, concepito come un rifugio. La proposta di Epicuro era che fosse possibile vivere li liberamente, tra amici, in una nuova forma di comunità. La casa e il giardino furono acquistati per servire come mezzi per la vita intellettuale e materiale dei membri della scuola.

Il pensiero di Epicuro era rivolto ai problemi pratici del suo tempo. L'obiettivo di Epicuro era quello di "dissipare l'angoscia mentale che l'ignoranza sugli dèi, l'ignoranza sulla natura e l'ignoranza sull'anima possono produrre".

Epicuro si basa sul presupposto che tutti gli esseri viventi, fin dalla nascita, cercano la felicità e vogliono eludere il dolore attraverso un'adeguata pratica terapeutica. Nasciamo piangendo per il latte materno e il calore. Cerchiamo il piacere e fuggiamo dal dolore. Cerchiamo il piacere che ci porta a sopprimere il dolore. In altre parole, il piacere è la realizzazione di ciò che ci fa bene e il dolore di ciò che ci fa male.

Ma questa vita di piacere che Epicuro raccomanda non è la vita di abbandono al godimento sensuale censurato da Pitagora. Il punto fondamentale è l'interpretazione data alla parola piacere. Il piacere non consiste nel diletto, non è legato alla "voluttà dei dissoluti e dei godimenti sensuali, come alcuni ignoranti pensano per pregiudizio o per incomprensione, ma nella pura assenza di dolore nel corpo e di turbamento nell'anima".

Inoltre, erigendo la giovialità a bene supremo, Epicuro non sostiene che il bene sia ciò che sembra buono a ciascuno, né che la felicità consista nel ricercare ogni piacere. Tutti i piaceri sono buoni, ma non tutti i piaceri devono essere scelti; tutti i dolori sono cattivi, ma non tutti i dolori devono essere evitati. La soddisfazione dei desideri è un bene perché elimina il motivo dell'inquietudine, ma a volte è meglio non cedere a questo impulso se questa soddisfazione, buona in sé, si rivela fonte di disturbi ancora maggiori.

La missione etica è insegnare a discriminare tra i piaceri "con il calcolo di ciò che è utile e la considerazione di ciò che è dannoso, perché in certe circostanze il bene è male e il male è bene per noi". Il raggiungimento della felicità deriva da scelte in cui spesso si deve rinunciare a certi interessi, non perché sarebbero intrinsecamente cattivi, ma perché causano grandi disagi.

Epicuro ha collegato questa etica emancipatrice alla filosofia antica. La sua idea centrale è che comprendendo l'ordine cosmico ci liberiamo dal terrore superstizioso e dalla paura della morte.

Il principio ontologico della filosofia epicurea è che il substrato ultimo di tutte le cose visibili e invisibili sono particelle corporee indivisibili ed eterne, la cui congiunzione e separazione nel vuoto infinito costruisce e decostruisce i mondi che furono, sono e saranno. Come conseguenza di questo principio filosofico, Epicuro “costruisce il principio etico che afferma che proprio per questo il cosmo ha [...] uno scopo o un'intenzione immanente o trascendente, naturale o divina. La vita non annuncia, quindi, né punizione né ricompensa per gli uomini”.

Per questo non dobbiamo temere né la morte né le punizioni infernali inventate dall'ignoranza e dalla superstizione della religione cristiana.

Per il filosofo, senza comprendere i meccanismi della natura, resteremo tormentati dalla paura degli dei, dalla paura della morte e dall'ansia derivante dal non controllare adeguatamente il nostro atteggiamento nei confronti delle sofferenze della vita.

Lo scopo della saggezza è quello di aiutare a sopprimere le paure sul destino del corpo, la cui causa sono le false opinioni sugli dei, sui corpi celesti e i loro fenomeni, sulla malattia e sulla morte.

Per sopprimere queste paure esiste un quadruplice rimedio: il tetrafarmakon:

1)         Non dobbiamo temere gli dèi - Gli dèi non sono da temere, perché chi è felice ed eterno

"non ha preoccupazioni, né un altro essere lo disturba; perciò è immune da movimenti di collera o di gratitudine, perché ogni movimento del genere implica debolezza".

Gli dèi sono incorruttibili e indistruttibili: non subiscono alcun affetto, perché non sono in contatto con nulla che possa modificarli, cioè aggregarli o dissolverli. Non sono né creatori né signori di alcun destino, né giudici dei morti.

2)         È necessario sconfiggere la più grande delle paure, che è quella della malattia e della morte. L'autocoscienza dipende dall'unione di anima e corpo. La morte è la separazione del corpo dall’anima e quindi la fine dell'autocoscienza. Ciò che è decomposto è insensibile e l'insensibilità, che è al di fuori di ogni sensazione, non comporta alcun rischio. "La morte, il più terrificante dei mali, non è nulla per noi. Finché siamo presenti, la morte è assente; quando si presenta, noi non siamo più" (EPICURO in Lettera a Mencede).

Dobbiamo capire che "quando arriva l'ora della morte il corpo si separa dall'anima per tornare alla madre terra". Ciò che conta è la qualità della vita.

3)         Non è il piacere più raffinato a rendere felice la vita. Il più delicato dei cibi non ci servirebbe se non uccidesse la nostra fame. Il piacere che ci dà la sua raffinatezza sarebbe sempre inferiore a quello che deriverebbe dalla soppressione della sofferenza causata da uno stomaco vuoto.

Abbiamo bisogno del piacere solo quando soffriamo per la sua mancanza. Ma quando non soffriamo, non ne abbiamo bisogno. Il piacere è quindi l'inizio e la fine della vita felice.

4)         La prima delle virtù dell'iniziato alla saggezza è l'impassibilità: nulla può affliggerlo o abbatterlo. Inoltre, se il tempo è fluido, se tutto passa e scompare, se la materia si trasforma, è sciocco lacerarsi con tormenti e lamenti.

In breve, "i quattro rimedi rispondono alle quattro cause principali dell'infelicità umana: la paura dell'ira degli dei, la paura della morte, la cattiva scelta degli oggetti del desiderio e l'angoscia di fronte alla sofferenza".

I primi due rimedi si rivolgono direttamente all'intelletto e hanno quindi un effetto terapeutico immediato. È sufficiente comprendere la natura delle cose: la morte è solo la separazione del corpo sensibile dalla vita.

Quindi, per essere spiritualmente appagati, basta seguire la terapia del giardino. La buona vita ha due componenti principali: l'afonia, cioè l'assenza di dolore fisico, e l'atarassia (non turbamento), l'assenza di dolore spirituale (ignoranza dei valori dello spirito).

L'atarassia è la virtù propria del saggio e consiste nella totale assenza di paura. L'imperturbabilità è la piattaforma necessaria per raggiungere l'elevazione spirituale.

II bene supremo consiste nell'amministrare nel miglior modo possibile i beni della vita e nel soddisfare i bisogni primari in modo tranquillo e semplice.

La saggezza che apre le porte alla felicità, proprio perché non è un dono di natura né della grazia divina, può essere raggiunta solo attraverso uno sforzo perseverante. La felicità è una felicità conquistata. Chi la raggiunge non soffrirà mai di disturbi e vivrà quindi come un dio tra gli uomini. Il piacere e il dolore derivano dalla relazione del nostro corpo con gli oggetti che lo riguardano. Epicuro ci insegna come gestire bene questo rapporto.

Il piacere fondamentale è il sereno equilibrio dell'anima. Perché la vita sia buona, è sufficiente che non sia troppo turbata da dolori e sofferenze. Quando si raggiunge questa meta, ogni tempesta dell'anima scompare". "Il sentiero iniziatico è una medicina dell'anima. Sarebbe una medicina che cura le anime malate che non sono naturalmente sagge o una medicina che ripristina la salute perduta".

Quando si tratta di resistere ai disturbi, che sono aggressioni provenienti dall'esterno, la medicina deve intervenire per espellerli dal corpo; se il disturbo riguarda l'anima, è consigliabile espellerlo attraverso una disciplina spirituale e rituale.

 

Daimon, Tyche, Eros, Ananke

Il Daimon, è la prima potenza che determina il destino. Il famoso "demone" di Socrate, di quando in quando gli sussurra all'orecchio come debba agire".

In realtà, il Daimon non agisce in modo puntuale, presentandosi, invece, come la necessità interna che impone all'individualità personale la sua unicità caratteristica, prodotta e simbolizzata dalla configurazione unica delle potenze astrali che hanno presieduto alla sua nascita. È una forza di crescita che può dispiegarsi solo restando fedele alla sua legge di sviluppo, rimanendo nei limiti che le sono propri.

L'individuo è condannato a essere se stesso: "Così devi essere, non puoi fuggir te stesso. Tyche, il caso, la fortuna mutevole, può apparire di primo acchito come una felice occasione di sfuggire a noi stessi e allo stretto limite impostaci dal Daimon.

Alla legge rigorosa Tyche oppone il caso, la varietà, l'imprevisto. Tyche rappresenta i movimenti che ci sono esterni e che non dipendono da noi: gli incontri con gli altri uomini, ma anche gli eventi fortuiti, quel gioco del caso che è la vita quotidiana. L'azione congiunta di Daimon e Tyche è, quindi, decisiva per il destino dell'individuo. Si tratta dell'incontro tra fattori innati e fattori accidentali. "Daimon e Tyche", "determinano il destino di un essere umano." È ciò che chiama l'interazione tra la costituzione e l'esperienza.

L'incontro tra Daimon e Tyche rischia, dunque, di rinchiudere l'individuo nel gioco e nella futilità, ma può anche far scaturire una fiamma, quella di Eros, terza potenza a determinare il destino dell'individuo.

Qui [nell'Amore] si congiungono il demone individuale e la seducente Tyche; l'essere umano sembra ubbidire solo a se stesso, lasciar agire solo il proprio volere, essere schiavo dei suoi istinti, e tuttavia quelle che si insinuano sono casualità, ed è qualcosa di estraneo ciò che lo allontana dal suo cammino.

L'Eros è a un tempo l'Eros "creatore" di cui parla la mitologia orfica, quello che "s'innalzò dal caos antico", e l'Amore alato, il figlio di Afrodite che, in primavera, risveglia il desiderio in ogni creatura.

È una forza che domina ciascun essere. Questo Amore che vola genera amori volubili: viene e va, fugge e ritorna. L'incontro tra Daimon e Tyche che fa nascere l'Amore è, per molti esseri umani una sorta di trappola.

In questo gioco drammatico la maggior parte degli uomini perde la sua personalità e libertà, poiché si lega non tanto all'individualità del partner, ma unicamente al piacere dei sensi che va stemperandosi nel molteplice.

Ma il più nobile si dona a uno soltanto.

Solo adesso, infatti, appare evidente di cosa sia capace il demone; lui, l'indipendente, l'egoista, che con volere assoluto interveniva nel mondo ed era infastidito quando Tyche qua e là si poneva sul suo cammino, ora avverte di non essere determinato e contraddistinto solo dalla natura.

Nell'amore che prova per l'essere che il caso (?) gli ha fatto incontrare, l'uomo può prendere coscienza della sua libertà di scelta. Può, con una decisione esclusiva, legarsi all'essere amato e superare il suo egoismo, mostrando così che non è "determinato […] solo dalla natura" e che può "riuscire a pervadere un secondo essere umano, come se stesso, di eterno, indistruttibile amore".

In questo trionfo del Daimon, potrebbe celarsi un nuovo inganno. La libera decisione, infatti, ha come conseguenza la rinuncia alla libertà; si deve vivere insieme: due anime in un unico corpo, due corpi in un'unica anima.

Questo corpo più esteso che costituisce la famiglia soffre di malattie, affanni, crucci. "Tutto ciò che un'amorevole inclinazione concedeva volontariamente è ormai dovere", per di più sanzionato dalla cerimonia del matrimonio. Elogio del matrimonio, dunque, ma elogio tiepido che non intende occultare i "mille doveri" che peseranno sull'individuo.

Infine appare Ananke, che esprime la delusione della libertà individuale di fronte ai vincoli e ai doveri che la società le impone. Tuttavia, occorre attentamente distinguere vincoli sociali che gravano sull'amore e sul matrimonio, dalla Necessità implacabile e universale cui sono sottomessi gli individui.

Quando si gode di un vantaggio, come il matrimonio, bisogna accettare gli inconvenienti che necessariamente ne derivano. La felicità ha il suo prezzo, che si deve pagare.

La dipendenza volontaria è la situazione più bella, ma come sarebbe possibile senza l'amore?

In Ananke, invece, non va dimenticato che "Così è di nuovo, come gli astri vollero".

La volontà degli astri rappresenta il volere della totalità, ovvero il destino ineluttabile o la volontà di un dio.

L'uomo crede di volere liberamente, ma vuole ciò che vuole perché deve volerlo, e deve volerlo perché così hanno voluto "gli astri", cioè il destino, l'ordine e il corso generale della natura. Ha creduto di agire secondo la sua volontà, ma in realtà in funzione del suo Daimon; era prestabilito che avrebbe dovuto volere ciò che ha creduto di volere liberamente.

L'individuo crede di fare ciò che vuole e di seguire il suo capriccio; ma non sa che, in realtà, per il fatto di essere e di essere così com'è in virtù del suo destino, è predestinato a volere proprio ciò che crede di volere liberamente.

Paradossalmente, può accadere che questa volontà che l'individuo crede personale e che gli è imposta dal suo Daimon e dal destino, venga ostacolata da questo stesso destino.

L'individuo, per esempio, ha voluto legarsi a un essere amato, e l'ha voluto perché lo doveva, perché il suo demone lo votava a questo amore; questo amore, tuttavia, gli verrà estirpato dal cuore dal destino. La necessità sembra apparentemente opporsi a se stessa. Questo paradosso può essere confrontato con ciò che si osserva nella concezione del "demonico".

Questo è descritto, infatti, come una potenza che si manifesta solo per contraddizione, che non è né divina né umana, né demoniaca né angelica, ma che costituisce un fenomeno incomprensibile all'intelligenza e alla ragione, un potere sovrumano o quasi divino, una forza creatrice, ma anche distruttiva, seduttrice, quasi irresistibile, presente in tutta la natura, ma predominante in alcuni uomini.

Solo Dio può opporsi a Dio. Ma qui il termine "Dio" significa, nel contesto del "demonico", una potenza quasi divina, e soprattutto una potenza suscitata da Dio, cioè dalla natura o dal destino. Solo il destino stesso può opporsi a un essere la cui volontà è imposta dal destino. Il paradosso consiste, dunque, nel fatto che è il destino stesso a provocare ciò che sembra opporglisi.

Il Daimon e il demonico hanno in comune il fatto di essere potenze che dominano l'uomo e lo guidano, benché questi creda di condursi da sé.

È esattamente la situazione descritta, come abbiamo visto, con riguardo ad Ananke: a causa della necessità interna rappresentata dal Daimon, vogliamo solo in quanto dobbiamo volere, conformemente alla volontà degli astri, ovvero di una potenza superiore. Il Daimon nella misura in cui ci determina e ci dirige, appartiene in definitiva al vasto campo del demonico.

Le parole dedicate ad Ananke esprimono, in modo apparentemente perentorio e brutale, la delusione e la disillusione risultanti da tutte le insoddisfazioni che l'anima, ovvero l'individuo, ha provato scoprendo le sorti che determinano il suo destino. Il Daimon era una promessa di crescita armoniosa per l'essere appena nato. Ma era anche predeterminazione, una predestinazione che lo condannava a non essere altro che quello che era: "Così devi essere, non puoi fuggir te stesso".

Tyche rappresentava la promessa di incontri con altri esseri e tutta una molteplicità di eventi in grado di introdurre varietà e fantasia nella crescita dell'individuo, ma rischiava di soffocare la personalità nella futilità e nel conformismo. Nell'incontro con l'Amore (Eros), però, Tyche poteva offrire all'individuo la possibilità di aprirsi, di superarsi in un'altra personalità e di scegliere così, con una libera decisione, di unirsi a essa con un vincolo indissolubile. L'amore diventava, allora, dovere obbligo ma anche gioia.

Alla fine l'individuo riconosce il potere assoluto di Ananke, del limite e della necessità cui è stato sottomesso per tutta la vita. Ha fatto tutto "come gli astri vollero".

In definitiva, dichiara Ananke, siamo soltanto "liberi, in apparenza". La libertà, la scelta non sono che illusione.

Alla necessità tutto è sottomesso, eccetto l'indomabile audacia dell'animo umano, che con altro nome chiamiamo Speranza" e ne riconosciamo il simbolo nelle ali del caduceo di Hermes:

"Un colpo d'ali - e dietro a noi gli Eoni", ali da porre in relazione con il volo del pensiero".

Ma ecco la descrizione del caduceo di Macrobio nel quale sono rappresentati Daimon, Tyche, Eros, Ananke 


 
 

Esso si presenta sotto forma di due serpenti, maschio e femmina, intrecciati. Sono Daimon e Tyche, Sole e Luna. Le loro bocche sono unite in un bacio che rappresenta Eros, le parti anteriori dei loro corpi formano un cerchio, mentre le parti centrali sono strettamente legate da un nodo che Macrobio chiama il nodo di Ercole, famoso nell'Antichità perché difficile da sciogliere. Questo nodo è l'Ananke. A partire da qui, le parti inferiori dei corpi formano un secondo cerchio, con le estremità che si riuniscono nell'impugnatura, in un punto da cui spuntano due ali. Ogni particolare della figura del caduceo corrisponde a una delle divinità che determinano il destino umano, anche se non dà un nome alle ali, accontentandosi di dire: "Il motivo per cui sono state aggiunte le ali è già stato detto".

 

PLOTINO


Plotino occupa u posto molto importante nella storia del pensiero - importante nella filosofia, ma molto di più nella teologia e nello sviluppo della mistica.

Paul Henry

Il nome di Plotino è inevitabilmente legato a una corrente spiritualista (oggi non si può più parlare di scuola in senso stretto) che ha ricevuto il nome di Neoplatonismo. Il prefisso neo tradisce già l'origine moderna di questo termine. E, in effetti, Plotino avrebbe senza dubbio protestato se fosse stato identificato come il creatore o l'iniziatore di una nuova visione di Platone. Egli pretendeva di essere, senz’altro, un continuatore, e lo dice letteralmente in alcuni passi (cfr. Enneadi, V, 1,8: "…e che queste tesi non sono nuove”. Per Plotino, la concezione che egli difende, cioè la gerarchizzazione della realtà in tre livelli dell'essere o ipostasi, era contenuta nel pensiero greco classico e, in modo particolare, in Platone (cfr. Enneadi, VI, 2, 1: "… che senso hanno per noi queste idee che stiamo cercando di riferire all'opinione di Platone». Ci sono in Plotino elementi che certamente lo accomunano al maestro : il linguaggio, l'uso delle categorie platoniche, la sua concezione dell'essere. Plotino riprende le meditazioni platoniche e le spinge ai loro limiti estremi, trasformando il Bene, che è al di là dell'essere, l'Uno del Parmenide o il Bene-Uno del Filebo, nel polo di una dottrina che è allo stesso tempo un'odissea spirituale. In Plotino, insomma, i postulati impliciti nella filosofia dello spirito che si stava sviluppando ai suoi tempi vengono portati alle loro ultime conseguenze, pur avendo una nuova portata.

Talvolta è stato fatto un confronto tra il sistema plotiniano e quello indù (in particolare le Upanischad) ed è stato affermato che in entrambi "la riflessione su se stessi è incentrata sulla pura identità del centro metafisico di ciascuno". Questo è vero in linea di principio, ma con una differenza fondamentale: in Plotino la ricchezza del sé non è una mera teoria, ma un'autentica realtà; è un'esperienza che il pensatore traspone in un sistema. L'intera filosofia dello spirito di Plotino è un tentativo di far coincidere la struttura della realtà ontologica con quella della realtà psicologica dell'anima umana.

Alcuni dati biografici. Il suo lavoro

Ha molto senso parlare di biografia di Plotino, se non è la semplice conferma del tempo in cui è vissuto? Porfirio, discepolo prediletto del maestro e autore di una biografia di Plotino, scrive:Plotino, il nostro filosofo contemporaneo, sembrava vergognarsi di avere un corpo. A partire da questo sentimento, si è rifiutato di raccontare qualcosa dei suoi genitori, della sua famiglia o della sua patria. Non sopportava né i pittori né gli scultori, tanto che in un'occasione, quando Amelio chiese il permesso di fare il suo ritratto, disse: "Non è forse sufficiente sopportare l'immagine che la natura ci ha imposto che dobbiamo permettere che ne rimanga un'altra, più duratura?".

L'intera opera di Plotino si riduce all'insieme sistematico che conosciamo come Enneadi. L'insegnamento oriundo di Plotino sembra essere stato enormemente anarchico e disordinato (cfr. Porfirio, Vita di Plotino, 3). Al suo arrivo a Roma, Porfirio, che era essenzialmente una mente filologica, si procurò, su suggerimento del suo maestro, gli scritti di Plotino, "affidati a un piccolo numero di persone", li conservò e anni dopo li pubblicò. Porfirio poté utilizzare tutti gli appunti del maestro, ma ne fece la sistemazione sistematica e introdusse alcune modifiche: alcuni trattati vennero suddivisi e in alcuni casi il curatore aggiunse qualcosa di suo (come, ad esempio, in III, 9). L'edizione non ordina gli scritti cronologicamente, ma sistematicamente (culminando l'opera con gli scritti sull'Uno, ad esempio). Anche i titoli di ciascun trattato provengono dall'editore. Oltre a questa edizione, ne conosciamo un'altra di Eustochio, medico e discepolo di Plotino.

Perché il nome Enneadi? Il titolo, come abbiamo detto, non deriva dall'autore, ma dallo stesso Porfirio (cfr. Vita di Plotino, 24), il quale sottolinea che la divisione in sei gruppi di nove trattati ciascuno dà il numero perfetto. Possiamo dedurre che dietro la disposizione porfiriana si nascondano altri trattati dello stesso Plotino.

Poiché l'opera sulle dottrine di Numenio citata da Porfirio non si è conservata, dobbiamo concludere che Le Enneadi, sono l'unica opera che ci è stata conservata.


I principi della sua filosofia

La grande esperienza di Plotino fu il contatto con Ammonio Sakkas. Come sottolinea Porfirio: [Frequentò le lezioni dei più rinomati maestri di Alessandria, ma lasciò le lezioni scoraggiato, finché non raccontò a un amico ciò che gli stava accadendo. Quest'ultimo, comprendendo ciò che stava accadendo al suo spirito, lo portò da Ammonio, che non aveva mai incontrato prima. Quando entrò e sentì le sue parole, esclamò: "Questo è quello che stavo cercando". Da quel giorno frequentò assiduamente le lezioni.

Chi era Ammonius? E, soprattutto, qual è stato il suo pensiero? A dire il vero, l'appartenenza spirituale del maestro di Plotino è, ancora oggi, un enigma. Non c'è accordo tra gli studiosi sulla sua posizione filosofica. Per comprendere il pensiero di Plotino, quindi, dobbiamo attenerci a ciò che Plotino stesso ci dice, anche se in contrasto con altre fonti, come la biografia di Porfirio o la tradizione platonica. Ma è nelle Enneadi che troveremo materiale più abbondante, sufficiente, crediamo, a delineare, a grandi linee, il suo pensiero.

Plotino, secondo Porfirio, ebbe un'esperienza singolare che cercò di trasporre sul piano ontologico. Nell'Enneade IV, 8, ci parla di questa esperienza fondamentale che, per la sua importanza, riportiamo in extenso:

Spesso mi sveglio con me stesso che fuggo nel mio corpo e, strano a dirsi, nell'intimità di me stesso, vedo la più meravigliosa bellezza possibile. Allora sono convinto di avere un destino superiore e che la mia attività è il grado più alto della vita. Sono unito all'Essere divino e, avendo raggiunto questa attività, rimango con lui al di sopra di tutti gli altri esseri intelligibili. Ma dopo questo riposo nell'essere divino, essendo ridisceso dall'Intelletto al pensiero discorsivo, mi chiedo [...] come l'anima possa essere venuta nel corpo così come mi è apparsa.

Qui si delineano i tre livelli ontologici (ipostasi) che costituiscono la realtà e che, con uno sforzo di autocoscienza,

Plotino scopre anche nel soggetto umano. Ogni grado tende, invece, al grado superiore, il che significa che la caratteristica del pensiero plotiniano è la tendenza alla trascendenza.

Ma la strada verso questa trascendenza non è unica. Ci sono tre vie che portano ad essa (Enneade V, 7, 36): la via della conoscenza, la via etica e la via estetica che permette infine la visione mistica. A queste tre vie corrispondono tre processi: la purificazione (kâtharsis), la contemplazione (theôria) e la visione estatica (ékstasis) che conduce l'anima alla sua origine sublime.

La trascendenza, o meglio l'inclinazione alla trascendenza, porta invece a una conversione al mondo superiore. Il grande peccato che impedisce questa conversione è la dimenticanza dell'anima della sua prima origine (Enneade V, 1, 1). Da qui l'esortazione costante ad essere svegli.

La vita spirituale, come la concepisce Plotino, è un processo costante e circolare costituito da due grandi momenti correlativi: da un lato la processione, cioè il movimento dialettico attraverso cui la realtà scaturisce dall'Uno, passando per l'Intelletto (nous), per l'Anima (psykhê) fino ad arrivare alla materia (hyle). Ma, in coerenza con l'hyle, l'anima umana deve tendere a un processo inverso di elevazione verso il Principio supremo. Questo processo di ritorno acquista, in Plotino, una dimensione autenticamente iniziatica.[1]

Ma il grande problema che si pone a chiunque si cimenti nell'esposizione del sistema plotiniano non sta tanto nell'ordine di esposizione. A prima vista può sembrare che il metodo migliore sia quello di partire dal grado supremo della realtà per scendere ai gradi inferiori e, in un processo inverso, seguire l'ascesa dell'anima verso l'Uno. Questo è il modo in cui hanno proceduto non pochi espositori del sistema plotiniano, ma tale metodo è più adatto all'esposizione di altri pensatori della scuola, più sistematici. In Plotino, invece, assistiamo piuttosto a un'ascesa dal multiforme mondo dell'esperienza ai gradi superiori. La cosa migliore, quindi, è adottare un metodo misto, che consiste nel parlare prima, sinteticamente, della processione, per poi tornare alla marcia di ascesa verso l'Uno.

La processione plotiniana

Plotino è stato il primo pensatore greco a porsi, in modo radicale, il problema della creazione. Gli antecedenti che possiamo trovare di questo approccio non acquisiscono la radicalità che scopriamo in Plotino. La creazione descritta nel Timeo platonico, la riflessione che troviamo sull'argomento in Aristotele o negli Stoici, non sono paragonabili allo sforzo del fondatore del Neoplatonismo. È possibile che Plotino abbia preso l'idea della creazione da Filone di Alessandria. E infatti, in Filone, Dio, che è interamente trascendente, crea dall'abbondanza della sua perfezione. L'emanatismo filoniano riappare in Plotino, anche se in forma completamente diversa. Il processo attraverso il quale avviene la creazione è chiamato, nella terminologia plotiniana, proodos, che i moderni hanno tradotto come processione.

Secondo queste idee, si stabiliscono tre livelli ontologici, le cosiddette ipostasi, che per Plotino sono: l'Uno, l'Intelletto (noûs) e l'Anima (psykhé), come si legge in Enneade II, 9, 1-33.

 

a)         L'Uno

Al vertice della gerarchia plotiniana c'è l'Uno. Infatti, scrive il filosofo, "se c'è molteplicità deve esserci prima unità" (Enneade VI, 1, 13). L'Uno, trascendente - e forse ispirato, almeno in parte, all'Uno di Parmenide - è semplicità assoluta, autosufficienza. È il Bene trascendente e infinito, puro atto auto-creativo. Plotino tratta della prima ipostasi, l'Uno, soprattutto nell'Enneade VI:

Pertanto, se ci deve essere qualcosa di assolutamente sufficiente per se stesso, deve essere l'Unico, che sarà completamente solo e che non avrà bisogno di nulla né rispetto a se stesso né rispetto agli altri [VI, 9, 6].

È infinito, perché è uno solo, e non ha né limiti né figure, perché non ha parti né forme [VI, 5, 11].

L'essere che è, è un atto in sé [VI, 8, 16].

Questo Principio Primo è al di là del pensiero e dell'intelletto, è perennemente vigile; tutto nasce da esso, ma non da un processo deliberato o da un atto di coscienza. Nasce a causa della sua sovrabbondanza. In questo si differenzia profondamente dal Dio cristiano:

"E questo eggregoro [egrêgorsis] trascende l'essenza, l'Intelletto [noûs] e la vita" (VI, 8,16).

L'Uno, come Principio assoluto, deve essere distinto dall'Intelletto e quest'ultimo dall'anima, che è più vicina alla materia. Ma questo non significa che possano essere divisi: non si può dire, per esempio, che uno è potenza e l'altro atto, perché l'Uno è al di là di questa distinzione e l'Intelletto è sempre atto. Ma non è nemmeno legittimo postulare un logos come un'ulteriore ipostasi, situata tra l'Intelletto e l'Anima. Le ipostasi sono tre e solo tre. In questo, i continuatori - Giamblico, Proclo - si discostano dal maestro.

La creazione è quindi una conseguenza, da un lato, della suprema sovrabbondanza dell'Uno, della sua suprema facoltà di generare. E questa sovrabbondanza deve traboccare:L'Uno non è, in sé, l'essere, ma la generazione dell'essere. L'essere è come la sua primogenitura. L'Uno è perfetto e attraverso di esso la sovrabbondanza e questa sovrabbondanza produce qualcosa di diverso da sé [V, 2, 1]. L'Uno è una potenza, una potenza immensa [V, 3,]

Per esprimere il fenomeno della creazione (che in Plotino è emanazione) il filosofo ricorre a varie immagini: quella della fontana che scorre senza mai esaurirsi (III, 8, 10); quella dell'albero immenso il cui principio è la radice; quella della sfera luminosa che proietta la sua luce senza smettere di essere essa stessa luce e senza perdere nulla della sua luminosità originaria. In altre parole: la creazione è una relazione eterna, non un atto di volontà. Esiste un amore (eros) dell'Intelletto e dell'Anima verso l'Uno, ma non viceversa. Il Principio Primo rimane in sé, ma emette irraggiamenti, bagliori: "Tutto ciò che è stato creato desidera e ama il suo creatore " (V, 1, 6).

b)         L'intelletto (Noûs)

Ma l'Uno non crea direttamente l'universo. Tra Lui e il mondo sensibile c'è un mondo intelligibile (seconda ipostasi) fatto di Idee platoniche. È una luce derivata dalla Luce originale. È come l'immagine dell'Uno (III, 8, 11; V, 3, 12):

L'immagine di Lui diciamo che è l'Intelletto [...] perché è necessario che il figlio sia, in un certo senso, Lui, che conservi molto di Lui e che sia simile a Lui come la luce è simile al Sole. Ma Egli non è l'Intelletto. È Lui, dunque, a generare l'Intelletto? Perché vede attraverso una conversione a Lui: e questa visione è l'Intelletto [V, 1,7],

Tutti gli intelligibili sono nell'Intelletto (V, 1, 4); esso comprende tutte le cose immortali. È Dio, ma non il Dio supremo (V, 5, 3):

E questa natura è Dio, un secondo dio che si mostra prima di vederlo. Ed Egli siede [...] su questo bel fondamento.

Contiene in sé tutti gli immortali, tutto l'Intelletto tutta la divinità.

È identico al suo oggetto (V, 4, 2).  L'Intelletto è un essere organico e vivente, a cui nulla è dovuto (VI, 2, 21).

c)         L'anima (Psykhê)

Nel pensiero di Plotino, invece, passa direttamente dall'Intelletto all'universo sensibile? Per niente. I significati intelligibili (le Idee) devono prima diventare temporali per costituire l'Anima universale e l'infinità di scopi particolari che essa contiene: "L'Anima è il Verbo e l'atto dell'Intelletto come l'Intelletto è dell'Uno" (V, 1, 6). L'Anima è la causa dell'unità dei corpi e deve quindi essere, a sua volta, unità. Anche se non è un'unità assoluta. È quindi unità-pluralità (VI, 2, 5); è allo stesso tempo divisibile e indivisibile, anche se prevale l'aspetto indivisibile, poiché appartiene a una natura divina (IV, 7, 10). Di conseguenza, l'anima non può essere, come sostiene Aristotele, l'entelechia del corpo: è il vero essere (IV, 7, 8). Inoltre, la sua natura è duplice: intellettiva e sensibile (IV, 8, 7). E questa doppia natura dell'Anima - spiegata dalla sua posizione intermedia - è ai limiti dell'intelligibile, ma, allo stesso tempo, molto vicina alla natura sensibile (IV, 8, 7): poiché la natura dell'anima è duplice, una intellettiva e l'altra sensibile, è meglio che viva nell'intelligibile. Ma è comunque dominata dalla necessità di essere anche nel sensibile, poiché ha una natura simile.

D'altra parte, l'Anima è il produttore del mondo corporeo:

Se il corpo non esistesse, l'Anima non potrebbe procedere, poiché non esiste un altro luogo in cui essa si manifesta naturalmente. Perciò, per procedere, genera il suo posto ossia il corpo.

E così l'Anima, produttrice del Cosmo sensibile che si muove a imitazione del precedente (l'Intelletto) [...] divenne prima di tutto temporale, producendo l'eternità [III, 7,10].

L'Anima, tuttavia, si trova a distanze diverse dall'Intelletto. Prima di tutto c'è l'Anima universale, poi l'Anima del mondo, che è la parte inferiore di essa. Poi c'è la parte migliore dell'uomo e infine quella inferiore. L'Anima universale è più creativa delle Anime particolari, perché è più vicina all'Intelletto (IV, 3, 6). Ma la nostra anima particolare non fa parte dell'anima del mondo. Qui non può essere in contatto diretto con le cose, mentre l'anima particolare sì (IV, 8, 7). La funzione dell'anima non è solo quella del pensiero. In questo caso, infatti, non si differenzierebbe in alcun modo dal Noùs o Intelletto. L'Anima ha, invece, una funzione specifica: il compito di governare e ordinare l'universo (IV, 8, 3).

Possediamo quindi un'anima, che proviene direttamente dalla parte superiore dell'Anima universale. Grazie ad esso:

[...] siamo noi stessi; ma non è la causa della nostra esistenza, bensì del bene che è in noi; viene quando il corpo è già formato, rappresenta quel poco di ragione che è in noi, e contribuisce alla nostra esistenza [II, 1,5].

Ciò che accade è che la nostra anima divina è chiamata a unirsi al corpo in modo molto più stretto di quanto non faccia l'anima del mondo con l'universo da essa creato. Gli scopi particolari, infatti, non hanno creato il corpo: semplicemente discendono in noi. Dovremmo allora chiederci, discende per spiegare questa simbiosi tra l'anima particolare e il corpo? Sembra che la risposta debba essere negativa. In effetti, tutto sembra indicare che l'anima scende nel corpo che le corrisponde. L'anima scende al livello morale e intellettuale che aveva nella sua vita precedente (cfr. V, 2, 2). La discesa dell'anima è causata da un peccato di orgoglio o di ribellione a Dio; da una sorta di audacia (tólma):

Perché le anime dimenticano Dio Padre e, essendo di natura divina e interamente di Lui, non conoscono se stesse e Lui? L'inizio del male, dunque, è per loro l'orgoglio e per la generazione, la prima differenziazione e il desiderio di avere il proprio potere [...].

Così avviene che, la completa ignoranza di Lui, è causa di stima per le cose di qui e di disprezzo per quelle di là [V, 1, 1].

In breve: possiamo dire che, poiché tutta la realtà procede dall'Uno, il male può esistere solo in una rottura di questo legame con Lui, in una chiusura in se stessi, in una pretesa di autosufficienza, in breve, in una sorta di orgoglio pieno di audacia (tólma). Ora, una tale rottura può avvenire solo a livello dell'anima, cioè a quel livello in cui l'essere e il non essere si toccano. La separazione dal corpo è quindi necessaria: "Separarsi dal corpo significa ritirarsi in se stessi, rimanere immuni dalle passioni" (I, 2, 5). Poiché il corpo è la prigione e la tomba dell'anima (I, 1, 3), l'anima deve quindi cercare di sfuggire al suo impero: fuggire, secondo l'invito di Platone nel Teeteto. E questo volo deve consistere in una somiglianza con Dio (homotòsis to theó).

Il suo vivere racchiusa nel corpo significa per l'anima vivere in questo mondo qui, "come, nelle scene del teatro, dobbiamo contemplare disgrazie, morti, conquiste di città, rapine" (III, 2, 55). Ma anche se le anime sono esposte a dolori e sofferenze, dal momento che sono immortali, quale danno può attingerle, se possono elevarsi al mondo superiore? "La povertà e la malattia non sono nulla per i buoni [...] È solo una disgrazia per i malvagi" (III, 2, 5). E ciò che ci sembra un male non è altro che il risultato della processione, cioè della divisione degli esseri nello spazio e nel tempo. L'armonia qui sotto è l'unico tipo di perfezione possibile. In breve, "questo universo è bello perché ogni essere contribuisce con la sua voce a diventare parte della sua unità armoniosa" (III, 2, 17).

Plotino è, in fin dei conti, un ottimista, anche se le cose cambieranno con i suoi discepoli e seguaci.

Conversione all'Uno.

La processione esprime, nel pensiero neoplatonico, solo una fase di quello che possiamo chiamare il dispiegarsi dell'essere. A ogni livello, e attraverso una conversione del termine generato, esso tende verso quello che ha generato. In virtù di questo movimento la vita, che emanava dall’Uno, ritorna a Lui. Così l'Anima diventa Intelletto, che tende verso di essa, così come l'Intelletto tende verso l'Uno.

In contrasto con gli gnostici, Plotino sostiene che ciò che è male per il tutto non è necessariamente male per le parti (II, 9, 7). E sebbene questo mondo sia, per Plotino, il migliore possibile, è indubbiamente inferiore al suo archetipo intelligibile, il Noùs, e quindi l'uomo deve rivolgersi alla bellezza, poiché nessuno può amare la Bellezza assoluta se non ama anche la creazione o l'emanazione di quella Bellezza.

Ci sono tre vie per questa elevazione spirituale: quella della musica, quella dell'amore, quella della filosofia. Il primo mezzo per liberarsi dal destino consiste nella pratica della virtù, nell'etica. Questo era già stato affermato dagli Stoici e prima ancora da Platone, quando nel Teeteto affermava che "i mali circolano necessariamente in questa regione del mondo, e per questo bisogna fuggire da qui sotto più rapidamente possibile, verso l'alto". E questo volo consiste in “una somiglianza con Dio". Di fronte a questa affermazione di Platone, Plotino si chiede: "Quale arte, o studio ci porta là dove dobbiamo andare?" (I, 3, 1). Prima di tutto, è necessario raggiungere la purificazione (katharsis). Le virtù civili e le virtù superiori, <sono possedute da Dio>. Infatti, se si vuole imitare Dio, bisogna possedere naturalmente le virtù divine. Qui Plotino afferma che Dio non possiede le virtù civili (coraggio, intrepidezza, giustizia, prudenza). Queste virtù, secondo Plotino (I, 2, 1), introducono l'ordine nelle varie parti di un composto come l'uomo. Ma Dio non lo è. L'uomo deve praticarle. Dobbiamo invece praticare quelle virtù che realizzano la più perfetta separazione possibile dell'anima dal corpo. Vale a dire, quelle virtù che producono una purificazione. Queste virtù spezzano i vincoli che legano l'anima al corpo e al male: "L'anima così disposta pensa l'intelligibile e non ha passioni. E questa disposizione può essere giustamente chiamata somiglianza con Dio" (I, 2, 3).

Ma questa liberazione attraverso l'etica è una liberazione parziale. Un altro modo è la dialettica. La dialettica è una scienza divina e Plotino le ha dedicato un intero trattato (I, 3). Comprende due livelli: "Ci sono due vie per coloro che si elevano: la prima parte da quaggiù; la seconda è la via di coloro che hanno già raggiunto il mondo intelligibile" (I, 3, 1). Lo stadio precedente è la scienza che, come per Platone, per Plotino è essenzialmente matematica. Il filosofo deve essere già impregnato di scienza, conoscere i principi che gli permettono di "muoversi sulle alture" (I, 3, 3), anche se "la sua marcia è incerta e ha bisogno di una guida": "Il filosofo per natura è rapido e quasi alato, e non ha bisogno, come gli altri, di separarsi dal sensibile per muoversi verso le alture" (I, 3, 3). Ora, la scienza è ragione discorsiva e questo significa molteplicità:

 

“Ora, chi vuole filosofare sull'Uno deve elevarsi ai principi primi, allontanarsi dal sensibile [...] e diventare, da molteplice, uno, per convertirsi in principio per la contemplazione dell'Uno [VI, 9, 3]!

Ma il viaggio mistico comprende due fasi. La prima conduce ai limiti del mondo sensibile; la seconda al mondo intelligibile. La musica, l'amore e la filosofia (dialettica) portano al primo stadio. La seconda si realizza nell'istante dell'estasi, ma questa, l'estati, non può essere prodotta semplicemente dalla dialettica. È necessario un altro metodo: l'interiorizzazione dell'anima fino a renderla del tutto simile all'Uno, perché solo l'uguale può essere conosciuto dall'uguale.

La dialettica dell'amore (eros) si trova già nel Fedro platonico. Quando Plotino parla dell'amore come via verso l'Uno, segue da vicino anche il passo corrispondente del Convivio platonico:

L'amante, toccato dalle bellezze sensibili, si sente preso da esse. Bisogna quindi insegnargli a non lasciarsi attrarre [...] da un solo corpo, ma mostrandogli con la ragione che è simile a tutti i corpi, e insegnandogli che questo è distinto dai corpi e viene dall'aldilà, e che si trova soprattutto in altre cose, come i bei studi e le belle leggi. Allora l'amore dell'amante è nel dominio dell'incorporeo, cioè nelle arti, nelle scienze e nelle virtù [...] Ma deve diventare Uno: dalle virtù deve risalire all'Intelletto, all'Essere, e lì volgere il suo cammino verso l'alto [I, 3, 2].

Ne consegue che l'atto dell'anima è l'amore, che non è altro che la ricerca del Bello in sé. I termini utilizzati da Plotino per esprimere questa ricerca differiscono solo per aspetti accidentali. È stato quindi affermato che l'estetica costituisce l'essenza della dottrina plotiniana, a condizione che l'estetica sia intesa come una teoria della contemplazione artistica, una teoria della bellezza.

Ma con la bellezza il grado supremo di iniziazione non è ancora raggiunto. Il pensiero plotiniano culmina nel misticismo, in una visione estatica. "Se l'amore per il Bello introduce la dialettica, l'amore per il Bene introduce la mistica, la partecipazione all'Uno che è al di là dell'Intelletto", ha scritto un critico. Tutta la filosofia di Plotino conduce a questo atto mistico, che è la sua ragion d'essere. Questa esperienza mistica, che Plotino ha avuto, rende le Enneadi un libro unico, perché il filosofo è convinto della realtà della propria esperienza (cfr. Porfirio, Vita di Plotino, 23, 12). La mistica di Plotino è caratterizzata da una serie di caratteristiche specifiche. È vero che condivide con altre mistiche alcuni aspetti specifici (il raccoglimento, lo svuotamento di sé, il riempirsi di Dio, la necessità del silenzio, la contemplzione ecc.) Ma ciò che è tipicamente plotiniano - e che rende il misticismo di Plotino tipicamente ellenico piuttosto che orientale - è il modo in cui il filosofo interpreta le sue esperienze. Si tratta di una questione fortemente interiore. Non prescrive esercizi speciali di respirazione, né la ripetizione di sillabe magiche o sacre. Non c'è un rituale per provocare l'esperienza. In ogni caso, si basa su principi già in parte evidenziati dal platonismo medio (Albino, ad esempio): la via della negazione, la via dell'analogia, la via dell'eminenza.

La visione di Dio appare come una luce interiore, come un "volo del solo spirito verso il solo Dio"):

Ritirandosi in se stesso, senza vedere nulla, vedrà la luce, non come un altro in qualcos'altro, ma come se stesso da sé, puro, brillante, istantaneamente da sé [V, 5, 7].

Ma per avere accesso all'Uno nella sua totalità, l'anima deve, come abbiamo detto, staccarsi da tutto ciò che è esterno e ritirarsi in se stessa. È qui che Plotino si differenzia da Filone, che chiede all'anima di uscire da se stessa. L'atto supremo dell'unione è un'attesa, o meglio, è preceduto da un'attesa.

Per questo motivo non bisogna cercarlo, ma aspettare che appaia tranquillamente, preparandosi alla contemplazione come l'occhio aspetta l'apparizione del sole. Appare quasi come se non fosse arrivato, presente prima di ogni altra cosa, anche prima che arrivi l'intelletto. Ed è meraviglioso come, senza essere arrivato, diventi presente [V, 5, 8].

Alcuni critici hanno sottolineato la scarsa importanza che Plotino attribuisce alla religione del suo tempo nella sua concezione dell'estasi e del misticismo. Non chiede sacrifici di animali, né apprezza gli incantesimi magici. D'altra parte, egli valorizza i culti mistici, al punto che alcuni si sono chiesti se non siamo in presenza di una trasposizione del culto dei misteri nel campo della filosofia. Ciò che accade, tuttavia, è che Plotino fa uso di un linguaggio mistico per rendere accessibili al suo pubblico le sue esperienze ineffabili.

Il grado supremo di misticismo in Plotino non rappresenta l'annientamento e la divinizzazione dell'anima. È vero che il linguaggio usato da Plotino può talvolta essere fuorviante. Ma si può affermare che nel momento dell'estasi l'io plotiniano non è né annichilito né inconscio, poiché è visto. Se è vero che l'anima non ha più coscienza di sé, gode almeno di una sorta di super-coscienza. "L'anima sale verso l'alto e vi rimane, contenta di essere con Lui" (VI, 7, 13).

Neppure in Plotino l’estasi consiste in un incontro del divino con l'umano, sebbene anche in questo caso si possano citare alcuni testi che sembrano indicare una parousia divina, la presenza dell'Uno nell'anima umana (ad esempio, cfr. V, 3, 14; VI, 9, 7). Ma la verità è che nella maggior parte dei testi l'estasi è presentata come un'unione, una synousia in cui la distinzione soggetto-oggetto è scomparsa (VI, 9, 10; VI, 9, 7). L'estasi plotiniana, insomma, è una visione straordinaria e diretta del Principio da parte del Principio. Non è più una semplice contemplazione, ma un modo diverso di vedere [VI, 9, 11]). È quindi l'estasi, il recupero da parte dell'anima del suo più alto grado di libertà. Ed è questo carattere positivo della mistica plotiniana che la distingue dalla mistica orientale.

Originalità di Plotino

Sebbene Plotino non pretendesse di essere originale, il suo pensiero comporta importanti innovazioni rispetto alla filosofia greca tradizionale. Nelle Enneadi convergono quasi tutte le correnti più importanti della tradizione greca e nasce un nuovo orientamento destinato a portare a compimento spiriti tanto diversi tra loro.

Iniziamo parlando del suo grande maestro: cosa deve Plotino a Platone? Senza dubbio, molto. La spinta religiosa e metafisica che pulsa nel pensiero di Platone riappare, rafforzata, nell'opera di Plotino. Ma è un Platone incompleto. Plotino non si rivolge all'intera opera di Platone, ma elabora una vera e propria selezione del materiale, selezione che continuerà con i suoi continuatori. È sintomatico che i dialoghi più citati nelle Enneadi (Simposio, Repubblica, Fedro, Timeo, Parmenide, Filebo e Sofista) costituiscono il nucleo centrale su cui i neoplatonici successivi lavoreranno nei loro commenti.

Nelle Enneadi c'è anche un importante elemento aristotelico, sebbene sia molto selettivo e utilizzato con grande flessibilità. Plotino riprende da Aristotele le nozioni di potenza e di atto, ma rompe con la concezione aristotelica di Dio, per cui Plotino agisce dentro le correnti del platonismo medio. Plotino non può accettare che Dio sia concepito come una noesis noetica, come il pensiero di un pensiero. Il dio aristotelico, se coincide con qualcosa di plotiniano, sarà con il Noùs. Plotino rifiuta anche la dottrina delle categorie (VI, 1, 1, 1-24), la dottrina dell'anima come forma del corpo (IV, 7, 8) e quella del quinto elemento (II, 1, 2).

Plotino non accetta neppure alcune dottrine stoiche. Innanzitutto, il materialismo tipico di questa scuola (IV, 7, 2; II, 4, 1): la sua concezione del tempo (III, 7, 7); la dottrina della compenetrazione dei corpi. In linea di principio, si può dire che ciò che Plotino rifiuta dello Stoicismo è soprattutto uno stato d'animo, piuttosto che le teorie concrete di una scuola particolare. Henry ha sottolineato che quando Plotino attacca lo stoicismo, di solito utilizza argomenti aristotelici. Nelle Enneadi, invece, nessuno stoico specifico è menzionato per nome.

Eppure accetta alcune tesi tipicamente stoiche, e in modo particolare la dottrina della sympàtheia (simpatia universale), quella del logos, quella delle ragioni seminali o lógoi spermatikoi. Accetta anche parte della teodicea stoica. Tuttavia, tutto questo bagaglio è trattato in modo originale e personale: il logos di Plotino non è panteista, e le ragioni seminali dipendono dalle Idee. Anche la teoria della Provvidenza difesa da Plotino di fronte allo stoicismo è molto diversa. Il filosofo ha indubbiamente trasformato profondamente ciò che accetta di questa scuola.

Per quanto riguarda le tesi del platonismo medio e del neopitagorismo, va detto che, naturalmente, esse vengono discusse e commentate nella sua opera, ma mai sotto il nome specifico di un pensatore particolare. Questo metodo, tuttavia, è abituale per il nostro filosofo.

La somiglianza di alcune sue dottrine con quelle di Numenio ha portato alcuni, come è noto, a parlare di plagio da parte di Plotino. Che le accuse fossero importanti è dimostrato dal fatto che il suo discepolo e comprimario Amelio trovò necessario scrivere un libro sulle differenze tra i due pensatori. È vero che Piotino ha preso da Numenio alcune idee ed espressioni: il Bene che è contenuto nel Noùs, l'espressione mónos pròs mónon che si riferisce alla relazione tra l'anima e Dio, e vari termini poetici sparsi nella sua opera. Alcune dottrine di Numenio ricompaiono in Plotino, come quella dei tre dei o principi; la tesi, comune a entrambi, che il Primo Principio è il Bene, pura unità trascendente. In entrambi i pensatori, il secondo principio è caratterizzato dalla noesis (pensiero) e il terzo dalla dianoia (riflessione). Inoltre, due dei principi fondamentali del neoplatonismo erano già stati formulati da Numenio: quello della partecipazione (nel mondo intelligibile ogni cosa è in ogni cosa, ma modificata in ognuna di esse dal proprio carattere) e quello della donazione immutabile (che indica relazioni causali non reciproche, ad esempio l'Uno dà, ma non diminuisce di per sé).

Sappiamo, inoltre, il forte impatto che la figura di Ammonio Sakkas ebbe sulla mente di Plotino. Questa figura ha meritato, d'altra parte, come abbiamo visto prima, giudizi diversi sulla sua posizione intellettuale. In ogni caso, la sua dottrina fu decisiva per Plotino.

 

Traduzione e revisione testo di Mystes


[1] Arturo Reghini: Dizionario Filologico, Ignis (v. le voci corrispondenti)


 


 

 

Thomas Taylor

 

 

 

SCRITTI SU PLATONE E SUL PLATONISMO

 

Traduzione dall’inglese e revisione dei testi a cura di Mystes

 

Introduzione

Piero Fenili

 

Indice

 

Piero Fenili, Introduzione, pag. 5

 

Cap. 1- Introduzione alla filosofia e agli scritti di Platone, pag. 11

Cap. 2 - Spiegazione di alcuni termini platonici, pag. 93

Cap. 3 - Il credo del filosofo neoplatonico, pag. 103

Cap. 4 - Introduzione ai misteri degli egizi dei caldei degli assiri, pag.111

Cap. 5 - Introduzione a Plotino, pag.121 

Cap. 6 - Dissertazione sulla vita e la teologia di Orfeo, pag. 143 

 

Cap. 7 - Giamblico: Introduzione alla vita di Pitagora, pag. 159

 

Cap. 8- Thomas Taylor: The Platonist, pag.167

 

Cap. 9 - Apparato iconografico, pag. 217

 

Dall’Introduzione di Piero Fenili;

Introduzione

 

Thomas Taylor, detto “il Platonico” (the Platonist) nacque a Londra nel 1758 da genitori modesti ma rispettati. All’età di dieci anni venne ammesso alla St. Paul School, dimostrando un precoce interesse per la filosofia. Precoce fu anche il suo innamoramento, all’età di dodici anni, nei confronti della fanciulla che sarebbe diventata sua moglie.

Un libro di avviamento alla matematica, trovato in casa, suscitò in lui, da vero Pitagorico, un vivo interessamento anche verso tale disciplina.

Proseguendo negli studi, egli era solito dedicare il giorno al greco ed al latino e le ore notturne alla matematica, mentre la sera la riservava a corteggiare Miss Morton, che avrebbe poi sposato contro l’intenzione del padre di lei, che avrebbe preferito destinarla ad un uomo più ricco.

Per sopperire alle necessità di vita della coppia, Taylor lavorò dapprima come usciere e quindi presso la Lubbock’s Bank, soffrendo sempre di una cronica mancanza di denaro e, non di rado, per la penuria di cibo. (continua)

 

 


 

 

 

Dall’ INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA E AGLI SCRITTI DI PLATONE:

 

"La filosofia", dice Ierocle, "è la purificazione e la perfezione della vita umana. È la purificazione, in effetti, dell'irrazionalità materiale e del corpo mortale; è la perfezione, in quanto è la conquista della nostra felicità e il ritorno alla somiglianza divina. La Virtù e la Verità si occupano di questi due aspetti: la prima elimina la smodatezza delle passioni, la seconda introduce la forma divina in coloro che sono naturalmente adatti a riceverla".

Di questa filosofia, così definita, che può essere paragonata a una piramide luminosa che termina nella Divinità e che ha come base l'anima razionale dell'uomo e le sue concezioni spontanee e non deviate, Platone può essere giustamente chiamato il capo principale e lo ierofante, attraverso il quale, come la luce mistica nei recessi più profondi di qualche tempio sacro, essa ha brillato per la prima volta con occulto e venerabile splendore. Di tutta questa filosofia si può davvero dire che è il bene più grande di cui l'uomo possa essere partecipe: infatti, se ci purifica dalle contaminazioni delle passioni e ci assimila alla Divinità, ci conferisce la felicità propria della nostra natura. Perciò è facile osservare la sua preminenza su tutte le altre filosofie; dimostrare che le altre filosofie, laddove si oppongono ad essa, sono in errore; che, nella misura in cui contengono qualcosa di scientifico, sono alleate ad essa; e che, nel migliore dei casi, non sono che rivoli derivati da questo vasto oceano di verità. (continua)

 

 

 

Da “IL CREDO DEL FILOSOFO NEOPLATONICO”

 

Pubblichiamo il “Credo del filosofo neoplatonico” di Thomas Taylor, colui che è stato definito, non senza enfasi, “Il moderno Platone”, “L’apostolo del Paganesimo” e “Il sacerdote pagano dell’Inghilterra” (cfr. Manly P. HALL. Introductory essay a: THOMAS TAYLOR, The theoretic arithmetic ofthe Pythagoreans, Samuel Weiser, New York, 1972, p.VI). (Il “Credo” è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista IGNIS n. 2 1991) (continua)

 

 

 

 

Dall’ INTRODUZIONE AI MISTERI DEGLI EGIZI DEI CALDEI DEGLI ASSIRI:

 

 

Mi sembra che ci siano due categorie di persone per le quali la presente opera deve essere considerata di valore inestimabile: gli amanti dell'antichità e gli appassionati di filosofia e religione antiche. Per i primi deve essere inestimabile, perché è ricca di informazioni derivate dai saggi dei Caldei, dai profeti Egizi, dai dogmi Assiri e dalle antiche conoscenze di Hermes; e a questi ultimi per le dottrine in esso contenute, alcune delle quali, originate da Hermes Trismegisto, furono conosciute da Pitagora e Platone e furono le fonti della loro filosofia; altre sono profondamente teologiche e svelano i misteri dell'antica religione con un'ammirevole concisione di dizione e un inimitabile vigore ed eleganza di concezione. A ciò si può aggiungere, come motivo di eccellenza, che è la più copiosa, la più chiara e la più soddisfacente difesa esistente della genuina teologia antica. (continua)


 

Da PLOTINO Introduzione:

 

Può sembrare meraviglioso che la lingua, che è l'unico metodo per trasmettere le nostre concezioni, sia allo stesso tempo un ostacolo al nostro progresso in filosofia; ma la meraviglia cessa quando consideriamo che essa è raramente studiata come veicolo di verità, ma è troppo spesso stimata per se stessa, indipendentemente dalla sua connessione con le cose. Questa osservazione è notevolmente verificata nella lingua greca che, essendo l'unica depositaria dell'antica saggezza, è stata, purtroppo per noi, il mezzo per nascondere, in una vergognosa oscurità, le ricerche più profonde e le verità più sublimi. Che le parole non abbiano altro valore se non quello di essere asservite alle cose, deve essere sicuramente riconosciuto da ogni mente liberale, e sarà contestato solo da chi ha trascorso il fiore della sua vita, e consumato il vigore della sua comprensione, in critiche verbali e sciocchezze grammaticali. E, se così fosse, ogni amante della verità studierebbe una lingua solo per procurarsi la saggezza che essa contiene, e senza dubbio desidererebbe che la sua lingua nativa la trasmettesse agli altri. (continua)

 

 

 

 

Dalla DISSERTAZIONE SULLA VITA E LA TEOLOGIA DI ORFEO:

 

Prefazione.

C'è senza dubbio una rivoluzione nel mondo letterario, corrispondente a quella del mondo naturale. Il volto delle cose cambia continuamente, e la perfetta e perpetua armonia dell'universo sussiste grazie alla mutevolezza delle sue parti. In conseguenza di questa fluttuazione, le arti e le scienze sono fiorite in epoche diverse del mondo: ma il cerchio completo della conoscenza umana non è mai esistito, credo, in una sola nazione o in una sola epoca. Dove le ricerche accurate e profonde sui principi delle cose hanno raggiunto la perfezione, gli uomini hanno trascurato, per naturale conseguenza, le disquisizioni sui dettagli; e dove i particolari sensibili sono stati l'oggetto generale della ricerca, la scienza degli universali ha languito, o è affondata nell'oblio e nel disprezzo. (continua)

 

 

 Dagli scritti selezionati di Thomas Taylor The Platonist:


  Ildesiderio di vedere ristampati alcuni degli scritti e delle traduzioni di Thomas Taylor mi è venuto mentre leggevo le fonti da cui William Blake ha appreso la saggezza tradizionale. Foster Damon nel 1924 ipotizzò per primo il debito di Blake nei confronti di Taylor, e da allora nessuno studioso serio di Blake lo ha più negato. Ma con poche eccezioni l'importanza di questo debito è stata minimizzata; e come per Blake, così per gli altri poeti romantici.

 

 

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Thomas Taylor SCRITTI SU PLATONE E SUL PLATONISMO


 

 

PAGINE EMBLEMATICHE DI PLATONE

 

Platone ha scritto nell’ottavo libro della Repubblica pagine che negli anni passati sono ridiventate famose, in quanto descrivono una forma di patologia della psyche che si rispecchia in modo sorprendente in molti dei mali degli uomini, specie dei giovani, di oggi.

Leggiamo un passo chiave, davvero magistrale, contenente concetti espressi con grande acume psicologico, che presenta anche, in contrappunto, sferzate ironiche provocatorie (si tenga presente che la “democrazia” di cui qui Platone parla coincide, in realtà, con la “demagogia”).

Giovanni Reale

°°°

-           Allora, caro amico, come nasce la tirannide? Direi che è ovvio che essa tragga origine dalla democrazia.

-           Non c’è dubbio.

-           Non sarà per caso che il modo in cui si sviluppa la democrazia dalla oligarchia sia identico a quello in cui si genera la tirannia dalla democrazia?

-           E quale sarebbe questo modo?

-           Il bene, precisai, che ci si poneva come ideale, e sul quale si fondava l’oligarchia, era la ricchezza. Non è vero?

-           Sì.

-           E il desiderio insaziabile di ricchezza e di sacrificare ogni altro interesse a quello per il denaro fu appunto la causa della decadenza di un tale regime.

-           È così, disse.

-           E non è forse vero che la democrazia si prefigge un certo bene, e che è proprio il desiderio smodato di questo bene a portarla alla perdizione?

-           E quale è, secondo te, il bene che essa si prefigge?

-           La libertà, risposi. Perché in un regime democratico tu sentirai ripetere che proprio la libertà è ritenuta come la cosa più preziosa, e che pertanto l’uomo libero per natura non potrebbe che scegliere questo Stato come sua residenza.

-           In effetti, ammise, questo argomento è ripetuto più e più volte.

-           E allora, seguitai, per tornare a quello che si diceva, non dobbiamo pensare che sia l’insaziabile ricerca di questo bene, e l’abbandono in cui sono lasciati gli altri beni, a determinare la decadenza di una tale forma politica e il sorgere dell’esigenza della tirannide?

-           In quale maniera, chiese?

-           A mio giudizio, quando uno Stato democratico, nella sua sete di libertà, si trova ad essere accudito da cattivi cop-pieri, bevendo di questa libertà allo stato puro e più del leci¬to, se ne ubriaca, e allora quei governanti che non siano più che disponibili e propensi a concedere la massima libertà, li perseguita, incolpandoli di intolleranza e di atteggiamento autoritario.

-           Fanno proprio così, riconobbe.

-           E poi, aggiunsi, quelli che si dimostrano obbedienti all’autorità, li screditano chiamandoli uomini servili, gente da nulla; al contrario stimano ed esaltano i comandanti che si atteggiano a subalterni, e i subalterni che si atteggiano a comandanti, sia in privato che in pubblico. Del resto, non è facile che in uno Stato di tal genere l’amore per la libertà sovrasti ogni altro?

-           E come no?

-           E inoltre, aggiunsi, esso si introduce nelle case dei privati, e l’anarchia finisce col mettere le radici perfino negli animali.

-           Ma, obiettò, come possiamo dire una cosa simile?

-           Ad esempio, dissi, il padre impara a mettersi sullo stesso piano di un giovane e a temere i figli, e parimenti il figlio si sente sullo stesso piano del padre, non avendo nei riguardi dei suoi genitori nessun rispetto né timore; e tutto ciò in quanto vuole essere un uomo libero. E pure un meteco vorrà avere gli stessi diritti di un cittadino, e un cittadino di un meteco, e lo stesso vale per lo straniero.

-           Le cose vanno proprio così, rispose.

-           Caro, seguitai, avviene questo e altre cose più banali. In un tale ambiente il maestro ha paura degli studenti e se li tiene buoni. Dal canto loro gli scolari non tengono in nessun conto i maestri, e così pure i pedagoghi. Insomma, i giovani si danno le arie da uomini maturi e hanno sempre da ridire a parole e a fatti. Gli uomini maturi, invece, vogliono portarsi al livello dei giovani e così fanno sfoggio di atteggiamenti spigliati e scherzosi, per imitarli e per non passare per scorbutici e autoritari.

-           Esattamente, disse.

-           Ma, continuai, in questa forma di governo, il colmo a cui giunge la libertà della massa, caro amico, si ha quando gli schiavi e le schiave acquistati al mercato non sono meno liberi di chi li ha comperati. E per poco ci dimenticavamo di citare quale parità di diritti e qual grado di libertà ci siano ormai fra uomini e donne, e donne e uomini.

-           E perché, domandò con Eschilo, non dovremmo dire quella certa espressione che ci viene alle labbra?

-           Se è per questo, intervenni, la dico io. Nessuno, se non lo constatasse di persona, potrebbe convincersi di quanto gli animali domestici siano più liberi qui che non altrove. Davvero, come dice il proverbio, le cagne sono identiche alle loro padrone, e lo stesso vale per i cavalli e per gli asini. Questi con passi solenni sono soliti muoversi in tutta libertà, e anzi, per la strada travolgono chi di volta in volta incontrano, se non riesce a scansarli. E allo stesso modo tutto il resto avviene all’insegna della più totale libertà.

-           Tu traduci in parole il mio sogno, disse. Anch’io di frequente sono vittima di queste circostanze, quando mi reco in campagna.

-           Ora, seguitai, se si sommano tutti questi elementi, non vedi come il risultato renda labile l’anima dei cittadini, cosicché basta che uno osi solo proporre una qualche forma di sudditanza, perché essi si inalberino e non ne vogliano sapere? In questo modo, tu lo sai bene, essi finiscono col non tenere in conto neppure le leggi scritte o non scritte, pur di non avere sopra di sé nessuno che in alcun modo la faccia da padrone.

-           Lo so fin troppo bene, disse lui.

-           E io: eccoti, amico mio, in tutta la sua bellezza ed esuberanza il principio da cui germina la tirannide, almeno per quanto mi risulta.

-           Esuberante, non c’è che dire! Ma poi, disse, come si va avanti?

-           Quella stessa infezione, risposi, che aveva colpito l’oligarchia e l’aveva portata alla morte, ora si diffonde anche in questo tipo di governo, ma in una forma resa più acuta e virulenta dalla sproporzionata libertà, in modo tale che la democrazia ne risulta soggiogata. Certo che ogni azione esagerata di solito produce una reazione altrettanto grande e contraria, così nel clima, come anche nelle piante, nei corpi e non meno nei regimi politici.

-           E logico, disse.

-           D’altra arte, è evidente che una libertà spinta all’eccesso si rivolti in una schiavitù spinta all’eccesso, così nella sfera privata come in quella pubblica.

-           Senz’altro.

-           Di conseguenza, aggiunsi, è altrettanto logico che la tirannia non possa sorgere da nessun’altra forma di governo che dalla democrazia, se, come credo, la più assoluta e la più dura schiavitù deve venire da un’estrema libertà.


La patologia dell’anima

(La fine della democrazia)

Pagine emblematiche di Platone contenenti un messaggio valido per sempre

Potrebbe essere molto interessante un esame analitico dei libri ottavo e nono della Repubblica, dove Platone presenta le varie forme di Costituzioni che si allontanano vieppiù da quella ideale, considerandole come ingrandimenti dell’anima che dallo stato di “salute” della giustizia si allontana via via corrompendosi, e quindi via via raggiungendo vari stadi di malattia, sempre più grave. Da tempo, i più attenti studiosi hanno riconosciuto nelle analisi della psiche contenuta in questi libri un capolavoro di psicologia. Ma qui, per non appesantire il nostro discorso, riteniamo opportuno, concentrarci sull’esame di quella patologia della psiche che si crea nel momento in cui la democrazia si corrompe e cade in eccessi demagogici e anarchici, preparando la strada alla catastrofe della tirannide.

L’insaziabilità di denaro induce a poco a poco i giovani a curarsi solo della ricchezza. Di conseguenza, cresciuti in questo ambiente in cui i valori morali sono offuscati, si abbandonano a ogni forma di piaceri senza misura. La loro anima si riempie di indiscriminata voglia di libertà, che, perduto il senso dei valori, degenera in licenza. I desideri e i piaceri finiscono col diventare sovrani; occupano - dice Platone - la rocca dell’anima, trovandola vuota di giusti pensieri e di ragionamenti veri, che sono le autentiche guardie e sentinelle.

I falsi ragionamenti sbarrano la strada ai giusti ragionamenti che potrebbero portare soccorso, e bandiscono il rispetto, considerato ormai scempiaggine; viene cacciata la temperanza trattata come mancanza di virilità, e la moderazione nello spendere vista come spilorceria. E, naturalmente, vengono esaltate le opposte qualità negative: la tracotanza viene considerata il corretto modo di comportarsi, la licenza viene scambiata con la libertà, l’impudenza con il coraggio.

Platone ha scritto nell’ottavo libro della Repubblica pagine che negli anni passati sono ridiventate famose (sono state riprese persino da quotidiani e da rotocalchi), in quanto descrivono una forma di patologia della psiche che si rispecchia in modo sorprendente in molti dei mali degli uomini, specie dei giovani, di oggi.

Leggiamo un passo chiave, davvero magistrale, contenente concetti espressi con grande acume psicologico, che presenta anche, in contrappunto, sferzate ironiche provocatorie (si tenga presente che la “democrazia” di cui qui Platone parla coincide, in realtà, con la “demagogia”):

-           Allora, caro amico, come nasce la tirannide? Direi che è ovvio che essa tragga origine dalla democrazia.

-           Non c’è dubbio.

-           Non sarà per caso che il modo in cui si sviluppa la democrazia dalla oligarchia sia identico a quello in cui si genera la tirannia dalla democrazia?

-           E quale sarebbe questo modo?

-           Il bene, precisai, che ci si poneva come ideale, e sul quale si fondava l’oligarchia, era la ricchezza. Non è vero?

-           Sì.

-           E il desiderio insaziabile di ricchezza e di sacrificare ogni altro interesse a quello per il denaro fu appunto la causa della decadenza di un tale regime.

-           È così, disse.

-           E non è forse vero che la democrazia si prefigge un certo bene, e che è proprio il desiderio smodato di questo bene a portarla alla perdizione?

-           E quale è, secondo te, il bene che essa si prefigge?

-           La libertà, risposi. Perché in un regime democratico tu sentirai ripetere che proprio la libertà è ritenuta come la cosa più preziosa, e che pertanto l’uomo libero per natura non potrebbe che scegliere questo Stato come sua residenza.

-           In effetti, ammise, questo argomento è ripetuto più e più volte.

-           E allora, seguitai, per tornare a quello che si diceva, non dobbiamo pensare che sia l’insaziabile ricerca di questo bene, e l’abbandono in cui sono lasciati gli altri beni, a determinare la decadenza di una tale forma politica e il sorgere dell’esigenza della tirannide?

-           In quale maniera, chiese?

-           A mio giudizio, quando uno Stato democratico, nella sua sete di libertà, si trova ad essere accudito da cattivi coppieri, bevendo di questa libertà allo stato puro e più del lecito, se ne ubriaca, e allora quei governanti che non siano più che disponibili e propensi a concedere la massima libertà, li perseguita, incolpandoli di intolleranza e di atteggiamento autoritario.

-           Fanno proprio così, riconobbe.

-           E poi, aggiunsi, quelli che si dimostrano obbedienti all’autorità, li screditano chiamandoli uomini servili, gente da nulla; al contrario stimano ed esaltano i comandanti che si atteggiano a subalterni, e i subalterni che si atteggiano a comandanti, sia in privato che in pubblico. Del resto, non è facile che in uno Stato di tal genere l’amore per la libertà sovrasti ogni altro?

-           E come no?

-           E inoltre, aggiunsi, esso si introduce nelle case dei privati, e l’anarchia finisce col mettere le radici perfino negli animali.

-           Ma, obiettò, come possiamo dire una cosa simile?

-           Ad esempio, dissi, il padre impara a mettersi sullo stesso piano di un giovane e a temere i figli, e parimenti il figlio si sente sullo stesso piano del padre, non avendo nei riguardi dei suoi genitori nessun rispetto né timore; e tutto ciò in quanto vuole essere un uomo libero. E pure un meteco vorrà avere gli stessi diritti di un cittadino, e un cittadino di un meteco, e lo stesso vale per lo straniero.

-           Le cose vanno proprio così, rispose.

-           Caro, seguitai, avviene questo e altre cose più banali. In un tale ambiente il maestro ha paura degli studenti e se li tiene buoni. Dal canto loro gli scolari non tengono in nessun conto i maestri, e così pure i pedagoghi. Insomma, i giovani si danno le arie da uomini maturi e hanno sempre da ridire a parole e a fatti. Gli uomini maturi, invece, vogliono portarsi al livello dei giovani e così fanno sfoggio di atteggiamenti spigliati e scherzosi, per imitarli e per non passare per scorbutici e autoritari.

-           Esattamente, disse.

-           Ma, continuai, in questa forma di governo, il colmo a cui giunge la libertà della massa, caro amico, si ha quando gli schiavi e le schiave acquistati al mercato non sono meno liberi di chi li ha comperati. E per poco ci dimenticavamo di citare quale parità di diritti e qual grado di libertà ci siano ormai fra uomini e donne, e donne e uomini.

-           E perché, domandò con Eschilo, non dovremmo dire quella certa espressione che ci viene alle labbra?

-           Se è per questo, intervenni, la dico io. Nessuno, se non lo constatasse di persona, potrebbe convincersi di quanto gli animali domestici siano più liberi qui che non altrove. Davvero, come dice il proverbio, le cagne sono identiche alle loro padrone, e lo stesso vale per i cavalli e per gli asini. Questi con passi solenni sono soliti muoversi in tutta libertà, e anzi, per la strada travolgono chi di volta in volta incontrano, se non riesce a scansarli. E allo stesso modo tutto il resto avviene all’insegna della più totale libertà.

-           Tu traduci in parole il mio sogno, disse. Anch’io di frequente sono vittima di queste circostanze, quando mi reco in campagna.

-           Ora, seguitai, se si sommano tutti questi elementi, non vedi come il risultato renda labile l’anima dei cittadini, cosicché basta che uno osi solo proporre una qualche forma di sudditanza, perché essi si inalberino e non ne vogliano sapere? In questo modo, tu lo sai bene, essi finiscono col non tenere in conto neppure le leggi scritte o non scritte, pur di non avere sopra di sé nessuno che in alcun modo la faccia da padrone.

-           Lo so fin troppo bene, disse lui.

-           E io: eccoti, amico mio, in tutta la sua bellezza ed esuberanza il principio da cui germina la tirannide, almeno per quanto mi risulta.

-           Esuberante, non c’è che dire! Ma poi, disse, come si va avanti?

-           Quella stessa infezione, risposi, che aveva colpito l’oligarchia e l’aveva portata alla morte, ora si diffonde anche in questo tipo di governo, ma in una forma resa più acuta e virulenta dalla sproporzionata libertà, in modo tale che la democrazia ne risulta soggiogata. Certo che ogni azione esagerata di solito produce una reazione altrettanto grande e contraria, così nel clima, come anche nelle piante, nei corpi e non meno nei regimi politici.

-           E logico, disse.

-           D’altra arte, è evidente che una libertà spinta all’eccesso si rivolti in una schiavitù spinta all’eccesso, così nella sfera privata come in quella pubblica.

-           Senz’altro.

-           Di conseguenza, aggiunsi, è altrettanto logico che la tirannia non possa sorgere da nessun’altra forma di governo che dalla democrazia, se, come credo, la più assoluta e la più dura schiavitù deve venire da un’estrema libertà.

 

 

L'ESPERIENZA INIZIATICA

 

Quelli di noi che da tempo hanno intrapreso una via iniziatica di totale e completa realizzazione spirituale vanno incontro a una serie di problemi e di considerazioni che tenterò di descrivere e di commentare in questo breve scritto.

Superata la fase inziale sulla quale non è il caso di soffermarmi perché si ritiene che siano bastati i consigli, le istruzioni e soprattutto gli ammonimenti dei maestri che si sono avvicendati negli ultimi tempi e che, prodighi di parole e di scritti, hanno fatto di tutto per mostrarci la retta via della realizzazione spirituale, passo adesso a trattare dei problemi reali, da quelli di ordine pratico della vita di tutti i giorni a quelli che ognuno di noi ha dovuto affrontare quando è stato posto solo, con la propria coscienza e con le proprie forze, al cospetto del mistero filosofico.

Cominciando dal controllo del pensiero, pensiero abituato a scorrazzare liberamente nella mente nel tentativo di attingere la nostra profonda aspirazione a una Vita divina, per concludere poi con delle giustificazioni che il pensiero produce pur di demolire quella certezza assoluta che avevamo prodotto agli inizi del cammino intrapreso sull’onda dell’entusiasmo e della novità.

In questa fase noi dimentichiamo che l’uomo per vivere la sua esperienza iniziatica non ha bisogno di alcuna giustificazione razionale perché fin dall’inizio egli è in possesso di una certezza: quella che il pensiero gli ha trasmesso sulla base dell’intuizione.

Soltanto quando l’esperienza del sacro si è compiuta l’uomo avverte la necessità di rielaborarla in forma razionale: ed è a questo punto che egli va alla ricerca delle teorie ineffabili che giustifichino affettivamente l’esperienza interiore che sta vivendo. Nonostante tutto l’afflato verso la sacralità permane nel profondo della sua coscienza come atto unico che troverà in se stesso la legittimità razionale.

Chi desidera toccare il vertice dell’esperienza misterica non deve farsi prendere dai “casi della vita”, dalle “emozioni familiari” e dai tanti sentimenti che turbano o allietano i nostri rapporti umani e sociali, ma deve permanere vigile e attento agli impulsi del nostro proprio essere che, nel bene e nel male, normalmente non sbaglia le direttive soprattutto quando si trova al centro di un processo catartico che precede e accompagna l’esperienza in corso.

In questo “spazio di tempo” l’uomo rinuncia alla propria individualità corporea e si lascia trasportare dall’essere incognito verso il centro della sua esistenza, il centro dell’essere nei confronti del quale si è talvolta considerato inadeguato e impreparato quando è proprio da lì, da questo “stante” o da questo “essere che è” che si sprigiona l’energia necessaria alla sua vera iniziazione.

E’ infatti errato pensare che l’estasi “filosofica” avvenga per un favore divino, l’estasi è il punto finale di un processo che ha avuto inizio con l’aiuto delle nostre forze spirituali, attive e operative nel corso della nostra vita corporea la quale vita in congiunto con l’Anima, propizia e accompagna tutti i nostri sviluppi vitali, da quelli inferiori espressi dalla sfera terrestre a quelli inerenti al nostro superiore destino. E’ pertanto errato pensare che al compimento della nostra realizzazione spirituale si giunga soltanto dopo la morte. Quel che succede dopo la morte dobbiamo prepararlo e viverlo in vita, altrimenti nell’al di là ci tocca un destino di ombre cieche e sorde a qualsiasi richiamo.

Possiamo parlare di “immortalità dell’anima” solo se abbiamo la totale consapevolezza e l’assoluta certezza di quanto ci aspetta nel “qua” e nel “dopo”, pertanto dividere in due l’eternità che incombe su di noi è il più tragico errore che possiamo compiere, non solo dal punto di vista intellettuale, ma soprattutto da quello iniziatico, dimostrando così di non aver compreso nulla del vero fine dell’esperienza iniziatica della quale sto parlando.

L’esperienza umana è necessaria perché è con i piedi per terra che ci sarà possibile “conoscere”, in primo luogo il “demone” che ci è toccato in sorte e quindi l’Anima che sostiene la nostra vita e congiuntamente quella parte divina di noi che parteciperà all’ineffabile ascensione dopo la restituzione del nostro scafandro fisico alla madre terra.

Noi abbiamo a che fare con un ente mortale (il nostro corpo fisico) che aspira unicamente alle passioni (quando vive) e alla dissoluzione quando si avvicina la fine e che quando è in “vita” sarà possibile dominare e soprattutto “usare” con gli unici strumenti a nostra disposizione: quelli che la nostra “intelligenza” e soprattutto la nostra “anima” ci mettono a disposizione: sta a noi “vederli” con l’occhio di “jupiter” e usarli con le ali di “hermes”.

E’ bene a questo punto, prima di proseguire, chiarirci le idee sul significato della parola morte visto che non sempre è stata usata, come oggi, per designare la fine di una esistenza umana. Se non fossimo in grado di intendere e di approfondire il problema della morte sarebbe bene rinunciare ad andare avanti nell’esame della <esperienza iniziatica>: Come vedremo la morte umana è strettamente relazionata con la morte iniziatica visto che la “la morte iniziatica consiste – secondo Arturo Reghini - nel porre la propria coscienza, rimanendo vivi e presenti a se, nella condizione in cui deve trovarsi la coscienza del morto. Si tratta di sperimentare, vivendo in piena coscienza, la morte.”

Sappiamo che l'estasi, come pensava Giordano Bruno, non avviene per nessuno speciale intervento divino, ma per merito delle stesse forze spirituali, naturalmente immanenti all'anima; ne consegue ancora che all'Assoluto ineffabile si può giungere già in questa vita terrena e che l'unione estatica non è privilegio di un al di là. L’aspirante iniziato infatti non si preoccupa tanto di una vita spirituale perfetta che si compia dopo la morte, quanto invece della stessa vita terrena, poiché la corporeità che accompagna l'anima non menoma affatto la sua potenza spirituale né ritarda il compimento del suo destino superiore. Pertanto se all’estasi si giunge senza nessun miracolo divino, ma per merito delle sole forze spirituali dell’Anima, ne consegue che vi si potrà giungere già nel corso di questa vita terrena, nel corso cioè di quella speciale esperienza che chiamiamo “iniziazione” visto che nel mondo classico la stessa parola “iniziazione” era seguita da quella di “misteri”. Pertanto l’esperienza iniziatica non è altro che una esperienza misterica, che si svolge e si realizza in vita e non nell’attesa vana di un al di là oscuro e problematico.

Per concludere, Platone e i neo platonici insistono col dire che si raggiunge l’immortalità dell’anima attraverso una immateriale purezza, soprattutto perché l’immortalità è una conquista definitiva dell’anima, è la conferma che il processo palingenetico si è compiuto nel viaggio di solo ritorno e che la morte non è soltanto l’interruzione di UN destino ma è il segno dell’interruzione di più vite e di più morti che appunto si celebrano e si esaltano in quel crudele meccanismo della reincarnazione e che con l’esperienza iniziatica e la conquistata immortalità deve cessare di esistere.

Manlio Magnani concludeva il suo bellissimo scritto sulla “Morte” con queste parole che facciamo nostre: “Precisamente nel fine visibile delle forme e delle vite singole, degli aggregati, delle cose composte e delle cose semplici, in una parola in ciò che gli uomini chiamano morte è il segno visibile tangibile di un limite insorpassabile da parte del caos. La cosiddetta morte in quanto dissolve una esistenza, di qualunque ordine essa sia, ha valore e significato di negazione e di opposizione alla fissità o alla stabilità del divenire fenomenale, del processo della molteplicità, dell’impulso del caos: quindi è come espressione di un tendere verso il ritorno allo stato anteriore al caos e al verbo stesso, cioè a quell’unicità in molte tradizioni indicata con la parola padre. Ecco perché la morte fu detta "mistero cosmogonico del padre”.

Roberto Sestito

Giamblico – LA VITA PITAGORICA


PITAGORA INCONTRA I GIOVANI A CROTONE

Quando Pitagora giunse a Crotone per prima cosa volle visitare il Ginnasio e qui, preceduto dalla sua fama, fu accolto dai giovani ai quali si rivolse con le seguenti ammonizioni:

Li esortò per prima cosa al rispetto degli anziani, mostrando come nell’universo, nella vita, nelle città e nella natura, quel che precede è più apprezzato di quel che segue nel tempo, come, ad esempio, la levata del sole più del tramonto, l’aurora più della sera, il principio più della fine, la generazione più della dissoluzione, e similmente gli indigeni più degli stranieri, e i duci e i fondatori delle città più dei coloni; e, in generale, gli dei più dei demoni e questi più dei semidei, gli eroi più degli uomini e, tra questi, coloro che hanno generato più dei giovani. Diceva queste cose per indurli — con metodo induttivo — a onorare i genitori più di se stessi. Ai quali — diceva — essi dovevano la stessa gratitudine che un morto dovrebbe a chi fosse in grado di ricondurlo nuovamente in vita. E aggiungeva: è giusto amare al di sopra di tutti, e non mai affliggere, coloro che per primi ci hanno arrecato i più grandi benefici: solo i genitori precedono la generazione coi loro benefici, e di tutte le opere felicemente compiute dai discendenti, il merito va agli antenati, e non è possibile che pecchino contro gli dei quanti sostengono che essi sono i nostri maggiori benefattori. Infatti anche gli dei, senza alcun dubbio, sono indulgenti verso coloro che onorano massimamente i genitori: giacché da essi abbiamo imparato a onorare la divinità. Onde anche Omero glorifica con lo stesso nome il re degli dei, chiamandolo appunto «padre» degli dei e degli uomini, e molti mitologi hanno tramandato che i divini regnanti Zeus ed Era gareggiarono nell’appropriarsi, ciascuno per sé in modo esclusivo, di quell’affetto che i figli nutrono, partitamente, verso la coppia dei genitori, onde ciascuno di essi assunse la parte di padre e, insieme, di madre e l’uno da solo generò Atena, l’altra da sola Efesto, aventi, rispettivamente, sesso opposto a quello di chi l’aveva generato.

Avendo tutti i presenti riconosciuto che il giudizio degli immortali è il più sicuro, Pitagora svolse ai giovani crotoniati la seguente lezione: «Per il fatto che Eracle è propizio a voi crotoniati, dovete obbedire volentieri ai precetti dei genitori. Sapete infatti che Eracle, pur essendo un dio, obbedì a un altro più anziano di lui, sostenne le fatiche e infine, a perenne ricordo di esse, istituì per suo padre Zeus i giochi olimpici». E proseguì: «Se agirete allo stesso modo nei vostri rapporti reciproci, non sarete mai nemici agli amici e da nemici diventerete subito amici. Nel rispetto verso i più anziani darete prova della vostra affezione verso i padri e, nella bontà verso gli altri, del vostro sentimento di fraternità».

Successivamente parlò coi giovani della temperanza in questi termini: «L’età giovanile mette alla prova la vostra natura in un’epoca in cui le passioni sono le più impetuose. Riflettete dunque che, tra le virtù, solo la temperanza merita di essere ricercata da ragazzi e ragazze, da donne e uomini anziani, ma soprattutto dai giovani. Questa sola virtù — egli dimostrava — comprende in sé i beni del corpo e dell’anima, in quanto conserva la salute fisica e l’aspirazione ai più nobili studi.”

Pitagora proseguendo nel suo discorso esortò inoltre i giovani all’edu­cazione dello spirito e li invitava a riflettere con que­ste considerazioni: «Quale assurdità, mentre si con­sidera il pensiero la cosa più importante e col suo aiuto si giustifica tutto e si giudica su ogni cosa, non volere spendere né tempo né fatica per esercitarlo a controllarlo. L’educazione fisica assomiglia ai cattivi amici, giacché essa ben presto ci abbandona, mentre l’educazione dello spirito, come gli uomini onesti, rimane fedele sino alla morte e ad alcuni, anche dopo la morte, apporta gloria immor­tale». E altri esempi del genere adduceva ancora, traendoli parte dalla storia, parte dalla filosofia, ar­gomentando: «L’educazione è una pregevole qualità dello spirito, comune, in ogni generazione, ai migliori. Infatti ciò che questi scoprono, diventa poi, per gli altri, materia e strumento di educazione. Questo è il pregio intrinseco dell’educazione che, mentre delle altre doti maggiormente lodate, alcune sono intra­smissibili — come la forza, la bellezza, la salute, il coraggio —; altre, una volta cedute, non si posseg­gono più — come la ricchezza, le cariche pubbliche e simili —, l’educazione invece è possibile riceverla da altri, senza che questi, dandola, ne restino privi. Similmente, mentre l’acquisto di alcuni beni non è «in potere dell’uomo, l’educazione dipende dalla con­sapevole determinazione di ciascun individuo. E chi poi entra nella vita pubblica della propria patria, mo­stra di farlo non per arrivismo, ma sulla base della sua educazione e formazione spirituale: giacché, come sembra, per questa si distinguono gli uomini dalle bestie, gli uomini liberi dagli schiavi, gli amanti della sapienza dagli uomini qualunque”.

Queste furono le cose dette da Pitagora nel suo primo incontro con i giovani a Crotone la quale città come sappiamo divenne la sua patria adottiva e nella quale fondò subito dopo la Schola Italica che infinita luce di saggezza e di spiritualità diede all’Italia e al mondo intero.

 

L’ORIGINE DELLA MALATTIA

 


“L’origine morbosa è microbica. Tutti i contagi, tutte le infezioni sono microbiche. Nella Natura, secondo l’attuale quarto d’ora della scienza, vi è costantemente preparato un attentato alla vita di un essere vivente. Tanti morbi, tante specie di bacilli, i veri imbecilli malefici tra i funghi invisibili del principio del male, imbecilli irresponsabili e gerenti responsabili di tutti gl’insuccessi della terapia. Ed avete persuaso il mondo che milioni di pericoli invisibili, ignoti, insospettati, stanno ad ogni minuto per trascinarci nella tomba, di cui tutti hanno paura. Microbi nell’acqua, nell’aria, nella terra; solo il fuoco è puro, ed anche il calore alcuni distrugge ed altri alimenta. Ed avete studiato e avete (o scoperta rara)! capito che il corpo umano, creato da un dio ignoto o dalla necessità di vivere, ha in se tutte le difese naturali per rendere innocui questi nemici spaventevoli. Il microbo del carbonchio diventa innocente in una goccia di muco. Ogni rivestimento epiteliale dalla bocca alle narici, alla laringe, ai polmoni, agl’intestini, neutralizza i veleni degl’invasori. Il bacillo del tifo di Eberth in un intestino sano fa cilecca. Basta leggere i volgarizzamenti degli scienziati fatti pel grosso pubblico, per assistere ad epopee pittoresche e a battaglie tra cellule e microbi, tra leucociti e bacilli, tra acidi e batteri e secrezioni. Metchnikoff ha scoperto la fagocitosi che è la voracità di microbi a microbi in guerra: il vitalismo rudimentale nei mono-cellulari, che urta anche i fisio-chimici antivitalisti....

Di qui la isopatia (def. similia similibus) coi sieri o sieroterapia per vincere i nemici, quando l’organismo umano, già indebolito, non riesce ad espellere o neutralizzare gl’invasori... e finite col riconoscere che un corpo sano, nel completo funzionamento del suo apparato naturale di difesa, non può essere attaccato dai microbi e vinto; dunque bisogna concludere che dove il microbo si manifesta vittorioso, ha trovato già l’organismo predisposto, cioè attacca, vince, genera, l’infezione quando l’organismo è già malato; quindi il principio di ogni morbo è nell’organismo, indipendentemente dal microbo che lo attacca.”

Commentare uno scritto del Kremmerz, anche breve come questo, sembra un’impresa facile, ma solo in apparenza. In realtà il Maestro di Portici ha il vezzo di scrivere centinaia di pagine senza apparentemente penetrare nel cuore del problema che sta trattando, per poi lanciare le sue frecce migliori quando chiama e richiama il lettore a concentrarsi su alcuni speciali argomenti, speciali come la medicina. Come, per esempio, il brano su riportato che occupa appena una paginetta della sua poderosa Opera Omnia, ma il cui significativo messaggio, nei tempi in cui viviamo, è di una enorme importanza umana, sociale e soprattutto terapeutica.

Non c’è scrittore, giornalista, medico, scienziato, uomo della strada, o semplice casalinga che non si sia sentito in obbligo di emettere un giudizio sulla pandemia che ha recentemente colpito e continua a colpire l’umanità nel mondo intero. La maggioranza delle persone parla e giudica per sentito dire, perché non è in condizione di interloquire, soggiogata com’è dalla propaganda dei media audio-visivi e cartacei, nonchè dai falsi scienziati che, nel caso specifico, si sono alternati sui giornali e nelle televisioni per suggerire e il più delle volve imporre le soluzioni più strampalate; la parte della popolazione che non accetta limitazioni della libertà personale,  inferocita replica negando a tutti loro una pur minima buona fede e quindi la capacità di restituire la salute ai milioni di disgraziati che muoiono per causa di un morbo che uccide.

Scrive Giustiniano Lebano, maestro di Giuliano Kremmerz, con parole colte ed ispirate, nel volumetto “De Morbo Oscuro” che Lebano aveva redatto per descrivere le cause patologiche e remote del colera, detto morbo oscuro, che fin dall’antichità ha sempre castigato la città di Napoli:

“DUE dottrine in medicina esistevano presso gli antichi. Una Epidaurica, e l’altra Empirica. La prima veniva sotto la cura delle Pizie insegnata ai soli Eletti, la seconda lo era dai Sacerdoti minori ai soli Mortali Plebei; che l’immortale Vico distingue in parlari de’ Mortali, e parlari de’Numi — ossia sacri ed arcani. I libri d’Ippocrate sono scritti in parlari Jeratici, ossia Teologici, quindi indisciferabili (indecifrabili) dagli attuali medici che appena sanno distinguere l’Alpha dall’Omega. E l’istesso Ippocrate rassomiglia i Medici profani a quegli Istrioni, che rappresentano gli Eroi, mentre sono Istrioni, e conchiude: “Quemad-modum enim illi quidem formant habitum, et /per sonarn histrionis referentur; ncque tamen hispriones sunt, sic et Medici nomine quidem multi re ipsa perpauci”.

Poiché in tutto questa classe imita la forma, e gli abiti de’ personaggi che rappresenta: ed intanto sono Istrioni.

A questo modo sono questi Ipocrati tali Iatrei, che vengono dalla scolastica vertiginosa addottrinati, che hanno la loro mansione nella moltitudine, ossia Plebe. E’ questa l’arte de’ Pangubai, ossia Ciurmadori e Cantabanchi, che esercitano il loro mestiere sulle Panche delle Baie.

Le opere di Areteo sono uguali a quelle d’Ippocrate ma i volgari plebei hanno voluto interpretarle coi loro lumi volgari e ne hanno fatto un massacro in mancanza di senso comune.

Sventurata umanità regolata da un volgo che si crede dotto; mentre che delle dottrine dell’antichità esso null’altro conosce che l’Empirismo. L’Empirica, ossia l’arte che si apprende per pratica, era la scienza medica cantabantica dei ciurmadori, e non aveva base di dottrina, ma di pratica, sola e di esperienza. Per contrario la Jatrea Asclepia, ossia l’arte di restituire la salute, era da dottrina per scienza di principii, in cui si alunnavano gli adepti Piziagorici. In conseguenza l’Empirica era la spregevole, la cantabantica. L’ Aschlepia che veniva insegnata dalle Pizie, era la divina che conosceva i Morbi, e ne guariva gl’infermi (4). Spente che furono le Pizie per opera di Costantino che alunnavano gli Adepti, e spente tutte le dottrine dei nostri Avi, ed oppressi da un piede di ferro di Evo Volgare (leggi: cristiano), non rimasero altro che fi Empiriche conoscenze, per cui la medicina non più ha potuto ritornare al suo antico lustro divino EPIDAURICO e si striscia nella melma dell’Empirismo volgare ciurmatorio””

Qualcuno potrebbe obiettare: non sono più i tempi dei patrizi e dei plebei dei quali parla il Lebano, ma Lebano non sta facendo un discorso di classi sociali ma di esseri umani di elevata o di bassa capacità ideale e soprattutto di una aristocrazia dello spirito, la quale con la forza del Bene e della Salute spirituale è in condizione di impedire il diffondersi di qualunque malattia e lo fa principalmente senza il bisogno di ricorrere ai sieri sperimentali i quali si rivelano ancor più nocivi della malattia. Questa forza, questa urgenza interiore dello spirito umano di difendere la salute e di combattere la malattia era ed è il fine della Fratellanza Terapeutico-Magica fondata dal Kremmerz il quale ha testimoniato durante la sua vita che la cura a distanza basata sulla potenza della solidarietà e sulla iatromanzia basate a loro volta sulla forza salutare dell’amore di una catena di anime è possibile, è realizzabile, è stata sperimentata, può raggiungere lo scopo e lo raggiunge.

Ecco cos’è mancato alla società moderna, soggiogata dall’ignoranza e dalla viltà, è mancato l’amore, la più potente medicina, è mancata la solidarietà e la fiducia nel mondo divino e dove mancano questi valori, questi principi prevalgono l’egoismo e il profitto, egoismo e profitto che hanno dominato i trafficanti di sieri sperimentali, desiderosi solo di veder crescere i loro guadagni e i le loro quotazioni in borsa.

Roberto Sestito

 

Il citato brano di Giuliano Kremmerz è tratto dal Volume secondo della Scienza dei Magi.

 

LA CATARSI FILOSOFICA

Senza un’attenta e accurata catarsi filosofica il discepolo non può e non deve pensare di avvicinarsi all’estasi filosofica, essendo questa una pratica la cui esecuzione richiede il totale scioglimento dell’anima dai lacci corporali. Leggiamo ciò che scrive Porfirio nella Sentenza n. 32:

Da parte nostra dunque si deve far attenzione soprattutto alle virtù catartiche, considerando che è possibile raggiungerle in questa vita e che è questa la via alle virtù superiori. Perciò si deve considerare fino a dove e quanto si può estendere la catarsi: essa è infatti un allontanamento dal corpo e dal movimento passionale dell'irrazionale. Bisogna quindi dire come e fino a dove ciò si realizza. Per prima cosa, base e fondamento della catarsi è sapere di essere un’anima legata a qualcosa di estraneo e di altra natura. Secondariamente, partendo da questo convincimento, bisogna raccogliersi in sé (allontanandosi) dal corpo e dai luoghi, disponendosi in uno stato del tutto impassibile nei suoi confronti. Infatti chi agisce spesso secondo la sensazione, pur facendolo senza forte inclinazione e senza il godimento del piacere, è tuttavia distratto dal corpo, essendo ad esso legato dalla sensazione, poiché prova piaceri o dolori a secondo dei sensibili con immediatezza e partecipazione emozionale; soprattutto da questa disposizione è opportuno purificarlo. Questo si può fare se si ammettono solo i piaceri necessari e le sensazioni a titolo di medicine o di alleviamento delle pene, in modo che non siano di intralcio. Bisogna eliminare i dolori: e se non è possibile, è necessario sopportarli, magari alleviandoli, senza rimanerne coinvolti. E necessario eliminare per quanto è possibile, magari del tutto, l’animo irascibile. In caso contrario, non si confonderà certo la libera scelta, ma l’impulso istintivo sarà di altra natura e, questo stesso impulso, debole e breve; la paura invece deve essere assolutamente soppressa; non si dovrà infatti aver paura di nulla - anche qui ci potrà essere un impulso iniziale -, si potrà tuttavia usare insieme l’ira e la paura come ammonimenti. Si dovrà estirpare alla radice la concupiscenza di ciò che è impuro. Per quel che riguarda il mangiare e il bere, ci si atterrà a ciò che è necessario, per quel che riguarda i piaceri d’amore, a ciò che è naturale, senza impulsi istintivi: al limite, nel sonno, ci sarà una fantasia passeggera. In pratica, l’anima razionale dell’uomo purificato dovrà essere pura in sé da ogni passione. Dovrà volere che quella parte che è agitata dalle passioni del corpo, si muova senza partecipazione e coinvolgimento emotivi, in modo tale che l’eccitazione si attenui subito in prossimità dell’elemento razionale. Se la catarsi si compie, non ci sarà più allora lotta interiore, ma basterà la presenza della ragione a cui sarà sottomessa la parte inferiore: di conseguenza, la stessa parte inferiore non sopporterà di essere del tutto agitata, e deplorerà la sua stessa debolezza, poiché non è rimasta impassibile alla presenza del suo padrone. Comunque si tratta ancora solo di passioni moderate che tendono all’impassibilità; solo quando sarà completamente purificato dalle passioni, subentrerà l’impassibilità; la passione infatti prende corpo quando la ragione glielo rende facile a causa della forte inclinazione.

 

Ebbene, in che modo ed eseguendo quali riti il novizio della Scuola Ermetica può aspirare ad una catarsi completa, ossia a quella purificazione dell’anima che gli permetta un graduale approccio al mondo divino? Per meglio dire a quella purificazione che consiste nell’isolare l’anima affinché non si unisca ad altro e non guardi ad altro e non abbia più idee che si riferiscano ad altre realtà, qualunque sia la forma delle idee o delle passioni, né si volga ad immagini interiori, né con esse si procuri delle passioni?

Il rito di purificazione che il Novizio riceve al momento della sua iscrizione nella Scuola è il Rito Lunare. Tuttavia nella suddivisione quaternaria dell’uomo noi apprendiamo, prima di ogni altra cosa, dell’esistenza del Corpo Saturniano che è la parte corporea e sensitiva del nostro essere uomo. Ci domandiamo: il nostro corpo saturniano viene o no sottoposto a un trattamento rituale di purificazione? La risposta ce la dà Porfirio.

Egli dice: “Perciò si deve considerare fino a dove e quanto si può estendere la catarsi: essa è infatti un allontanamento dal corpo e dal movimento passionale dell'irrazionale.” Con questa parole si parte da un punto fermo: la catarsi porta a una separazione dal corpo.

Vedremo fra poco da chi, come e in che misura il corpo deve propiziare questa separazione affinchè la catarsi si compia. Ma perché parliamo di separazione? La risposta a questa domanda è nelle prime parole di Porfirio: è questa la via alle virtù superiori.

Ma per poter andare avanti desideriamo sapere quali sono queste “virtù superiori” e per quale motivo dobbiamo sottoporci a un’impresa così complessa per raggiungerle. Porfirio risponde così: perché la nostra “anima è legata a qualcosa di estraneo e di altra natura”.

Una volta stabilito il punto di partenza scopriamo subito dopo che il “qualcosa di estraneo” è il nostro corpo ed è questo il motivo per cui i Filosofi e i Maestri non si sono preoccupati di trattarlo ritualmente. Hanno previsto per il corpo una serie di prescrizioni che rientrano in quelle tante norme comportamentali, igieniche e sanitarie di cui si occuparono sin dall’antichità sia i sacerdoti egiziani sia i filosofi pitagorici riassunte nei precetti del “tenore di vita pitagorico”. Con questo non voglio dire che il corpo saturniano è stato sottovalutato, al contrario, solo con una conoscenza scrupolosa delle sue molteplici funzioni riusciremo a separarci da lui.

Restando sul livello corporale Porfirio non lo sottovaluta affatto.

Una volta persuasi dell’estraneità del corpo fisico, il prossimo passo è l’esercizio della “concentrazione e del silenzio” “disponendosi in uno stato del tutto impassibile nei suoi confronti”.

Sulla “concentrazione e il silenzio” siamo abbastanza informati perché un esercizio di questo tipo ci è stato trasmesso da Luce, discepolo pitagorico di Reghini.

Mentre sull’ “impassibilità” non sappiamo nulla, come uomini del nostro tempo agitato abbiamo la necessità di sapere tutto per assimilare bene la “disposizione” richiesta da Porfirio.

Per farlo chiederemo l’aiuto di Plotino il quale nella III Enneade ha dedicato all’ “Impassibilità degli esseri incorporei” un lungo capitolo. Se non assorbiamo bene la lezione ivi contenuta non saremo in condizione di fare nessun passo in avanti. Cercherò quindi di riassumere e puntualizzare l’insegnamento di Plotino.

Plotino, per dimostrare la “impassibilità degli esseri incorporei”, parte da lontano dimostrando per prima cosa l’impassibilità della materia, il fatto che pur essendo giudicata “ricettacolo e nutrimento del divenire universale”, resta impassibile e inalterata. Non dimentichiamo che per Plotino “la materia è l’estrema propaggine dell’Anima” (per cui, propriamente, non è l’anima ad essere ‘dentro’ il corpo ma è questo ad essere dentro l’anima, la quale lo ’avvolge’ come una invisibile ‘aura’, ragion per cui, secondo la legge platonica dell’analogia, dell’imitazione e della simpatia l’anima raggiunge ugualmente l’impassibilità).

Fatto ciò il prossimo ostacolo è rappresentato dal mondo sensibile verso il quale, per Porfirio, l’atteggiamento dell’anima è altrettanto netto e sicuro. Dice: “...sicuramente per l’anima è possibile sciogliersi dal sensibile con la presenza della forza della conoscenza, rivolta verso l’essere stesso e che lì è sempre sveglia. Infatti poco dopo nello stesso luogo questo legame intellettuale e fantastico e recettivo dell’anima (col sensibile) viene sciolto” (Porfirio).

La “conoscenza” si presenta al discepolo di Hermes con uno spettro molto ampio di possibilità e di opportunità, per un motivo molto semplice: è la porta sul cui frontone troviamo scritta la fatidica frase “conosci te stesso!”. E’ necessario attraversarla per adempiere fino in fondo all’ imperativo divino. Ecco la conoscenza che a noi tutti interessa: se ignoriamo chi siamo non imboccheremo mai la strada di una perfetta impassibilità e quindi di una sicura separazione dai legami corporei.

Nello scritto di un discepolo del Kremmerz si legge: “L’obiettivo del primo separando è la perfetta conoscenza di noi stessi, la conoscenza più profonda del significato del nostro corpo saturniano…”

Il destino ultimo dell’uomo, chiarisce come l’uomo sia in grado di conoscere sé stesso e riguadagnare la propria origine. In primo luogo l’anima, al momento della morte fisica, si libera del corpo che viene lasciato in balia dell’alterazione, la forma si dissolve, l’indole è abbandonata al demone, i sensi fisici ritornano alle loro origini e si ricompongono nelle forze cosmiche, l’animo irascibile e quello concupiscibile si riversano nella natura irrazionale. L’anima dell’uomo può ora cominciare la sua risalita attraverso le sette sfere celesti, liberandosi in ciascuna degli influssi di cui si era caricata durante la caduta.

L’astralità che viene assegnata al novizio al momento dell’entrata nella Fratellanza, segna l’inizio di questo percorso.

Così alleggerita l’anima entra nel cielo delle stelle fisse, dove si unisce alle altre anime beate; entra poi nel coro delle potenze che stanno al di sopra della otto divinità primordiali e a quelle si assimila, per raggiungere da ultimo l’ottimo fine a cui aspira chi ha ottenuto la conoscenza: diventare simile a dio.

Caduti nella genesi, noi crediamo che la realtà del nostro essere sia il corpo che vediamo e, come afferma Platone siamo circondati dall’ignoranza, non riconosciamo più la nostra dignità interiore, trascinati dall’orgoglio, costruiamo castelli di sabbia e poi con orgogliamo li demoliamo. «Conosci te stesso» è dunque un’esortazione a spogliarsi del sensibile, a riconoscere in noi l’anima e l’intelletto, l’uomo perfetto di cui ciascuno di noi è l’immagine. Il dio esorta a non con fondere l’immortale con il corruttibile.

In Porfirio la nozione del « conosci te stesso » è svolta alla luce delle sentenze «pitagoriche»: adattandola al suo contesto, cita dapprima l’esempio in cui il corpo che ci sta attaccato è paragonato alla membrana che avvolge l’embrione nel seno materno e allo stelo in cui è contenuta la spiga di grano; ambedue, membrana e stelo, quando il feto e il grano giungono a maturazione, sono gettati via: così anche il corpo, in cui è inseminata l’anima, non è la vera parte dell’uomo, ed è necessario liberarsi dall’inclinazione passionale verso di esso.

La liberazione si ottiene mediante la conoscenza di se stessi, il riconoscere cioè il valore temporale del corpo, che ci lega al basso e al mortale, e vedere in esso un ostacolo alla conoscenza dell’incorruttibile e del divino che è in noi. Porfirio cita inoltre altre due sentenze «pitagoriche»: per raggiungere la salvezza dell’anima dobbiamo impegnarci a sostenere quelle stesse fatiche che altri affrontano per soddisfare i piaceri del corpo, esercitandosi così nella corsa verso il fine ultimo dell’unione con Dio.

L’uomo che conosce sé stesso è in grado di salire a dio, e per questo motivo la sua diventa una scelta di vita, che lascia due sole alternative: o la condizione umana viene superata in vista dell’unione con la divinità, oppure l’uomo si abbrutisce totalmente nella materia e si perde quindi nella morte dell’anima e dell’intelletto.

L’intelletto, sede della conoscenza, si rivela così lo strumento che permette all’uomo di liberarsi dalla sua condizione mortale: come abbiamo visto, quest’uomo possiede gli strumenti per superare il presente e costruirsi il futuro, un futuro che coincide con il suo ingresso in dio, ovvero con il suo diventare simile a dio.

Per mezzo di una costante disciplina magica e rituale si potrà aspirare alla teurgia sacra la quale gli permetterà di liberarsi del corpo, abbandonandolo al mutamento. Illuminato da dio, guadagnata la luce della conoscenza che è conoscenza di sé, si avvia lungo i sentieri siderei ripercorrendo a ritroso il cammino compiuto dall’anima durante la sua rovinosa caduta.

Questa è la rinascita svelata da Hermes, e che l’adepto deve impegnarsi a non rivelare a nessuno. Per mezzo suo si supera il corpo fisico per entrare in un corpo «composto di potenze», che è indissolubile e immortale, si diviene consapevoli di «essere figli dell’Uno» e alla fine si diviene simili dio.

A parte ciò il corpo oppone numerose altre difficoltà alla purificazione e alla risalita dell’anima: le passioni (tra le quali, la pigrizia mentale), l’irascibilità, la concupiscenza affezioni che molto spesso dominano non solo la natura corporea, sfidano la nostra intelligenza e aggrediscono la parte razionale dell’anima.

Svegliarsi con il corpo equivale a trascorrere da un sonno all’altro, passare in un altro letto; il vero risveglio è quello che porta lontano dal corpo. Anzi, «il vero risveglio consiste nell’alzarsi senza corpo» (Plotino, III 6, 6). L’anima ama dio e con lui vuole unirsi, perché la vita sulla terra, esito di una caduta, di un esilio, di una perdita delle ali, è dominata dall’amore volgare. Invece il vero oggetto d’amore sta altrove e con lui l’uomo ha la possibilità di unirsi, se si libera della carne. Sciolto dai legami che lo uniscono agli altri esseri e alla materia, l’uomo può allora recuperare quella parte perduta in seguito alla separazione dall’Uno, e alla fine la contemplazione sarà costante e continua, quando non ci sarà più l’ostacolo del corpo. Allora e solo allora, «se l’anima conosce sé stessa...se sa che il centro è l’origine del cerchio, volteggerà attorno al centro da cui è uscita...si raccoglierà in quel punto...portandosi verso di esso» ed è allora, che le anime «sono dei».

Per mezzo della teurgia sacra egli riesce a liberarsi del corpo, abbandonandolo al mutamento. Illuminato da dio guadagnata la luce della conoscenza che è conoscenza di sé, dell’essere l’uomo esso stesso dio, anche se dio mortale, l’uomo esce dal corpo a tre dimensioni, dissolubile e mortale, e si avvia lungo i sentieri siderei ripercorrendo a ritroso il cammino compiuto dall’anima durante la sua rovinosa caduta.

Questa è la rinascita svelata da Ermete, e che l’adepto deve impegnarsi a non rivelare a nessuno. Per mezzo suo si supera il corpo fisico per entrare in un corpo «composto di potenze», che è indissolubile e immortale, si diviene consapevoli di «essere dio e figli dell’Uno» e alla fine si diviene simili al dio.

Salilus

 

 

 

Arturo Reghini

 

TRASCENDENZA DI SPAZIO E TEMPO

 

 

Da oltre un anno vengono comparendo in questa rivista degli articoli assai interessanti sopra dire questioni di grande importanza, le quali per un deplorevole andazzo vengono di solito designate con due denominazioni piuttosto infelici: la questione della “quarta dimensione” e quella dell’“eterno presente”. Si tratta, come è noto, di due ipotesi da lungo tempo addotte per spiegare rispettivamente i fenomeni di “apporto” ed i fenomeni “premonitori”.

Con questo intendimento si è attenuto ad esse anche ring. Francesco Amato nei suoi articoli usciti nei numeri di Maggio- Giugno 1925 e Settembre-Ottobre 1925 di “Mondo Occulto”, mentre il Dr. Ernesto Bozzano, nei suoi articoli usciti in questa stessa rivista nei numeri di Novembre-Dicembre 1924, Luglio- Agosto 1925 e Novembre-Dicembre 1925, le ha combattute, propugnando invece l’ipotesi della smaterializzazione e consecutiva rimaterializzazione per spiegare i fenomeni di apporto e ricorrendo a varie ipotesi tra cui quella della “onniscienza delle cause” da parte dei sensitivi, per spiegare le varie specie di fenomeni di premonizione.

Dobbiamo subito fare un’osservazione preliminare, ed è questa: se anche le ipotesi patrocinate dal Bozzano entrassero effettivamente in giuoco nei fenomeni in questione, non ne seguirebbe la esclusione delle ipotesi della quarta dimensione e dell’eterno presente, potendovi in alcuni casi intervenire le une ed in altri le altre, ed anche, se tali ipotesi dovessero essere assolutamente scartate per la spiegazione dei suddetti fenomeni, non ne seguirebbe che non potessero servire in altri casi per altri problemi e che dovessero essere escluse dal novero delle possibilità. In altre parole, dall’essere ritenute inutili, inadeguate ed inopportune per spiegare alcuni particolari fenomeni non ne segue che tali-ipotesi siano senz’altro assurde e da scartare assolutamente.

Il Bozzano avrebbe potuto dichiarare che non sentiva la necessità di ricorrere ad altre ipotesi oltre quelle da lui caldeggiate, e la questione si sarebbe ridotta ad esaminare se tali ipotesi sono appropriate, sufficienti ed attendibili. Ma il Bozzano, che già nel suo libro (Dei Fenomeni premonitorii, Milano 1914) si era adoperato per liquidare l’ipotesi dell’eterno presente, si è addirittura proposto con gli articoli sopracitati di “liberare il campo della metapsichica da due ipotesi contrarie alla ragione ed alla logica, in quanto sono impensabili” (Mondo Occulto, Anno IV, n. 6, pag. 241). E poco più oltre (ibidem pag. 250), egli non si perita dall’affermare che le ipotesi dell’ “eterno presente” e della “quarta dimensione”, devono considerarsi scientificamente assurde ed insostenibili “risultando impensabili, perché in flagrante contraddizione coi dettami della ragione, cogli attributi fondamentali dell’essere, coi principi della natura e con le leggi dell’universo”.

Santi numi! Dobbiamo confessare che nel leggere queste righe non abbiamo potuto fare a meno di sentire un tantinello di invidia e di avvilimento. Ma, superando questo senso di ab-battimento e pur non pensando menomamente nella nostra pochezza ad accampare anche noi la pretesa di conoscere gli attributi fondamentali dell’essere, i principii della natura e le leggi dell’universo, vogliamo provarci a mettere un poco di ordine nell’impostazione di queste due benedette questioni ed un poco di precisione nella terminologia impropriamente usata per designarle.

Anzitutto, è necessario esaminare se sia legittimo e conveniente l’abbinamento delle due questioni, fatto ed accettato concordemente tanto dall’Amato quanto dal Bozzano, senza addurre all’uopo, né l’uno né l’altro, alcuna ragione o giustificazione. L’Amato, infatti, afferma che il ritenere assurda l’ipotesi di una quarta dimensione mena ad affermare assurda l’idea del fuori tempo; e quindi ad escludere 1’ “eterno presente” (Mondo Occ. An. V, N. 3, pag. 117); il Bozzano chiama l’ipotesi della quarta dimensione sorella di quella dell’ “eterno presente” (Mondo Occ. An. V, N. 4, pag. 157), e dice che escludendo l’ipotesi che i sensitivi scorgano gli eventi per induzione puramente mentale, ed ammettendo invece quella dell’eterno presente, i sensitivi scorgerebbero gli eventi futuri per visione diretta vera e propria attraverso alla quarta dimensione dello spazio (Mondo Occ. An. IV, N. 6, pag. 248). Ora, se il lettore avrà la necessaria pazienza potrà persuadersi che non vi è nessuna ragione per connettere le due questioni, che si delineano limpidamente e mutuamente indipendenti. Pel momento constatiamo che l’abbinamento è stato arbitrariamente effettuato.

Il Bozzano, i cui articoli hanno un andamento, per uno scienziato, non poco dommatico, afferma che l’intelligenza umana è costretta logicamente ad ammettere l’idea di uno spazio infinito (Mon. Oc. An. IV, N. 8, pag. 241), e così pure di un tempo infinito sia nel passato che nel futuro {ibidem, pag. 242 e 247). Per lui è verità assiomatica che Tempo e Spazio formano parte integrante della Realtà Assoluta (ibidem, pag. 246); e poiché, dice sempre il Bozzano, Tempo e Spazio risultano le condizioni necessarie dell’essere, e negarli equivale ad ammettere l’esistenza del Nulla assoluto, e questo non si può fare perché è impensabile, così “la realtà dell’esistenza dello Spazio e del Tempo diviene certezza assoluta” (ibidem, pag. 2.46); e perciò “Tempo e Spazio non si possono sopprimere, e se un Al di là esiste, noi dovremo concepire l’altra vita come uno stato in cui cesserà di esistere non già il Tempo, ma la (sottolineatura nostra) nozione del Tempo, non già lo Spazio bensì il (idem come sopra) senso dello Spazio”; dove l’uso dell’articolo determinativo prova implicitamente che il Bozzano non ha, e ritiene per certo che nessuno può avere e che non vi è, altra nozione del tempo e dello spazio che l’unica a lui nota, la consueta nozione umana.

Notiamo eri passant l’uso o meglio l’abuso delle iniziali maiuscole per lo Spazio e per il Tempo, fatto per ingenerare nel lettore un imprecisato e mistico senso di reverenza. Se noi scrivessimo papa e Re intenderemmo evidentemente manifestare la nostra reverenza per il Re e non per il papa; e l’uso della maiuscola avrebbe uno scopo e significherebbe qualche cosa; ma sa dirci il Bozzano quale sia la differenza tra tempo e Tempo, tra spazio e Spazio? Il Pareto, in qualche passo della sua opera fondamentale, si è già preso beffa di questi sistemi; il Bozzano invece vi si indugia ancora con compiacenza. Ma, a parte queste inezie, quello che veramente fa impressione è l’intransigente attitudine assunta dal Bozzano, da cui traspare un’insanabile mentalità materialista. Egli arriva al punto di sentire il bisogno di subordinare allo spazio ed al tempo perfino Iddio; Dio, per il Bozzano, non può esistere che dentro l’universo. Ecco le sue precise parole: “Neanche Iddio potrebbe esistere all’infuori dello Spazio e del Tempo, visto che un essere, in quanto è un essere non può esistere... nell’inesistente” (Mon. Oc. An. V., N. 4, pag. 158-159). Questa attitudine è diametralmente opposta all’attitudine di Plotino che ha detto: “Non è l’anima che è nel corpo, ma il corpo nell’anima; non è Dio che è nell’universo, ma l’universo in Dio”; parole in cui si sente la sicurezza di chi parla per esperienza, ed in cui naturalmente il concetto di interiorità, di essere contenuto, compreso, non va inteso in senso spaziale; perché ha senso il parlare di un oggetto che capisce entro un altro oggetto o di un soggetto che ne comprende un altro; ma non si può stabilire un tale concetto di inclusione tra cose così eterogenee. Ma l’autorità del grande neoplatonico, per il Bozzano, sembra non esista neppure.

Il Bozzano non si cura delle vecchie distinzioni scolastiche tra tempo, durata ed aevum; non riflette che simili distinzioni avevano valore anche per Dante (che, passando dall’umano al divino nella sua ascensione, passa simultaneamente dal tempo all’eterno); non si muove nel vedere simile distinzione tra tempo e durata fatta anche da Cartesio e da Newton, non si scuote nel vedere Kant definire il tempo e lo spazio delle forme a priori der inneren Anschauung, delle mere condizioni subbiettive della nostra maniera di considerare le cose, e Schopenhauer considerare il tempo, lo spazio e la legge di causalità come le condizioni della nostra esistenza; tutto questo non esiste per il Bozzano, egli ignora ogni distinzione tra spazio e tempo empirici, immanenti e trascendenti. Per lui non esistono che lo spazio ed il tempo dell’empirismo; ossia lo spazio infinito tridimensionale ed il tempo infinito unidimensionale.

Ora, che la ragione umana sia logicamente costretta ad ammettere l’esistenza reale assoluta e necessaria di tale spazio e tale tempo non è affatto vero. Il Bozzano se ne può persuadere leggendo i primi due capitoli della pregevolissima opera: “Fisica di oggi, filosofia di domani (Milano 1910)” dell’illustre fisico Antonio Garbasso, dell’Università di Firenze. Il Garbasso osserva come occorra tenere distinti i tre problemi: a) che cosa sia il tempo, b) onde nasca la nozione del tempo, c) e dove se ne rinvenga la misura (ed analogamente per lo spazio); i quali problemi e concetti appaiono invece tra loro frammisti e confusi in tutti gli articoli di cui ci stiamo occupando. Sulla retina dell’occhio umano si disegna l’immagine a due dimensioni dell’oggetto della visione; ed il Garbasso osserva che la sensazione del rilievo e della distanza dell’oggetto è ottenuta mediante l’adatta-mento del cristallino e lo sforzo di convergenza dei due raggi visivi. Il Garbasso mostra come con l’adattamento del cristallino e lo sforzo di convergenza si introduca un solo parametro, il quale unito alle due coordinate della visione superficiale dà tre dimensioni; ed egli ha riprodotto tali condizioni coi mezzi di laboratorio mostrando come per fotografare un rettangolo situato sopra uno schermo sia necessario uno spostamento per mettere in fuoco secondo la distanza, e che in tale maniera si introduca ancora un solo parametro, e che perciò lo spazio abbia tre dimensioni. Tutto questo però va bene solamente in un mezzo isotropo ed omogeneo; e, con ingegnose esperienze di ottica che pel carattere di questa rivista e per risparmiare spazio non stiamo a riportare, il Garbasso è riuscito a dimostrare sperimentalmente che in un mezzo isotropo ma non omogeneo lo spazio ha più di tre dimensioni. Proprio così!

Né vale il dire che tutte queste considerazioni di ottica sono infirmate dal senso del tatto che ci assicura che le dimensioni dello spazio sono tre e non più, perché è noto come la coordinazione dello spazio tattile a quello visivo avvenga per educazione del senso tattile che si subordina a quello visivo. Questo per lo spazio. Quanto al tempo il Garbasso osserva che l’unica sua caratteristica sia la sua irreversibilità x (di modo che vale per esso il secondo principio della termodinamica), caratteristica di cui non godono le direzioni dello spazio. La questione del valore assoluto del tempo e quella della sua misurabilità restano quindi impregiudicate. «È lecito dunque, conclude il Garbasso (o.c., pag. 36), riferire all’ottica la nozione dello spazio e concludere che questa idea, come quella del tempo, non ci è data a priori, secondo la nomenclatura di Immanuel Kant, ma nasce anzi dalla consuetudine dei fenomeni esterni». Per conseguenza basta sottrarsi (si possibile est) alla consuetudine dei fenomeni esterni per non essere più gli schiavi di questa nozione dello spazio e del tempo. E resta dunque sperimentalmente scartata l’esclusività dell’esistenza e realtà assoluta dello Spazio e del Tempo come sono concepiti dal Bozzano.

Se quanto precede non fosse sufficiente per mostrare come occorra rinunziare all’illusione di un tempo assoluto, il Bozzano ed il lettore potranno rendersi meglio conto di questa necessità leggendo il capitolo sulla “relatività della simultaneità” dell’opera di Einstein (A. Einstein: La Théorie de la Relatività restreinìe et géneralisée, Paris 1921, Cap. IX, pag. 21-23); dove Einstein dimostra che due avvenimenti simultanei rispetto ad un treno in moto non lo sono rispetto alla strada ferrata, e viceversa; e mostra come, per togliere l’incompatibilità apparente tra la legge di propagazione della luce ed il principio della relatività, occorra abbandonare la nozione del tempo assoluto, vale a dire indipendente dallo stato di movimento del sistema di riferimento, nozione che la Fisica aveva sempre ammesso tacitamente. Non ci addentriamo in questo argomento per le ragioni sopra dette.

Senza andare nel difficile, del resto, basta un’analisi elementare della nostra nozione del tempo per constatare che esso si presenta come un continuum, vale a dire che l’idea di istante ed intervallo tra istanti immediatamente consecutivi è un’astrazione non corrispondente alla realtà, ma solo ad un concetto di limite. In altre parole, non esistono «momenti»; ogni momento, e tra questi il momento presente, non è altro che il limite puramente astratto, teorico, di separazione tra il prima ed il dopo, il passato e l’avvenire. Perciò ammettere l’effettiva reale ed esclusiva esistenza dell’attimo fuggente, equivale, poiché il passato e l’avvenire non esistono attualmente, ad ammettere che non esiste nulla. È dunque necessario non farsi ingannare dalla consuetudine, sorta dai bisogni pratici della misurazione del tempo, e non dimenticare che i momenti non sono altro che delle entità fittizie, e che, effettivamente e conseguentemente, passato, presente e futuro o costituiscono un tutto continuo o non sono.

Questo continuo temporale trascorre, sempre nel medesimo senso; dimodoché, fissata un’origine ed un’unità di misura, basta un numero (una coordinata) a fissare la posizione di un istante qualunque rispetto all’origine o viceversa. Il fluire del tempo è dunque rappresentabile con il movimento di un punto che procede sempre in un medesimo verso sopra una linea (la quale può immaginarsi aperta come una retta, nel qual caso non si ripassa mai per uno stesso punto, o chiusa come una circonferenza, nel quale caso si ripassa infinite volte per uno stesso punto, od anche può immaginarsi che presenti ancor altri andamenti). Per chi non esce da questa linea, ossia chi vive nella linearità del tempo, il passato, il presente ed il futuro non esistono che come presente; o meglio, per esprimersi con le parole di S. Agostino, il presente esiste come intuito, il passato come memoria, il futuro come aspettazione.

Questo nel caso in cui la rappresentazione grafica corretta fosse quella rettilinea; ma la cosa cambierebbe già, in parte, se il tempo dovesse venire rappresentato, anche nel caso della intuizione umana, da una linea chiusa o da una linea intrecciata.

Ma, pur così stando le cose, ha senso ed è legittimo porsi il problema: questa linearità del tempo ha carattere relativo od assoluto? Il tempo, che per noi è lineare, lo è parimenti e necessariamente per ogni essere cosciente? Certo si è che in un iper-tempo, per esempio in un tempo a due dimensioni, la visione simultanea di più momenti o tratti diverrebbe altrettanto possibile come la visione simultanea di più punti o segmenti di una retta da un punto situato fuori della retta, e questo senza intaccare l’ordinamento di successione cronologica dei singoli punti od istanti.

Considerazioni analoghe si possono svolgere per lo spazio. Anche lo spazio si presenta come un continuum; ed i punti, le linee, le superficie ed i volumi geometrici non sono che delle astrazioni, dei concetti limite, enti geometrici con i quali si costruiscono delle geometrie, ossia delle scienze che non si occupano delle relazioni tra queste nozioni astratte e gli elementi sperimentali del mondo fisico, ma unicamente dell’incatenamento logico di tali nozioni tra loro. Per le necessità della vita pratica la determinazione della posizione relativa di un punto rispetto ad un altro porta, in base alla nostra intuizione dello spazio, ad assumere un punto come origine, tre direzioni passanti per esso come assi coordinati (cartesiani, ortogonali) ed una unità di misura sopra di essi. A differenza del tempo, però, possiamo fissare noi il verso sopra gli assi coordinati, e cambiarlo se ci fa piacere.

Queste tre nozioni, del continuo, delle tre dimensioni, e della misura, hanno delle relazioni interessanti con i sensi uma-ni, che il lettore potrà trovare svolte nel paragrafo concernente “il problema psicologico dell’acquisto delle nozioni spaziali” nell’opera “Questioni riguardanti le Matematiche elementari raccolte e coordinate da Federigo Enriques. Bologna 1912, Voi. I, Art. I”.

Le sensazioni generali tattili-muscolari, appartenenti a tutta la cute danno da sole quelle relazioni generali inerenti alle linee e superficie, che costituiscono in geometria la teoria del continuo, e che sono come il fondamento delle altre proprietà geometriche (le grafiche e le metriche). Se alle sensazioni generali tattili-muscolari si aggiungono quelle del tatto speciale, cioè dell’organo preso come sede di paragone costante (di solito la mano), si ottiene la nozione della congruenza, ossia le nozioni metriche, mentre le sensazioni della vista ci danno le nozioni grafiche e non le metriche. Così «i tre rami differenziatisi della Geometria, cioè la teoria del continuo, la Geometria metrica e la proiettiva, avuto riguardo all’acquisto dei loro concetti fondamentali, appaiono connessi a tre ordini di sensazioni: rispetto alle sensazioni generali tattili-muscolari, a quelle del tatto speciale e della vista». Ritroviamo dunque che le questioni proiettive sono funzioni del senso della vista; e perciò la nozione delle tre dimensioni (o per essere più precisi delle tre direzioni) dello spazio è una funzione del senso della vista.

Il tempo invece è principalmente connesso al senso dell’udito, il quale distingue la durata di un rumore, ed il ritmo o tempo musicale. Riassumendo, spazio e tempo hanno il carattere di un continuum; il tempo presenta la irreversibilità, differendo in questo dalle tre direzioni dello spazio, la nozione umana del tempo è unidimensionale, quella dello spazio tridimensionale; il tempo è principalmente connesso con l’udito, lo spa-zio con la vista. L’eterogeneità tra spazio e tempo appare dun-que abbastanza netta per mostrare che l’abbinamento dei due problemi dello spazio trascendente e del tempo trascendente, ed in particolare il collegare in una mutua dipendenza e soluzione i due problemi della quarta dimensione e dell’eterno presente, è ingiustificato ed arbitrario. La questione dell’esistenza di un ipertempo a due dimensioni è indipendente dalla questione di un iperspazio a quattro dimensioni; ed una soluzione positiva o negativa del problema della «quarta dimensione» non trascina con sé in una sorte identica la questione dell’«eterno presente», e viceversa.

Ed ora occorre mettere in chiaro un’altra faccenda.

Quando il Bozzano, citando il matematico inglese T.O. Todd, dice che le speculazioni dei matematici intorno ad una quarta dimensione dello spazio non servono per comprovare 1’esistenza concreta di questa dimensione, ha perfettamente ragione.

Per quanto possa sembrare paradossale ad un profano, è certo che la geometria oggi è una scienza puramente astratta, completamente indipendente da ogni intuizione dello spazio fisico; è una costruzione avente un puro valore logico da cui non è lecito dedurre nulla né in favore né contro questioni attinenti alla natura dello spazio fisico. «La verità è, dice il Whitehead in un suo ottimo libro (An Introduction to Mathematics by A. N. Whitehead, pag. 242-244) che la “spazialità (spaciness)” dello spazio non entra affatto nel nostro ragionare geometrico... La percezione spaziale accompagna le nostre sensazioni, forse tutte, certo molte; ma non sembra una qualità necessaria delle cose che esse debbano esistere in un unico spazio od in uno spazio di sorta (in one space or in any space)». E l’Einstein scrive: «Le proposizioni della matematica in quanto si riferiscono alla realtà non sono certe, ed in quanto son certe non si riferiscono alla realtà (La Géometrie et l’Experience par Albert Einstein. Paris 1921, pag. 4)». Perciò l’esistenza di una geometria di uno spazio a quattro dimensioni non prova nulla né a favore né contro l’esistenza di uno spazio concreto a quattro dimensioni e di una possibile nozione di esso. E quanto all’asserito carattere assoluto dello spazio infinito, se anche qui nulla si può dedurre dalla geometria al mondo fisico, è però certo che lo sviluppo della geometria non euclidea ha condotto alla nozione che si può dubitare dell’infinità del nostro spazio senza cadere in disaccordo con le leggi del pensiero e dell’esperienza (Riemann, Helmholtz). Così si esprime testualmente l’Einstein nel Cap. XXXI, intitolato: “la possibilità di un universo finito e ciononostante non limitato”, del suo libro già citato sopra la teoria della relatività. Il Bozzano non ha che da confrontare queste parole con le sue apodittiche affermazioni sulla realtà assoluta dello spazio e del tempo infiniti.

L’Ing. Amato ha poi perfettamente ragione di dolersi della terribile confusione che fa il Bozzano quando trasforma la questione della esistenza di un iperspazio a quattro dimensioni nella questione perfettamente assurda “della esistenza della quarta dimensione dello spazio”, dove egli sottintende che lo spazio è e non può essere che a tre dimensioni. Chiedere se nello spazio a tre dimensioni si possa trovare una quarta dimensione è infatti altrettanto assurdo quanto chiedere se una superficie può contenere dei volumi; ma è troppo facile demolire gli avversari attribuendo loro delle bestialità, e nella fattispecie nessuno ha mai pensato, come invece suppone il Bozzano (Mon. Oc. An. IV, N. 6, pag. 243), ad applicare ad una geometria a tre dimensioni l’ipotesi della “quarta dimensione dello spazio”. Se l’ipotesi dell’esistenza di uno spazio quadridimensionale consistesse veramente nel supporre che lo spazio a tre dimensioni sia a quattro dimensioni, il Bozzano avrebbe ragione di dichiarare tale ipotesi assurda ed impensabile; ma, anche se c’è qualcuno capace di fare simile confusione (conosciamo certi “grandi maestri”, che scribacchiano di aritmosofia, che son capaci di ben altro!), l’Amato non appartiene a questa categoria ed ha ben ragione di non voler esservi ficcato a forza.

Abbiamo visto sin da principio che per il Bozzano le due ipotesi dell’“eterno presente” e della “quarta dimensione dello spazio” sono impensabili, e perciò sono contrarie alla ragione ed alla logica, sono irrazionali e quindi da escludersi. Questo, dice il Bozzano, a differenza delle ipotesi inconcepibili (ma razionali e legittime), come quella della ‘‘onniscienza delle cause”, di cui ‘‘dobbiamo logicamente ammettere la possibilità, senza pervenire a comprenderla” (ibidem, pag. 243). Ora per dimostrare che queste due ipotesi sono indispensabili egli le assimila all’ipotesi che in un ‘‘mondo trascendentale possa esistere un’aritmetica diversa dalla nostra a norma della quale due più due sommano cinque” (ibidem, pag. 242); e su questa assimilazione poggia tutto il suo ragionamento per condannare come assurde ed impensabili dette ipotesi. Su questa equiparazione egli insiste a pag. 243: “perché tre dimensioni, anziché quattro o cinque”? Mi limito ad osservare in proposito come tale formidabile interrogativo equivalga a quest’altro: «Perché, perché, 2 più 2 sommano a quattro, anziché a cinque, o a 6, o a 7, e via dicendo?»; ed ancora, infine del medesimo articolo (ibidem, pag. 250): «Se vi fosse chi credesse dover rivendicare alla scienza ed alla filosofia il diritto di spaziare liberamente anche nelle altitudini caotiche della più scapigliata astrazione, allora io gli osserverei che egli in tal caso è tenuto ad accogliere per legittima anche l’ipotesi che in un mondo trascendentale 2 più 2 sommino a 5, o a 6, o a 7, e via dicendo, ipotesi in tutto equivalente a quelle dell’“eterno presente” e della “quarta dimensione dello spazio” visto che tutte e tre contengono il medesimo elemento contrario alla ragione, alla logica ed al senso comune».

Come si vede, il Bozzano afferma che queste ipotesi si equivalgono, ma non conforta con alcun argomento la baldanza, sicurezza ed insistenza di questa affermazione. Ed il grave si è che di giustificazioni non è possibile trovarne, perché si può dimostrare molto semplicemente che questa assimilazione è arbitraria ed errata.

Infatti, che due più due facciano quattro non è un’ipotesi che possa essere vera o falsa o sostituibile; perché quattro non è altro che il nome adoperato per indicare il risultato dell’operazione elementare che consiste nell'aggregare a due unità altre due unità del medesimo genere, e prima di dargli questo nome si definisce questa operazione e si dimostra resistenza e l’unicità del suo risultato. Quindi se al risultato (somma) di questa operazione si desse un altro nome (come effettivamente accade passando da una lingua ad un’altra), e lo si chiamasse Quattro con la maiuscola, o cinque con la ipotesi per il Bozzano impensabile, di cambiato non vi sarebbe che il nome. In simil modo i tedeschi adoperano la parola kalt (inglese cold) per indicare non il caldo ma il freddo, gli spagnuoli adoperano la parola aceite per indicare l’olio, ed anche noi diciamo che il pane è freschissimo quando sorte bollente dal forno.

Ma emettere l’ipotesi che la somma di due più due possa variare, non di nome, ma proprio di fatto, non si può perché non è lecito in matematica fare delle ipotesi in contrasto con teoremi precedentemente dimostrati; ed in questo caso verrebbe rinnegato il teorema di unicità della somma.

Nel campo dell’aritmetica (archimedea), dunque, non si può emettere l’ipotesi che la somma di due più due sia variabile perché c’è un teorema che dimostra l’unicità della somma. Ma che il risultato di una somma possa variare non è un’ipotesi impensabile; è anzi addirittura quello che avviene p.e. nella somma dei poligoni, dove per ottenere l’unicità del risultato dell’addizione di due o più poligoni è necessario introdurre il concetto di equivalenza e prescindere da quello di eguaglianza. Ora, nella questione della trascendenza dello spazio e del tempo non esistono teoremi di unicità che precludano il campo alle ipotesi, e perciò le ipotesi dell’ «eterno presente» e della «quarta dimensione» non sono affatto assimilabili all’ipotesi vietata che due più due facciano cinque; e non sono affatto ipotesi puramente verbali, destituite di qualunque valore. E non è vero che queste tre ipotesi contengano il medesimo elemento contrario alla logica, alla ragione ed al senso comune né che l’ipotesi dell’ «eterno presente» porterebbe alla soppressione del tempo.

Nel caso degli apporti la spiegazione per mezzo della smaterializzazione e successiva rimaterializzazione si presenta più plausibile di quella per mezzo dell’iperspazio a quattro dimensioni. Gli argomenti addotti dal Bozzano, specie nel suo ultimo articolo, in favore della prima di queste due ipotesi sono vera-mente di grande valore, pure non risolvendo affatto, come sostiene il Bozzano, la questione in guisa risolutiva. Questo per le ragioni che abbiamo esposto preliminarmente.

In favore dell’ipotesi della disintegrazione e reintegrazione molecolare successiva sta il fatto che un tale processo lo si constata già nelle apparizioni fantomatiche; contro di essa sta il modo brusco con cui compaiono e scompaiono gli apporti, il che è conforme a quanto accade quando si adagia o si asporta una riga da una superficie ed al modo brusco con cui è possibile fare apparire e scomparire dalla superficie di uno schermo le proiezioni luminose e le ombre degli oggetti. Notiamo en passant che quando il Bozzano se la piglia con coloro i quali a guisa di esempio ricorrono all’ipotesi dell’esistenza di esseri viventi a due dimensioni, vale a dire sprovvisti di spessore, dichiarandola al solito assurda ed impensabile, non ha riflettuto che nella nostra stessa vita quotidiana esistono degli esseri a due dimensioni, che presentano i caratteri precipui degli esseri viventi (mobilità ed intelligenza), e di cui abbiamo continua esperienza. Questi esseri misteriosi sono le ombre, in particolare le nostre ombre! E meglio ancora, i personaggi che vivono sullo schermo cinematografico.

Concedendo pure, dunque, che il fenomeno degli apporti si spieghi con l’ipotesi sostenuta dal Bozzano, la questione dell’esistenza di uno spazio (euclideo o no) a quattro dimensioni, ed in generale la questione della trascendenza dello spazio, resta sempre impregiudicata, e non può esser risolta che sperimentalmente. E con questo non intendiamo affatto e necessariamente dire mediante esperienze di laboratorio eseguite sopra oggetti e soggetti ed interpretate dall’intelligenza di un illustre signor scienziato osservatore.

Intendiamo anzi alludere alle esperienze interiori. Per esempio la sensazione di uscire per il di dentro che si prova nella fase iniziale di certe estasi (e che il Bozzano può procurarsi anche con una dose adeguata di certe erbe o principii, che non staremo a spiattellare) si inquadra molto male nella nozione ordinaria dello spazio.

Per conto nostro non ci è possibile dimenticare l’esperienza veramente eccezionale di cui avemmo la ventura di essere fatti partecipi circa quindici anni or sono. Un iniziato, che designeremo con le iniziali A. A., preso un foglio di carta, vi disegnò sopra una spirale ed accanto ad essa la spirale simmetrica (l’una destrorsa, l’altra sinistrorsa), e poi ci chiese se riuscivamo a concepirne delle altre di altra natura. Rispondemmo naturalmente di no. Ebbene, egli disse: guarda. Guardammo, e la nostra mente vide due altre spirali distinte tra loro e dalle precedenti, come la destrorsa lo era dalla sinistrorsa. Fu un lampo. Per quanto abbiamo cercato, dopo, di riafferrare o di richiamare alla memoria questa visione trascendentale (o se proprio si ritiene vantaggioso di chiamarla così, questa allucinazione), non siamo mai riusciti a riportare alla nostra coscienza quello di cui aveva riconosciuto l’evidenza, la naturalezza e la indiscutibilità. Alla nostra richiesta di una seconda rappresentazione, A.A. rispose bastava avere avuto una volta nella vita tale esperienza. Quanto abbiam raccontato, naturalmente, accadde essendo noi perfettamente svegli, sani, a posto, tranquillissimi e in piena vita «normale».

Ora la figura simmetrica di una figura piana rispetto ad una retta situata nel piano della figura appartiene anche essa a questo piano, e coincide con la simmetrica presa rispetto al piano ortogonale passante per la retta che funziona da asse di simmetria. Segue da questa osservazione che, se si immagina che per una retta di un piano passino infiniti piani perpendicolari al piano dato (come accade appunto in un iperspazio a quattro dimensioni), la figura simmetrica non varia al variare del piano ortogonale; è sempre quella stessa che si ottiene nello spazio a tre dimensioni (ed anche a due senza uscire dal piano); epperciò anche in un iperspazio a quattro dimensioni non è possibile ottenere per simmetria le due spirali che noi abbiamo mentalmente veduto. Non basta dunque ricorrere ad altre dimensioni. La faccenda trascende anche la nozione iperspaziale.

A chi abbia avuto simili esperienze la questione della «trascendenza dello spazio» si presenta con una certa urgenza ed esigenza; e non è affatto possibile sottoscrivere quanto scrive Vincenzo Cavalli ed il Bozzano riporta aderendo: «Noi siamo e restiamo esseri spaziali e temporali, chiusi nella limitazione e costretti alla divisione; ed ogni sforzo speculativo per rompere la cerchia della nostra natura psicologica ed oltrepassare l’orbita della nostra potenzialità logica è vano, e cade nel vuoto...». Sono queste affermazioni puramente arbitrarie, inspirate ad una mentalità materialista, degna invero di chi cerca le prove materiali dell’esistenza degli spiriti e non concepisce che si possano compiere degli sforzi essenzialmente diversi dagli sforzi speculativi. È vero che il feto, per quanti sforzi possa tentare, non può superare la vita uterina ed esperimentare quella extra uterina, se non morendo alla vita uterina e nascendo alla vita del giorno (così almeno si crede generalmente); ma sarebbe un errore lasciarsi trascinare da una analogia mal posta a sostenere che in simil guisa l’uomo non può superare la vita umana se non morendo di morte fisica. Non sempre è logico basarsi sull’analogico; né sempre è necessario. Dobbiamo dunque ricordare che esiste la morte iniziatica, la morte dei misteri (la piccola morte di Jack London), la morte dell’uomo vecchio secondo la terminologia cristiana (da intendere però esotericamente e non moralmente e devozionalmente)? Dobbiamo dunque ricordare che esiste la nascita alla «vita nuova», la palingenesi pitagorica (che non è la reincarnazione), la seconda nascita dell’uomo nuovo, la resurrezione dei misteri?

Il Myers fa l’osservazione che «in un universo dove opera inspiegata una gravitazione istantanea lamenti umane non hanno bisogno che si apra loro la via al riconoscimento di altre misteriose trasmissioni, e debbono ritenersi pronte a concepire altri ambienti e coesistenze invisibili, ed in un certo senso a tenersi svincolate dalla concezione dello spazio, considerato co-me un ostacolo alla comunicazione o cognizione» (Frederic W.H. Myers: Human Personality and its survival ofbodily death, 1903; Vol. II, pag. 262). Conseguentemente il Myers ammette l’ipotesi della quarta dimensione (cosa che il Bozzano, pur citando il Myers, non ha pensato a riferire), e precisamente dice che «come il bambino non riesce ad afferrare la terza dimensione, così può darsi che noi (adulti) stiamo fallendo ad afferrare la quarta, o qualunque sia la legge di quella conoscenza più alta che principia a rapportare frammentariamente all’uomo quello che i suoi sensi ordinarii non possono discernere» (ibidem, Voi. I, pag. 277). Più difficile appare al Myers una simile emancipazione dalle limitazioni del tempo; più difficile ma non impossibile. «Immaginare il futuro come noto, scrive il Myers, tranne che per inferenza e contingentemente, a qualsiasi mente, è indurre subito il ferreo cozzo tra il libero arbitrio ed il fato determinato, precognizione assoluta» (ibidem, II, 262); ed «ancora più sgradito è l’avvento di una ulteriore veduta, che il così detto futuro esiste già di fatto, e che l’apparente progressione del tempo è una sensazione subiettiva umana; e non inerente all’universo come quello che esiste in una Mente Infinita» (ibidem, II, 262).

Come si vede, l’atteggiamento del Myers non è categorico; egli adduce ragioni estrinseche alla questione di fatto come quella del contrasto tra il libero arbitrio e la fatalità, oppure fa questione di gusti, di gradimento. La sua opposizione è così poco recisa che arriva a considerare «la totalità dell’esistenza ter-rena come un fenomeno assolutamente istantaneo» (II, 273).

A questa concezione del Myers il Bozzano si oppose nel suo libro (Bozzano Ernesto: Dei Fenomeni premonitorii, Ro¬ma 1914, pag. 7) adducendo che «se così fosse, ne verrebbe che la coesistenza nel mondo fisico della totalità degli atti di ogni singolo individuo, non potendosi scindere dalla corrispondente coesistenza di tutti gli stati di coscienza correlativi agli atti stessi, ne conseguirebbe che l’Io trascendentale di ogni bimbo in fascie si troverebbe a passare istantaneamente attraverso a tutti gli stati di coscienza corrispondenti a tutte le vicende della vita!». Ma «in questo caso, dice il Bozzano, come concepire la lotta per resistenza? Il progresso umano? La responsabilità morale ed il perfezionamento spirituale dell’individuo?». Sono argomenti, questi, completamente estranei alla questione e così poco consistenti, quanto quelli invocati da Lattanzio e S. Agostino per negare la possibilità dell’esistenza degli antipodi.

Nei suoi scritti più recenti, a dire il vero, pare che il Bozzano abbia gettato a mare almeno una parte di questa zavorra, o per lo meno si sia reso conto che tali argomenti non si possono apportare nel campo dell’analisi scientifica; sicché le obbiezioni che egli ora solleva contro questa ipotesi del Myers sono assai più appropriate e ne toccano effettivamente il lato debole. Diciamo però che il cambiamento è solo parziale perché ancor oggi egli persiste ad affermare che accogliendo l’ipotesi dell’onniscienza delle cause «giova rilevare che si otterrebbe un risultato teorico importante, ed è che verrebbe annullato di colpo il formidabile quesito del “Libero Arbitrio” di «fronte al “Fatalismo”, in quanto tale quesito si connette alle manifestazioni premonitorie». Questo argomento, che si riferisce ad una questione estranea od almeno secondaria, è il solo che il Bozzano adduce a sostegno dell’accettazione dell’ipotesi dell’“onniscienza della cause”; giacché non si chiama argomentare il limitarsi ad affermare che essa è legittima (Mon. Oc. An. IV, N. 6, pag. 250), che appare razionale e necessaria (ibidem, pag. 248), e che è necessario ammetterne la possibilità (ibidem, pag. 242); affermazioni che non sono neppure troppo concordanti e che lasciano travedere che il pensiero del Bozzano in fondo non è ben definito in proposito.

Se non che il conferire alla coscienza subliminale umana il potere divino ed infinito dell’“onniscienza delle cause” è sembrato un po’ forte al Bozzano; e nel suo libro ha cercato di ovviare all’inconveniente introducendo altre ipotesi ausiliarie: la fatalità di una singola vita umana, la reincarnazione, la scrittura degli eventi nel piano astrale, e la trasmissione della premonizione da parte di entità elevate, e questo specialmente per spiegare i fenomeni di premonizione “triviale” ossia di scarsa importanza personale per il sensitivo.

In questo modo, però, non si fa che introdurre elementi ed ipotesi superflui, ed eludere e spostare la vera questione; per-ché, sia la coscienza subliminale, siano le entità elevate, sia il Padre Eterno in persona a servirsi dell’“onniscienza delle cause”, resta sempre a sapere come diavolo fanno, e da esaminare se questa deduzione razionale da causa ad effetto sia davvero sufficiente ed adeguata e tale da escludere il superamento della linearità del tempo.

Più recentemente, per liberarsi dall’appunto di conferir l’onniscienza divina alla subcoscienza umana, il Bozzano ha preso la medesima posizione che è stata assunta dall’Osty nel suo recente libro (Dr. Eugène Osty: La connaissance supranormale Paris (Alcan) 1923), affermando cioè che le previsioni dei sensitivi si estrinsecano nei limiti relativamente angusti delle vicende riguardanti le singole personalità umane in rapporto ai sensitivi stessi. Questo non è esatto, e lo vedremo con degli esempi. E così pure non è pacifica l’esattezza dell’altra circo-stanza affermata ed addotta dal Bozzano e dall’Osty, e cioè che i sensitivi scorgano gli eventi futuri di più in più chiaramente a misura che gli eventi stessi si avvicinano nel tempo, circostanza, dice il Bozzano, che farebbe presumere come essi prevedono effettivamente il futuro in forza della legge di causalità, quasiché proprio non vi potesse essere altra spiegazione per tale circostanza (supponendo che esista). Basta riflettere, invero, che anche nel fenomeno della visione ed in quello dell’audizione la percezione diviene col crescere della distanza sempre meno chiara e particolareggiata, per ragioni inerenti al funzionamento dei sensi ed alle leggi dell’ottica e dell’acustica, senza evidentemente che entrino in giuoco processi deduttivi di sorta; e, se questo accade per la visione, perché qualche cosa di analogo non potrebbe accadere per il fenomeno della previsione, con pari esclusione di ogni processo razionale?

Un altro argomento accampato dal Bozzano per combattere l’ipotesi della «coesistenza del futuro nel presente» si è che con essa non si spiega l’anomalia che in molti casi di fenomeni premonitorii sfugge alla previsione l’essenziale. Egli dice (Dei fenomeni premonitorii, pag. 144) che «in tal caso dinanzi alla visione sensitiva dovrebbe (?) presentarsi l’intero quadro rappresentativo dell’evento futuro, e perciò non si comprenderebbe come i sensitivi abbiano a scorgere anticipatamente i particolari insignificanti del contorno ed a rimanere subbiettiva- mente ciechi dinanzi alla rappresentazione centrale dell’evento». Ora, a parte il dovrebbe, non si potrebbe per avventura fa-re l’ipotesi che l’intiero quadro si presenti, ma non venga ricordato? E perché mai questa anomalia dovrebbe infirmare l’ipotesi della coesistenza del futuro col presente e non infirmerebbe per niente la teoria della deduzione razionale in base alla legge di causalità, come se anche in tal caso non apparissse naturale che dovrebbe essere percepito di preferenza l’essenziale e non il secondario? Ma last but not least, è poi così sicuro il Bozzano di sapere cosa è l’essenziale?

Come si vede sarebbe esagerato affermare che questa ipotesi dell’«onniscienza delle cause» risponde vittoriosamente a tutte le esigenze ed a tutte le obbiezioni. Ma un argomento ancora più forte di quelli già riportati per non attribuire, a nostro modesto avviso, almeno una certa classe di fenomeni premonitori ad una deduzione razionale in base alla legge di causalità, è questo: Sino ad oggi non si è ancora trovato uno straccio di sensitivo il quale, nei veri e propri casi di fenomeni premonitorii (che richiederebbero una formidabile esplicazione di una portentosa possanza di deduzione), si sia mai accorto dello svolgersi di simile processo nella sua coscienza. Non è strano che tutti i sensitivi siano così poco... sensitivi?

Se non che ci si può obbiettare che così deve essere, per-ché, quando ci fosse il sintomo di un ragionamento anche fuga-ce, sarebbe evidentemente lecito classificare il fenomeno tra le cerebrazioni subcoscienti e non vedervi affatto un caso di premonizione. Occorre quindi distinguere tra fenomeni pseudo-premonitorii e fenomeni premonitorii genuini; e la caratteristica di questi ultimi sarebbe quella di non presentare la menoma traccia di lavorio razionale subcosciente. È una bella caratteri-stica, non c’è che dire, per dei fenomeni che si vorrebbe spiegare mediante una esplicazione quasi infinita delle capacità razionali di deduzione!

Alcuni esempi mostreranno chiaramente la differenza tra i fenomeni premonitorii genuini e quelli apparenti. Potremmo spigolare questi esempi scegliendoli opportunamente tra i casi riportati dal Myers nei “Proceedings of thè S.F.P.R.”, o tra quelli riportati nell’opera del Myers stesso già citata od in quella del Bozzano; preferiamo invece riportare dei casi tratti dal bagaglio delle esperienze personali di un intimo amico di cui possiamo rispondere tale e quale come se si trattasse di noi stessi. Chi non si fidasse può trovare nelle raccolte citate ed in altre ancora casi del tutto consimili ai seguenti:

Caso I. - «Sono sempre stato particolarmente sensibile alle perturbazioni atmosferiche; l’avvicinarsi di un temporale mi dà un senso di disagio, di malessere, di eccitazione che scompare con le prime scariche di elettricità e colla caduta della pioggia. Accade talora che, comparendo tale malessere anche qualche ora prima del temporale, io non ne comprenda sul momento la ragione; ma accade anche talaltra volta che, non potendovi essere altra causa determinante di questo malesseri ne posso de-durre l’approssimarsi di una tempesta e fare addirittura il profeta. Così, in una bella serata dell’estate 1917, nella zona di Asiago, sedendo a mensa della mia compagnia (30a Minatori), ed essendo ad un tratto sopravvenuta con particolare intensità tale condizione, annunciai ai colleghi l’imminente scatenarsi di una violenta tempesta, che la quiete e la serenità atmosferica sembravano escludere. Dopo meno di un’ora si scatenò una tale bufera che gran numero di abeti fu sradicato dalla forza del vento ed il torrente Guelpach, gonfiatosi, asportò dei tratti di strada».

Caso II. - «Il 18 maggio 1896 transitavo al tramonto per il Ponte alla Carraia a Firenze; e guardando lo sfondo dell’orizzonte verso le lontane Alpi Apuane ne rimarcai l’aspetto fosco ed acceso. Non so come, ne provai una strana impressione, ed esclamai: Che tempo da terremoti! Era una frase sciocca, per-ché di terremoti non ne avevo per anco alcuna esperienza. Ma il terremoto venne, ed abbastanza violento, due o tre ore dopo la previsione fattane».

Caso III. - «Nell’estate del 1911 mi trovavo a Viareggio ed avevo preso l’abitudine, tutti i giorni, verso le due del pomeriggio di andarmene a fare la siesta sulla rotonda dello stabilimento Felice. A quell’ora non c’era mai nessuno; ed era un vero godimento sdraiarsi sopra un sedile o su qualche cordame al fresco del maestrale che si leva a quell’ora, fumando una sigaretta, digerendo in pace e lasciandosi pervadere del senso panico e sereno del cielo e del mare all’intorno. Un giorno, mentre ero in tal modo occupatissimo a non far nulla, arrivò un ragazzetto di una diecina d’anni con tanto di lenza, e si mise coscienziosamente a pescare a pochi metri da me. Ma passarono circa tre quarti d’ora senza che il piccolo e paziente pescatore avesse preso nulla. Ad un tratto, egli tirò su la lenza per verificare se c’era ancora l’esca, ed io che sino allora, assorto nelle mie rêveries, non avevo aperto bocca mi sentii spinto a dire: Presto, presto, cala la lenza, che ora prendi il pesce. Il consiglio fu immediatamente eseguito: e già stavo rimproverando a me stesso la leggerezza con cui senza motivo mi ero lasciato sfuggire quel discorso pazzesco, quando già il ragazzo, tutto felice, tira-va su la lenza. Era stato un attimo; calare la lenza e prendere il pesce era stato tutt’uno. Il sistema parve eccellente al piccolo pescatore che, staccando il pesce dall’amo, mi supplicava: Me lo ridica, me lo ridica! Sensibilità? Onniscienza delle cause? Certo sentii, e non ragionai; e sentii così nettamente e sicura-mente da non esitare a manifestare la sensazione, soverchiando lo scetticismo della ragione, che per una volta tanto non potè predominare».

Il primo di questi fenomeni appartiene indubbiamente alla categoria delle previsioni apparenti. In questo caso la previsione è ottenuta mediante l’osservazione, l’analisi, e l’interpretazione di una speciale condizione di sensibilità. Anche nel secondo caso ci troviamo di fronte ad una forma di sensibilità, rara negli uomini, ma consueta in molti animali; mancano però in questo caso le anteriori esperienze che nel caso precedente consentivano la previsione razionale dell’evento. Nel III caso l’evento previsto si verificò a distanza di tempo così minima dalla previsione da fare includere questo fenomeno tra quelli di eccezionale sensibilità piuttosto che tra quelli premonitorii. Carattere comune di questi tre casi è che la previsione è stata fatta a poca distanza di tempo dall’evento, ed in piena coscienza normale.

Ecco ora alcuni casi di vera e propria premonizione:

Caso IV. - «Alla fine del 1917 prestavo servizio come ufficiale nella VII Sezione Fonotelemetrica, in Val Lagarina. In una delle ultime notti dell’anno sognai di trovarmi insieme ad un mio fratello ufficiale dei Bombardieri, che in quel tempo era addetto al Comando del X Raggruppamento Bombardieri, in Vicenza. Eravamo insieme alla sua mensa quando ad un tratto la luce elettrica si spense per tre volte di seguito. Era il segnale convenuto (ma da me ignorato) dell’imminente arrivo degli aeroplani nemici. Tutti si alzarono; ed io seguii mio fratello. Scendemmo le scale, ed uscimmo all’aperto. Nell’oscurità quasi completa ci avviammo correndo verso un vicino rifugio. Vi era da traversare una piazza a me ignota, costeggiata da un lato da un porticato, di cui si intravedevano gli archi. Ad un tratto di dietro una colonna sbucò una persona e, sia per la fretta che per la oscurità, urtò violentemente in mio fratello, che cadde a terra. Mi fermai, e feci per aiutare mio fratello a rialzarsi, dubitando si fosse fatto del male. Ma si rialzò subito, dicendo che non era niente, e riprendemmo la corsa, arrivando all’entrata del rifugio che già il rombo dei motori ed il fragore delle prime bombe risuonava per l’aria.

Questo il sogno, vivissimo. Talmente vivido, che ne rimasi turbato, e pensai che effettivamente fosse accaduto qualche guaio a mio fratello, ed io ne avessi avuto telepaticamente percezione. E poiché sapevo che alla Prefettura di Vicenza si trovava un vecchio amico, il Comm. Giulio Bertoldi, inviatovi dietro sua richiesta di rendersi utile prestando servizio in zona di guerra, gli scrissi per avere informazioni. Ebbi sollecita risposta, gli aeroplani erano effettivamente venuti (non era un evento eccezionale), però a mio fratello non era accaduto nulla; chi aveva sofferto invece, per minutissime scheggie di vetro ad una mano, era stato proprio il Bertoldi.

Non pensai più che tanto al sogno; e mi accingevo, verso la metà di Febbraio 1918, ad andare nell’attesa licenza, quando un imprevisto fonogramma di servizio mi ordinava di recarmi sul Piave ad assumere il comando della 1a Sezione Fonotelemetrica. Dalla Val Lagarina al medio Piave la strada passava per Vicenza, dove sostai per pernottare e riveder mio fratello. Ora, quello che accadde quella sera è inutile che lo racconti; fu il mio sogno di due mesi prima che si realizzò in tutti i suoi particolari, con la stessa identità di due proiezioni successive della stessa film cinematografica. E del sogno, e della sua identità con l’evento che si stava svolgendo, mi ricordai ed ebbi contezza appena la luce elettrica per tre volte si spense. Ho avuto altre volte esperienze consimili, ma questo è l’ultimo caso, che ricordo meglio, e che mi sembra più importante perché avendone scritto, riferendo il sogno, due mesi prima al Comm. Bertoldi, è necessario escludere l’ipotesi della paramnesia».

Questo è un autentico e tipico caso di premonizione. Qui è un intero quadro di eventi che viene preveduto, e che si ripete nella realtà del tempo lineare con meccanica ed assoluta precisione. È insomma la stessa cosa, vista due volte. Di ragionamento nessuna traccia. Vi è poi da notare che questo esempio non si svolge affatto, come sostengono l’Osty ed il Bozzano, nei limiti relativamente angusti delle vicende riguardanti le singole personalità messe in rapporto coi sensitivi. Infatti, dato il concatenamento delle azioni belliche su tutto l’immenso fronte, ed il correlativo spostamento e dislocazione dei singoli reparti nostri e nemici, prevedere due mesi prima anche lo spostamento di un solo individuo, nonché un’incursione aerea nemica in un determinato punto e proprio quell’unica sera in cui i due fratelli erano insieme, nonché il passaggio di quell’ignoto passante ed il suo sbucare dal didietro di quella colonna, coinvolgeva in realtà la conoscenza delle cause, delle azioni e rea-zioni su tutto il fronte di guerra, la connessione delle vicende di milioni di uomini, senza contare la considerazione della possibilità o meno di eventi politici all’interno, nonché delle condizioni metereologiche. E simile spaventosa opera di deduzione razionale sarebbe stata fatta senza averne coscienza, senza neppure risentire il menomo dolor di capo?

Si potrebbe dunque essere omniscienti, sapere tutto, ad eccezione di una cosa sola: di saper tutto?

Sensazione profetica del futuro ci è accaduto di avere an-che in piena coscienza normale e ci limiteremo a riferire che in un nostro articolo scritto nell’Ottobre 1914 e pubblicato nella primavera del 1915 nel 3° numero della rivista «Salamandra» parlammo esplicitamente del «futuro Congresso di Parigi» per le trattative di pace. Questo a quattro anni di distanza, come si può constatare. Ma ben altrimenti maravigliosa fu la predizione fatta su questo stesso argomento dall’iniziato A.A., di cui abbiamo parlato a proposito della trascendenza dello spazio.

Verso la fine del settembre del 1917, certamente prima di Caporetto, egli ci inviò una sua fotografia, sopra la quale a grandi caratteri e di traverso erano scritte le iniziali C.X. II, seguite ciascuna da un punto (tranne la I di mezzo), ed in fine da un punto interrogativo. Sotto stavano le iniziali del nome. Nella lettera che accompagnava la fotografia, egli ci invitava ad indovinare il significato di quella scritta misteriosa, che sembrava indicare il numero 112 scritto alla romana. Provammo, ma ogni tentativo rimase infruttuoso (e non poteva essere diversamente), e per quanto facessimo ed egli ce ne richiedesse non potemmo venire a capo di quel puzzle. Finimmo per concludere, indispettiti, che certe forme di mistero non parevano neppure di buon gusto.

Passarono gli anni di guerra ed anche una parte dei mesi dell’armistizio o pace; ed un giorno, che quasi avevamo dimenticato cotesto episodio, A.A. tornò sopra l’argomento, domandandoci se eravamo poi riusciti a decifrare il mistero. Rispondemmo che avevamo financo dimenticato quali lettere fossero, ma che conservavamo la fotografia. Rintracciatala, e portatala a lui, egli dette questa interpretazione che si riferiva mirabilmente alla riunione politica di quel tempo a Parigi: C = Consiglio, X = dieci, II = due, ossia due rappresentanti italiani al Consiglio dei Dieci; evento che si svolgeva in quel momento.

Siamo qui in presenza della predizione oracolare classica, in una forma molto meno sibillina di molti famosi oracoli dell’antichità. E si vorrà convenire che nel 1917 non era facile prevedere delle circostanze così minute delle trattative di pace.

Un altro caso di profezia veramente meravigliosa, anche esso relativo alla guerra, si manifestò in una seduta medianica. Lasciamo la parola al protagonista dei casi già riportati.

Caso V - «Mi trovavo da circa un mese a San Martino Buon Albergo, presso Verona, addetto al Comando del Gruppo di sezioni fonotelemetriche della 1a Armata, comandato dal Ten. Ing. Menotti Riccioli di Firenze, ottimo amico mio. La se-de del nostro ufficio dava sulla ferrovia, dove da settimane era un gran transito di uomini e di materiale per l’imminente ed attesa avanzata. La sera del 20 Ottobre 1918, al Riccioli prese la fantasia di fare una seduta spiritica. Il suo desiderio fu condivi-so ed accettato dal sergente e dal caporal maggiore dell’ufficio, e poiché nessuno dei tre aveva pratica della cosa insistettero perché anche io partecipassi alla seduta. Per contentarli acconsentii. Fabbricato un trespolo o tavolino di circostanza a tre gambe, ci sedemmo attorno ad esso; ma dopo tre quarti d’ora di attesa, seccato del risultato nullo, me ne andai. Gli altri tre continuarono; e la seduta deve essere stata interessante davvero, perché la mattina dopo li trovai tutti commossi, e sconvolti dall’impressione. Taluno aveva pianto per l’emozione. Mi dettero, la mattina del 21 Ottobre 1918, il verbale dove era ripor-tato il dialogo svoltosi tiptologicamente tra il Riccioli e lo spirito di «Mazzini». In questo verbale, che deve trovarsi ancora tra le mie carte del tempo, c’era preannunciata di giorno in giorno la cronaca o per dir meglio la storia di quello che stava per ac-cadere per lo spazio di oltre venti giorni. C’era la data d’inizio dell’offensiva, il passaggio del Piave, l’entrata in Vittorio Veneto, la data dell’armistizio, la data dell’entrata in Trento ed in Trieste, la data dell’armistizio tedesco, quella dell’abdicazione del Kaiser, e vi era preannunciata la rivoluzione in Germania, ecc.... Insomma un tale blocco di avvenimenti, così strepitosi, rapidi e definitivi, che, nonostante la grande nostra fiducia nell’azione che sapevamo imminente, sembrava follia sperare. Quella stessa mattina capitò il Ten. Padoa, matematico ed astronomo, che fu poi addetto all’Osservatorio di Roma, e gli narrammo il tutto. Il Ten. Padoa, molto più scettico di noi tutti, prese ad ogni modo nota delle predizioni, e dovette poi arrendersi all’evidenza dinnanzi al verificarsi prodigioso degli avvenimenti previsti. Né il dialogo-profezia si arrestava lì. A richiesta del Riccioli, «Mazzini» fece le profezie relative al dopo guerra, annunciò un periodo incerto di circa tre anni, ma escluse categoricamente (con disappunto di taluno dei presenti), l’avvento della repubblica in Italia, affermando che la monarchia avrebbe seguitato a sussistere nonostante il periodo critico.

Questi tre casi di premonizione, così diversi nella modalità dell’esplicazione (sogno, oracolo, medianità) si riferiscono alle grandi vicende belliche e politiche svoltesi negli ultimi anni; e la complessità delle cause che vi entrano in giuoco è tale che spiegare queste premonizioni con l’ipotesi dell’«omniscienza delle cause», ossia vedere in esse il risultato di una deduzione razionale sulla base della legge di causalità ci sembra impresa disperata. Notisi poi che l’ultimo esempio non si riferisce menomamente alle vicende personali di alcuno.

Fino ad ora ci siamo astenuti, del resto, dall’entrare in me-rito circa la «legge di causalità»; ma, pure astenendoci dall’addentrarci in una questione così spinosa, non possiamo tacere che il concetto stesso di causalità, di relazione di causa ad effetto, che presuppone una precedenza temporale della causa, ci sembra incomprensibile se non si accetta l’idea di un tempo «continuo», nel quale passato e futuro siano, alla pari del presente. Insomma il cercare o il credere di eludere il problema della trascendenza del tempo nella questione particolare dei fenomeni di premonizione, attaccandosi all’ipotesi dell’omniscienza delle cause e quindi della causalità ci sembra una illusione; poiché il problema della trascendenza del tempo torna ad affacciarsi inesorabile in relazione alla stessa legge di causalità.

I casi nei quali invece della successione temporale si presenta la «simultaneità» di percezione sono del resto assai numerosi; e lo stesso Bozzano ha osservato «come tutto concorre a dimostrare che le percezioni psichiche in ambiente spirituale, presentino la peculiarità di estrinsecarsi in termini di «simultaneità», contrariamente alle analoghe percezioni in ambiente terreno, le quali si estrinsecano in termini di successione». (Cfr. Luce ed Ombra Novembre 1925, pag. 560). Ed osserva ancora come tali modalità di percezione «sintetica» si realizzino in guisa eccezionale anche durante l’esistenza terrena; e ricorda il fenomeno ben noto della visione panoramica dei moribondi, i quali percepiscono subbiettivamente, in termini di simultaneità, l’intera successione degli eventi della loro esistenza.

Un altro fenomeno parimente inspiegabile con l’intervento delle sole facoltà razionali è quello presentato dai calcolatori prodigio, tipo Inaudi, i quali con una rapidità vertiginosa, quasi istantaneamente, danno il risultato di operazioni assai com-plicate da eseguire sopra numeri composti anche di un grande numero di cifre, le quali, eseguite per via ordinaria, con l’ausilio magari delle tavole di logaritmi ed anche delle macchine calcolatrici, richiedono tempo anche da parte di provetti calcolatori.

Il superamento delle ordinarie limitazioni del tempo da parte della coscienza umana si delinea dunque e si impone in casi numerosi e svariati: fenomeni di premonizione vera e pro-pria, in sogno, da svegli, per via medianica e per via esoterica, simultaneità di percezione, visione panoramica dei moribondi, visione sintetica degli ambienti spirituali, istantaneità di calcolo da parte dei calcolatori prodigio, istantaneità di trasmissione della gravitazione. La questione della trascendenza del tempo si presenta con una esigenza ed insistenza che sarebbe vano non riconoscere.

I fenomeni premonitorii tipici presentano poi, come abbiamo già rilevato, l’importante caratteristica della ripetizione così assolutamente esatta, anche nei menomi particolari del quadro degli eventi preveduti, da dare al sensitivo l’impressione di vedere due volte la stessa cosa. Questa precisione assoluta ed il fatto che nessun sensitivo ha il senso di percepire per mezzo di deduzioni razionali, ma sibbene di vedere semplicemente, come se assistesse all’evento stesso, escludono, sempre a nostro modesto avviso, la teoria dell’ “omniscienza delle cause” dal novero di quelle che possono spiegare con una certa plausibilità i fenomeni premonitorii; ed escludono non solo la necessità ma la convenienza di ricorrere ad un’ipotesi riconosciuta inconcepibile dagli stessi suoi sostenitori.

L’unico merito di questa ipotesi, in definitiva, risulta quel-lo di permettere a coloro che, come i materialisti, accettano il postulato della realtà assoluta dello Spazio e del Tempo, quali son percepiti dagli uomini, di restare tenacemente abbarbicati a cotesto loro feticcio.

Prima di accomiatarci dal lettore dobbiamo chiedergli scusa di aver troppo lungamente abusato della sua pazienza intrattenendoci così ampiamente sopra la questione della trascendenza dello spazio e del tempo. In cambio, prendiamo solenne impegno di non tornare più sull’argomento, neppure se ci fossimo tirati per i capelli.

Non è stato nostro proposito, invero, riaccendere la pole-mica svoltasi in queste pagine tra l’Amato ed il Bozzano, né di entrare in lizza contro l’uno o contro l’altro; ma semplicemente, astrazion fatta dalle persone, abbiamo inteso apportare impersonalmente esperienze e ragioni a sostegno della concezione spiritualista ed in opposizione alle affermazioni o denegazioni arbitrarie di coloro che sostengono la tesi ristretta e materialista della sola reale esistenza di uno spazio ed un tempo assoluti. E, poiché la questione della “quarta dimensione” e quella dell’ “eterno presente” non sono questioni da decidersi per licitazione privata tra due contendenti, ma questioni che interessano tutti ed in particolare i lettori di “Mondo Occulto”, ci è sembrato non solo opportuno quanto legittimo di interloquire, per mostrare l’inconsistenza di asserzioni che, data l’autorità di chi le sostiene, corrono l’alea di essere accettate dai molti un po’ inclini a giurare in verba magistri.

Nei trattati di fisica ed in quelli di fisiologia si sorvola sopra il mistero che avvolge il fenomeno del raddrizzamento delle immagini, che riporterebbe immediatamente ad un ribaltamento in uno spazio a quattro dimensioni; ma il trattare di questo problema ci avrebbe obbligati ad entrare in un campo in cui non ci sentiamo sufficiente competenza; ce ne siamo quindi astenuti per evitare che potesse essere rivolto, anche a noi, l’ammonimento di Apelle al suo ciabattino: Ne sutor ultra crepidam.

Del resto, anche trattando più che altro del lato matematico e fisico della questione in cui non manca, a noi, una qualche competenza, ci siamo astenuti dall’apportare nuove tesi e teorie, e ci siamo limitati a sostenere e mostrare che bisogna lasciare aperta quella porta che il Bozzano e i materialisti vogliono sbarrare per forza. Sottomettiamo al giudizio dei lettori le ragioni che abbiamo addotto; ci si dimostri che non son valide, e renderemo di buon animo grazie a chi ci toglierà dall’errore. Ma, ci sia consentito di prevederlo, abbiamo gran timore che ai nostri argomenti non si possa rispondere contestandoli razionalmente con argomenti solidi, pertinenti e ragionevoli e che solo ci si risponda con affermazioni gratuite, discorsi a vanvera, divagazioni, appelli alla morale, alla santa causa e, peggio ancora, con reazioni irrazionali e sentimentali. Se questo avvenisse... ci sentiremmo, evidentemente, ancora più sicuri di avere ragione.

Nelle scienze logico-sperimentali la sovranità Spetta all’esperienza, e di fronte ai fatti ed alla verità non possono esistere cause da difendere, né sono ammissibili i partiti presi. Quando i pitagorici scoprirono che la diagonale del quadrato era incommensurabile col lato, la loro concezione geometrica dei segmenti (costituiti da un numero finito di punti) che stava alla base della loro geometria e quindi anche della loro filosofia, ne venne infirmata, e fu necessario abbandonarla. Quando, dopo venticinque secoli di studii, si é riusciti a mettere in chiaro la vera natura del rapporto della circonferenza al suo diametro, tutti coloro, che si ostinavano a volere risolvere il problema della quadratura del cerchio con la squadra e con il compasso e con equazioni a coefficienti razionali, dovettero desistere dalle loro pretese.

In simil modo, oggi si affaccia, attraverso ad Einstein, la necessità di concepire l’universo finito ed a quattro dimensioni, assimilabile solo approssimativamente ad un mondo a tre dimensioni, in quel modo che una piccola porzione di superficie sferica è assimilabile ad una porzione di piano, talché il principio di Galileo e la teoria newtoniana son vere solo approssimativamente.

Ed in simile modo, ancora, i fenomeni di cui ci siamo intrattenuti fanno presentire la necessità di fare un passo ancora più lungo, di distaccarci dalla concezione empirica, grossolana e consuetudinaria dello spazio e del tempo assoluti, e di lasciare che nella coscienza, in sostituzione della visione frammentaria ed analitica del tempo e dello spazio, affiori la percezione sintetica, la visione illimitata, ciclica del terzo occhio, l’occhio di Shiva, l’occhio ciclopico, titanico di coloro che non sono soltanto terrigeni, ma, come i ciclopi esiodei e gli iniziati orfici, sono figli di Urano e di Gea, della madre terra e del cielo stellato. Ci è lecito, dunque, far nostre le profonde parole del sessantaquattresimo capitolo del «Libro dei Morti»: “Io sono l’ieri, l’oggi e il domani, ed il potere della rinascita. Conosco gli abissi è il mio nome”.

 

 

 

 

 

 



* Mondo Occulto - Anno VI, Marzo-Aprile 1926, n. 2.


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Al sole

 

O potentissimo

Che illumini il cielo

Ancor prima di apparire

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Tu sei il grande e l’immenso

il meraviglioso dispensatore di vita

e tu vivi dell’incommensurabile amore

che diffondi tra i tuoi figli attoniti e sonnolenti

senza mai cessare

nella luce e con la luce

di crescere nel cielo

in beneficio dei figli tuoi

potentissimo padre

 

Oggi nel giorno di Mercurio alato